
Paola Turroni, Nel volto delle bestie (poesie inedite)
O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno
DANTE, V canto dell’inferno (Francesca da Rimini)
Hai mandato a gambe all’aria il fatto
si è aperto la strada e lo sterno
si è spaccato
in due perfette metà
in due barche di gloria
e l’urlo della bestia è salito fin sopra il monte
ha stroncato l’attesa ha rifatto la strada
ha fatto gli odori sul fuoco
ha pianto
ha insinuato
ha fatto l’eco alle stelle spente
il mio urlo tutto.
Stanno qui le belve, qui intorno – leccarsi la ferita
levare il sangue, leccare
nella giusta direzione
governare la formazione della crosta.
Bisogna che si sappia il male
lo si lecchi come lupi
lo si tenga a margine – come quella volta
che una benda era bastata a rimediare
cucciolo di lupo senza tana. Glielo dicevi, come sulla soglia,
mentre il pianto risaliva la corrente
che penetri in profondo – e non si veda
quell’urlo bieco che t’impala
quella bava
quel ventre aperto sulla riva.
Perché hai già saputo farlo, dopo il viaggio
dopo tutte le parole, dopo i pesci e le zanzare
morire, leccare.
Gli animali aspettano la sera
in compagnia del branco, stanno
coi segreti come sassi tra di loro
e alberi, i segreti che fanno
il loro fiuto. Sapersi immortali nei fatti
notti che nemmeno fumare bastava
nemmeno la voglia
quel margine in cui si metteva la schiena
si cuciva a mano la leggenda
con la spada ben puntata sulla testa
e nessuno che provasse a farla franca
insieme dritti verso il nulla.
La caverna delle labbra
quella volta che il sapore era di fumo
quella volta che di vino si spegneva –
erano linci alla messa della sera
zampe tese sul letto, in agguato
un pasto consumato in tutta fretta –
briciole che ancora segnano le strade
denti rosi dalla carne, crudi
eravamo ogni sera
crude braccia e poca luce
Non sappiamo più come facevamo il vento
quando c’era caldo e sete
e le linci ci battevano la vena –
il nome scarlatto inciso sulla nuca
e il destino di tutti piantato nella schiena.
Ci si assume il peso delle bestie
una volta fuori nella nebbia
scendere le scale della metro come un infero
saputo – quando leccavamo il pelo al riparo dei lampioni
le iene si accucciavano sfinite nei portoni.
Di quando i patti eran siglati
con il fiato, ad oggi restano bocconi
secchi e luci, sotto l’ala grande del dolore.
Ci si salva ritornando, un treno dopo l’altro
un morso al cuore e ci si fa coraggio
che tutto resta accanto e sotto –
come una traccia dello sguardo
che quando torni e accendi gli occhi
il buio è pesto, ma riconosci il salto.
È tutto di là da venire
un ritocco fradicio
la palude che occupa tutto il guado
un viaggio insistente, un elenco infinito
un morso rubato, un vecchio sistema incallito
ci si sbatte a riva, col sonno a governo
ci si riluce come schegge spente nell’acqua.
Non abbiamo avuto tempo di raccogliere tutto, fumiamo di corsa e ricominciamo
la caccia
brutali e leggeri, come solo la fame.
Avere fame, come dentro la balena
avere morsi in bocca e affidarsi
cercare a muso basso i vermi nella terra
danzare con le scimmie intorno al fuoco
guardarsi da lontano
riconoscersi dal ghigno
Il lupo sta con la fame fuori dal bosco, attraversa la radura umida, zampe dure e naso basso.
Stare lì con la fame addosso come un vestito elegante, fiera
la fame di prendere spazio e farsi un regno
la fame di credere la fame vera, di farsi aguzza e voragine
la fame che viene raso erba.
Con la notte in fondo che sbiadisce
e l’alba che arriva segreta, senza fronzoli, senza storie fasulle
arriva così di luce e di fiele
ad accogliere la tua fame, come un diavolo l’acqua santa.
Ciò che delle bestie non si asciuga
e resta sbigottito sulla soglia
è un modo di guardare le ragioni
fare rappresaglia
avevi scritto che c’era tutto il tempo
per fare e poi disfare la coscienza
avevi detto che sapevi come fare e che la voce
assomigliava al pianto
c’era la terra fin sotto la finestra e due gradini
per salire nella casa
pile di giornali sulle scale e tua madre che parlava e lo sapeva
che le storie finivano al mattino – di un bambino
salvato sotto i muri, non è fragile dicevi
deve vivere lui fino alla fine, siamo noi
che sembriamo ossa e pelo
e siamo solo un nervo rovesciato sotto il cielo.
Non smetterà mai di essere mortale
una ridondanza cieca e suoni
che diventano cattivi, lo sono sempre stati e assomigliano alle bestie ferite,
la vita fuori di qui sembra leggera
sembra una pentola d’acciaio fazzoletti mestoli e tendine.
La vita fuori di qui pare dolce, snocciolata
pare un fiore rosso qualche volta
tagliato storto
tagliato
un fiore impalato lì a fingere di essere stato.
La vita fuori di qui assomiglia alle bolle
piccole caramelle di marzapane
unghie laccate
la vita dei vostri denti bianchi dei vostri colletti, la vita sinistra dei bar
che per un pelo qui si avvicina
per un pelo ci vedi passare una bestia
e ti senti a casa, per un attimo
sola e sangue e basta.
Si svegliano tutte le femmine
attorno al mio lago stanno tutte
le mie ragazze e le femmine e tutte le piccole donne
e le grandi e le sante e le vecchie e tutte le sgualdrine
e le amanti e tutte le femmine e tutte le iene le pantere e le gazzelle e tutte le femmine
di cinghiale e di civetta.
Sono tutte lì intorno al lago strette tutte le femmine che si riconoscono,
che sanno stare vuote, che sanno stare così
ferme, fiere, feroci. Sole.
Si è aperto lo sterno – adesso è tutto spalancato
dondola aperto sotto il cielo grigio
l’ossatura della furia.
Adesso è tempo di dire
tutti i secoli che sono serviti a tornare
tutte i patti traditi
tutte le finte, le nocche, tutte le docili cagne
se ne vanno, ora, tutte, lasciano impronte nel fango
non si voltano, ora
sono già stanche abbastanza
lasciano l’ucciso spalancato
ti guardano e sanno che non c’eri mai stato tu
così vicino alla riva
così vicino all’ultima stella –
senza nemmeno la fede.
© Paola Turroni
Una nota di lettura
Ho conosciuto la poesia di Paola Turroni quando mi capitò di scrivere de Il mondo è vedovo (Cartabianca edizioni), un libro che mi colpì al punto che ancora ne ricordo dei versi a memoria. Si trattava di poesie di sopravvivenza, di tentativi di raccontare le ferite che lasciano le guerre. Erano poesie che gridavano domande e imploravano la continuità dei gesti: «Ci sono gesti che bisogna continuare a fare/ chiudere finestre, tostare il pane, legarsi/ il fazzoletto sulla nuca/ non c’è altro modo che i gesti per fare i vivi.» Passa il tempo e ci sono altri gesti, altre vite, mille cose in mezzo e – di certo – la necessità per Turroni di ampliare il proprio racconto restringendo il campo – non si tratta di un controsenso – e partire dall’intimo, questo è il primo elemento che noto leggendo questi inediti molto belli Nel volto delle bestie, ma anche nel racconto che si fa più intimo si avverte una ferita, si percepisce un dolore, si sente gridare – proprio come una bestia che urla – l’abbandono. Leggo e penso a un legame strappato, a un colpo a tradimento, a un’offesa, a una ragione e all’istinto. Penso a una reazione, a una separazione. Penso che la chiave che Turroni ha trovato, ovvero quella della rappresentazione di momenti intimi e dolorosi, anche di solitudine profonda, attraverso la forza naturale della bestia, dell’istinto animale che in fondo ci accomuna e che accantoniamo fino a quando non arriva il colpo. L’animale ferito scappa, reagisce, si vendica, si nasconde, prova a salvarsi.
Un paio di esempi:
Bisogna che si sappia il male
lo si lecchi come lupi
lo si tenga a margine – come quella volta
che una benda era bastata a rimediare
cucciolo di lupo senza tana.
oppure
Non sappiamo più come facevamo il vento
quando c’era caldo e sete
e le linci ci battevano la vena –
il nome scarlatto inciso sulla nuca
e il destino di tutti piantato nella schiena.
Chi sono le bestie? Cosa ci dicono i loro volti? Ci dicono che non c’è scampo nell’appartenenza, e non c’è salvezza dopo l’abbandono. C’è una lotta da compiere tra sangue, ferite da leccare, nuove ferite provocate dagli arbusti in fuga. Forse qualcuno se ne è andato, qualcuno ha fatto male. Ma qual è il dolo? Dove sta la colpa? Elaborare tutto questo come una serie di conseguenze naturali forse aiuta. Il branco ci accoglie, il branco ci respinge.
Ci si assume il peso delle bestie
una volta fuori nella nebbia
scendere le scale della metro come un infero
saputo
Mi piacciono molto queste poesie di Paola Turroni, si capisce che arrivano da una fatica ma si consegnano al lettore con una resa luminosa. Perché oltre il racconto, nel movimento delle bestie, Turroni ci consegna qualche immagine dal futuro e una non troppo vaga idea di salvezza: “Ci si salva ritornando”. Maneggiamo questi inediti comprendendone il peso, ma condividendo il piacere della lettura, perché prima di ogni cosa si tratta di poesie molto belle, si tratta di parole infilate una dietro l’altra con molta cura. Leggiamo e aspettiamo fino a quando i volti delle bestie finiranno dentro a un libro. Scommetto che non ci vorrà molto tempo.
© Gianni Montieri
2 risposte a “Paola Turroni, Nel volto delle bestie (poesie inedite)”
L’ha ribloggato su gianni montieri.
"Mi piace""Mi piace"
Le parole di Paola Turroni conducono alle radici, alla terra, al sottobosco, al sotto del sottobosco. Leggendola si sentono gli odori, i sapori, si vede con gli occhi dell’animale;
come se tornassimo a qualcosa di dimenticato, sconosciuto ma presente nelle fibre del corpo e nelle sinapsi della mente, una memoria che non sta nei depositi ma nelle membrane, nel materiale di cui il corpo si compone. Un tempo preistorico in cui non avevamo parole ed eravamo solo un corpo, a quell’attimo in cui ce ne siamo resi conto, provando la disperata sensazione della vita, di noi, del mondo, della fine, del nulla.
Grazie per questa possibilità di rivedere l’anima-le che è in noi.
Cristiana Santini
"Mi piace""Mi piace"