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I crimini vivono oltre la carne di chi li compie, ne incrostano il ricordo, il valore dell’aver vissuto. Poiché le nostre azioni saranno descritte in noi, buone e cattive, ci accompagneranno senza rimorso mutandosi in carne, modellando le fisionomie. Si possono anche addomesticare, dissimulare; ma ci sono sguardi che risulta difficile sostenere: il nostro medesimo prima di ogni altro.
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Il giorno 29 del mese di febbraio nell’anno bisestile 1944, lungo quella che è ora una strada ad elevata percorrenza ed era allora poco più che uno stradello aperto tra le campagne emiliane che non è difficile immaginare spoglie nel periodo e bene amministrate, abbondanti di olmi, di gelsi, di filari in attesa del disgelo, di aceri campestri, di pioppe, di qualche noce spettacolare – di quegli stradelli affiancati da una canaletta d’acqua gonfia di vita naturale –, alle ore 17,45, dunque ancora in luminosità piena – ma in buio di testimoni, ché a quell’ora ci si apprestava a mungere nelle stalle –, ammazzano un uomo di quarantanove anni.
Gli sparano in tre; da dietro; in corsa.
L’uomo rientrava dalla città, e mi viene di pensarlo con sciarpa e cappotto, giacca scura, camicia bianca, bretelle, pantaloni di panno con la cintura serrata sopra l’ombelico. Due proiettili scompaiono nella sua schiena, due nella regione addominale di sinistra.
Sicari, chiamano i giornali gli sparatori. E: agguato, il loro procedimento.
L’uomo cade dalla bicicletta, una di quelle biciclette padane che sappiamo nere, pesanti, con le gomme larghe per vincere la ghiaia. Cade sorpreso e assieme fulminato.
Il fratello più giovane sulla bicicletta a fianco si rivolta con la pistola in pugno e cerca di infilare gli assaltatori, ma il suo colpo si inceppa e quelli hanno modo di sfuggire attraverso gli stradelli laterali.
Nere anche le loro biciclette. Pesanti.
Mentre questo accade, e la ruota posteriore della bicicletta caduta gira nell’aria e poi va a rallentare, e il silenzio dell’inverno cala di nuovo sui campi smorzando i fatti degli uomini, esattamente quando questo accade, io perdo mio nonno.
Le cronache degli uomini insegnano come si onorasse dei titoli di Squadrista, Fascista Repubblicano, Sciarpa Littorio, Marcia su Roma, Membro del Direttorio del Fascio di Reggio Emilia, Segretario Politico di un Fascio della provincia. Fedele fino alla morte, scrivono. E indicano nei GAP, nei Gruppi di Azione Patriottica, gli sparatori.
Nulla sapevo di lui. Sono stato abituato a imparare – o, meglio, imparare a dimenticare – quell’uomo nel silenzio familiare, tramite rare foto, discorsi assenti. So come la sua non presenza abbia avuto un riflesso profondo nella mia educazione, quindi nella mia vita. Due cose sole, possedevo: il nome, Ulisse, che io porto come secondo, e che sempre ho dovuto considerare come un intruso, una parte sconosciuta di me; e una giacca, un tessuto ruvido di lana, il nero orbace della sua divisa autarchica. Niente di più, prima di questo libro.
Per bilanciare questo niente ho lasciato passo all’attrazione magnetica per quei colpi di pistola del febbraio 1944 e seguito la loro eco lungo un paio di secoli. Ho dovuto capire dove sono nati, quei colpi, chi li ha generati, dove sono andati a rimbalzare, che cosa hanno smosso, smurato, prodotto. Ho dovuto scovare tracce seminate e sepolte, frugare da dilettante negli archivi che tutto conservano e tutto confondono, respirare polvere antica, macchiarmi di inchiostri, decifrare scritture impossibili, toccare carta infastidita dalla luce con il timore di vederla rompere. E poiché scrivere è un lento modificarsi, ho dovuto, soprattutto, vivere nel frattempo e accettare di vedere cambiati i lineamenti della mia vita. È stato bene farlo: tocca ai nipoti raccontare, sottraendo ai genitori un compito che non avrebbero potuto svolgere con giustezza; tocca a noi questo scegliere o tralasciare, sapendo che ogni parola nostra o azione avvicinerà la pace o il male che devono arrivare.
Questa è la storia di Ulisse e dei suoi sparatori che infine si spararono tra loro, tutto sconvolgendo. Il racconto di ciò che è stato prima e che ha innescato quei colpi in canna, di ciò che è stato dopo e perdura inconciliato, forse inconciliabile. Di questo la mia famiglia è stata testimone: che ogni sparo da spari precedenti è generato e a sua volta genera spari, nell’instaurarsi di una catena senza fine.
Questo abbiamo imparato: l’eco di uno sparo non si quieta mai.
Insiste Don Wilson – a voi l’onere di prendere per buone le sue parole – affermando che Casoli avesse comprato un camioncino per poter lavorare per il Macello Comunale, sperando nell’appoggio dell’ex compagno Soragni. Non può accogliere la richiesta di un uomo senza faccia, Muso, non può nemmeno vederlo senza non riconoscerlo, può solo avvilirne la presenza confermandogli l’appoggio e girando poi ruvidamente le spalle in sede decisionale al suo ex comandante. Rifiutato, indebitato – illividito -, Casoli rivende l’automezzo. Pochi giorni prima dell’ultima uccisione lo sentiranno inveire contro «i comunisti»; come Bube, ancora da Cassola: «Avesse voluto la sorte che non fossero mai stati amici miei… dico cosí perché sono stati loro a rovinarmi. Sí, loro; tutti quanti sono». E poi inveisce contro le donne dell’UDI che distribuivano mimose. Parlano di alcool, lo descrivono piú incoerente del solito, quasi allucinato. Scrivono che arriverà a odiare quasi tutti gli esponenti della Federazione. Che arriverà a prendere contatto – «ultimo scalino per lui, ex comandante» – con elementi equivoci della destra fascista. Carica infine la doppietta calibro 12, Robinson. La sua lunga guerra sta per terminare. In assoluta contemporaneità, termina di Soragni la breve pace.
Un amico ha ucciso un amico. La misura del dolore di Casoli, forse, è tutta nell’eco di quel nuovo sparo, una malattia tanto insopportabile da dover innescare un definitivo colpo in canna, per zittirla.
Cosa abbiano potuto provare nella mia famiglia quel 16 marzo ’61 in cui gli sparatori si spararono non voglio immaginare. Il 29 febbraio del ’44 era già giorno lontanissimo, perduto. Solo un silenzio ottundente da allora, e nessun animo di vendetta, nessuna compensazione al dolore. «Il tempo non lenisce». Se quel proiettile a fine corsa nel corpo di Soragni fosse il medesimo transitato attraverso mio nonno, non compete alla balistica stabilirlo.
Il sangue degli oppressi scorre di colore uguale al sangue degli oppressori, mescolandosi ripetutamente, scivolando verso il basso per vie misteriose fino al fiume Po. Resta a noi onorarne le differenze. Certo solo gli invincibili possiedono un sangue individuale, incapace di fluire. Questo il segreto della loro mortalità.
Lasciamoli tutti in pace, ora. Ulisse, Rino, Alfredo, tutti. Là dove sono, senza essere piú. Quanto a noi, camminiamo sopportando uno zaino appeso in spalla colmo di ciò che è stato; e uno zaino posto al petto, pieno di ciò che sarà. Zavorrati dal passato, zavorrati dal futuro. Un passo sempre indietro in fronte del presente, passi in avanti rispetto all’avvenire.
Massimo Zamboni, L’eco di uno sparo, Einaudi, Torino 2015, pp. 5-7 e 159-160; il piccolo brano introduttivo è a p. 39; l’immagine posta al centro riproduce un estratto da p. 108.
Buon 25 aprile a tutti.