Tu rassicurami
Io non so seppellirti
e fare sosta
lontano dai tuoi arrivi.
Perché io non so sopprimerti
somministrando una ragione altra
a questo andare.
Si fa rabbiosa la fame dell’attesa,
raccoglie molti affluenti di tenacia
e raccomanda l’àncora dei giorni
alle tue funi.
Un racemìfero Dio
rammenderà
lo strappo del mio cuore,
ma io rampollerò in acerbo
dalle spighe.
E raschierò come un cancello che si oppone
all’apertura.
Tu rassicurami
che niente andrà perduto,
che la membrana o il seme di noi due
non avvampava d’ira
ma d’amore.
Imprimo il tuo nome
Imprimo il tuo nome sull’argilla.
Dalla cisterna risale fino all’ultima terrazza.
Due fiumi lo attraversano: il prima e il dopo.
Scavano ai fianchi la montagna
e inondano il terreno tutt’intorno.
Imprimo il tuo nome sull’argilla.
Coi fili tesso stoffe e annodo corde,
occupo la penisola che abiti al suo centro.
Boschi di abeti e cedri ti percorrono,
strisce di piane fertili e castelli.
Io ti cammino nel sottosuolo degli incendi
e salvaguardo oltre la copia delle forre
quel che resta:
la mano nella mano
che pigia l’uva dell’affetto nella conca
e il capo della luce
che al limitare delle perdite
ci avvolge.
Nella taiga
Ti parlo sottovoce e senza vocazione.
Sono stanca.
Forse perché lo spigolo tuo vivo
ancora mi ferisce,
forse perché ho girato a vuoto
nel lemmario dell’autunno,
forse perché un impervio di battaglia
ribolle dal profondo.
Ti parlo sottovoce e senza vocazione
mentre i cavalli tuoi selvaggi
mi galoppano i dintorni
e tu lesioni e lastrichi d’agguati
le montagne.
Io aggancio la mia slitta al tuo calesse,
saliamo in groppa
ad un macchieto di domande.
Mi ami? -Ti chiedo-
mentre si smussano
i denti della rabbia
e tento di annegarti
nella taiga di un racconto
un’altra volta.
E attendo l’ora
Fischiano i polmoni delle case,
ne premo con la punta delle dita
gli alveoli sovvertiti.
Fa male guardare il vuoto indefinito
alle ringhiere,
scioglierlo lentamente sulla lingua
come un bacio.
Il nido dell’infanzia è divorato,
scorge da un gomito del monte
una frontiera,
spartisce l’acqua del deluso
coi noccioli.
Eppure si consola
e nella polveriera pronta a esplodere
del giorno
si traveste,
sicuro di sfuggire alla vecchiaia,
al buio che lo spintona
nella fine.
E camminiamo scalzi,
le bocche sgretolate dalla bruma
di ciò che non sappiamo,
che scarica alla cieca la sua furia,
che fa dei passi
un peso liquefatto.
E attendo l’ora
che guarirà le ulcere alle mani,
che accenderà le stelle al led
nelle cucine.
Attendo l’ora
e la fisionomia di quanti
non posso più chiamare
con un nome.
Monia Gaita è nata a Imola (BO) il 7-11-71 ma vive a Montefredane, paese d’origine in provincia di Avellino.
Giornalista e critico letterario, ha all’attivo pubblicazioni in prosa, Rimandi(Montedit-2000) e in poesia, Ferroluna(Montedit-2002), Chiave di volta(Montedit-2003), Puntasecca(Istituto Italiano Cultura Napoli-2006) , Falsomagro(Editore Guida-2008), Moniaspina(L’Arca Felice-2010), Madre terra(Passigli-2015).
Presiede con Elvira Micco il Premio di Poesia e Giornalismo Giuseppe Pisano che promuove con la Proloco.
Diverse sono le riviste e le antologie che si sono occupate della sua poesia: La Mosca, Gradiva, L’immaginazione, Sinestesie, Silarus, Critica Letteraria, La Clessidra.
Collabora a “Clandestino” e “Nuovo Meridionalismo”.
Una replica a “Monia Gaita. Inediti”
[…] Sorgente: Monia Gaita. Inediti […]
"Mi piace""Mi piace"