A venticinque anni dalla morte di Tondelli, le sue “camere separate” continuano a parlarci. Un grazie, vero, profondo, s’incide nella memoria, rileggendolo adesso a distanza di tempo. Camere separate uscì nel 1989: straziante e meraviglioso romanzo. Tondelli, che sarebbe morto di lì a due anni, ci accompagna per mano attraverso la vicenda di Leo e Thomas dentro l’anelito della felicità. Quello che tutti sentiamo: la felicità che sembra di riuscire a toccare, di avere a un passo, e poi scompare. Con entusiasmo e disperazione, è così, si va e si viene dal silenzio. Lì ci sono, in un abbraccio, amore e morte, felicità e distacco.
Dal Terzo movimento:
«Niente è più banale che dire: la vita continua. Ma lui ora sente proprio questo, perché conosce, nel mondo, delle persone che continuano».
«Allora, forse, tutta la sua vita, il suo essere separato, non è altro, come aveva compreso perfettamente Thomas, che una elaborata messa in scena della propria, inestinguibile, volontà di svanimento; la spettacolarizzazione pubblica di un complesso di colpa, di un’angoscia che lui ha sentito forse fin dal primo giorno in cui ha aperto gli occhi al mondo, e cioè che non sarebbe mai stato felice».
Ma è nel Secondo movimento che si trova il passaggio decisivo. Ci dice che la vita ci vuole, ci esige proprio, fuori dalla letteratura:
«Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida di quella realtà separata che definiamo arte».
Grazie, Pier Vittorio Tondelli.
Cristiano Poletti