“Le poesie del male” di Virgilio Guidi. Bellezza e dolore in forma d’interrogativo
di Paolo Steffan
Si risponde sempre con un certo stupore alle minuzie eccellenti di Canaletto o di Francesco Guardi o del più tardo e meno frigido Ippolito Caffi, che trasmette al primo sguardo lo spirito acceso di una laguna vissuta in tempi tumultuosi e pur sempre perfetta nelle sue linee di non mutabile bellezza. Eppure, la Venezia inarrivabile è per me quella di Virgilio Guidi, con la sua ossessiva semplicità disarmante, di occhio che fissa la luce dolce di una mattina assolata e un po’ fosca sul bacino di San Marco, con preferenza per San Giorgio e la Salute. Il turgore di qualche campanile, così naturale e vago da parere un cipresso, che sfiora o talvolta ‒ per sbaglio o per voglia d’eterno? ‒ s’inabissa in alto nella finitezza della tela, è solo il guizzo di un pittore attento e piano, quasi geometrico senza essere geometrico. La delicatezza del suo pennello che ritrae Venezia commuove per il rispetto, quasi filologico, di un incerto apparire della città a un certo orario non precisabile, ma che esiste. Quella delle “marine” di Guidi non è un’acqua nella quale si affonda, ma un piacere profondo di luce da godere in superficie, come in un disteso rilasciarsi estivo.
Ed è in un modo analogo che mi è apparsa, venuta a galla, la poesia di Guidi; con un volumetto di “poesie del male” ritrovato sugli scaffali di una polverosa (e preziosa) libreria, proprio in Venezia: «Trentatré poesie inedite di Virgilio Guidi» finite di stampare nel maggio 1983, sette mesi prima della sua morte, e volume fuori catalogo da molto tempo.
Ho chiesto al cielo
il perché del male,
ho chiesto alla luce
il perché delle ombre.
Questa quartina di senari fa da proemio: così semplice e chiara, in realtà ci addentra in una selva di domande prime che l’uomo si pone da sempre, ma che non hanno risposta, né mai l’avranno. Come nelle sue pitture: quando Guidi sembra chiedere a Venezia il perché del mare, o semplicemente della bellezza, che in modo teatrale compare sul palcoscenico di Guidi nella terza poesia, su una distesa base novenaria, placida come le acque lagunari:
Vidi entrare in scena la morte
e fu un silenzio inconcepibile,
vidi entrare la bellezza
e fu una paura incontenibile,
vidi entrare in scena il tiranno
e fu un’allegria clamorosa.
E, ancora, poche pagine dopo:
O bellezza dolorosa del mondo
ancora una luce ai tuoi confini,
impreveduta come il miracolo
e che disegna i lunghi decenni
sulla tavola della storia.
Perché la bellezza è paura, perché la bellezza è dolore: ha sempre un che di miracoloso, perché ci abbaglia di eterno, ma di fatto frana anch’essa, certa («e la bellezza non ancora incerta/ sulla sua sorte») di essere soggetta alle leggi naturali del mondo:
Che l’anima s’acquieti
e veda quel che è il mondo:
un eterno male e bene,
un edificare e distruggere
per una legge naturale.
Eppure, la bellezza serve anche ‒ e soprattutto ‒ a placarlo, il dolore del mondo, lei che più di tutto lo conosce da dentro. È quel momento nel quale accade la verità di un distico che troviamo più avanti e che, se non può avere con certezza un valore positivo, almeno ce ne concede la possibilità:
La sventura s’illumina
e prende le forme della bellezza.
E le forme della bellezza sanno essere eminentemente pittoriche: in un volume come Le poesie del male, infatti, è rivelatrice l’alternanza di pagine scritte a pagine illustrate, con tratto nero fine o grossolano, ma sempre vicino a quell’insistenza di occhi che è l’apice della maturità di Guidi pittore. Se già la composizione proemiale era di un pittore prestato alla poesia, nel suo chiedersi di luci e ombre, ogni dubbio sfuma quando persino il cielo va valutato per quello che necessariamente diventa su una tela, cioè materia, fatta assoluta concretezza proprio nel tentativo ‒ sempre questo è il sogno, è la presunzione (consciamente irrealizzabile, eppure di continuo tentata) di un pittore ‒ di conoscere l’eterno:
più non sai che significhi eterno
e diviene materia anche il cielo.
A questo punto, se pure in orizzonti di finitezza, non può mancare un afflato mistico (se non addirittura teologico), anche se del tutto novecentesco, perché inficiato dalla fine stessa della deità, in un tempo che fatalmente se la trova con costanza all’ordine del giorno:
Ma se il Dio unico è morto,
come si dice con altera certezza,
che ragioni hanno di essere
le minori divinità?
Viene in mente Zanzotto, peraltro prefatore di Le poesie del male, quando in Sovrimpressioni fa dire un ‒ pur fievole ‒ Sì a Pan, che da secoli sembrava scomparso, se non morto, dando così riscatto alla stessa assenza di Dio, quello unico, che sembra lentamente riabilitarsi ‒ dopo i rumours sulla sua morte nel secolo scorso ‒ per mezzo di epifanie delle divinità minori.
Era proprio questa, la svolta cui fin dai primi versi la raccolta ci preparava. L’interrogativo su Dio si pone come interrogativo sulla morte e sul destino umano in generale, per cui la poesia di Guidi si configura, oltre che come poesia-pittura, come una poesia dell’interrogativo che, anche quando retorico, non lascia la certezza della risposta attesa, ma il gusto di un interrogativo che si rinnova; ed è proprio attraverso l’interrogatività, il non risposto, che si pospone ancora di un poco la morte, in quel profumo di eterno che è intrinseco alla ricerca artistica. Allora una poesia come la seguente dà il senso di un illimitato, che ci spingerebbe a leggerla di continuo, a interrogarci senza requie, accompagnati dal nudo di donna leggiadro che troviamo nella pagina dopo:
Noi siamo qui nell’attesa
dell’ascesa al cielo
o della discesa nella terra;
dicono tanti sapienti
che solo la discesa è certa,
allora perché soffrire
se tutto ha fine, se tutto ha fine?
Se meno per meno dà più, verrebbe da pensare che quella domanda replicata annulli il senso di finitezza. Ma anche al venir meno di questo, il dolore non certo si ferma. Allora la “poesia del male” va forse intesa più di tutto come “poesia del dolore”, che è parte della bellezza e sostanza del vivere: per cui la poesia di Guidi è poesia del vivere che fa tutt’uno con le celesti “marine” e coi grandi occhi della sua pittura, e fa tutt’uno con la nostra vita, su cui ci concede uno spiraglio di bellezza, senza annacquarla di beatitudine e, se mai, sporcandola di una speranza (ma inquieta come l’insonnia):
Le notti senza sonno
portano il passato
a predire il futuro
nella speranza
di rapire alla nuova alba
l’eterna luce.
L’importante è darsi allo spettacolo delle cose, non importa se orrido o di meraviglie (la poesia di Guidi, come la vita si colloca dichiaratamente «fra splendore e orrore»), purché non lo si incaselli in formule che tolgono la verità dell’interrogativo:
E voi, formule,
avete occupato lo spazio
delle libere menti
e costretto lo spirito
in anguste prigioni.
Infatti, fuor di formula, il mondo vive nella sua lotta di opposti, unica sua ragione di vita, che condiziona ogni nostra ricerca di eterno e di vero; e si sente, sottilissimo, un velo di ironia, quando nel dirlo, Guidi poeta parte proprio dalla natura menzognera della parola, rendendoci ancora una volta dubbia l’unicità del concetto e, così, riconfermando la natura interrogativa del tutto:
Quasi tutte le parole che ascolti non sono vere,
preparano al difficile cammino
della verità;
la storia si nutre
del falso e del vero
come del bene e del male.
Questa verità, così difficile da conseguire, Guidi sa avvicinarla meglio che altrove, nei versi cristallini della poesia di congedo ‒ dopo essersi rivolto alla dedicataria di tanti altri testi, Giulia, ancora in forma interrogativa ‒ basati su una dicotomia fondativa e sulla concretezza dell’impalpabile che fa pulsare di materica pittura l’impalpabile consistenza della parola.
Sono stato tanto in vista del cielo
che ho bisogno ora della terra:
qui, oltre la sozza cupidigia,
vive anche la bella saggezza
e le cadute dell’uomo
non sono abbandonate dalla luce.
Virgilio Guidi, Le poesie del male, con una testimonianza di Vittore Branca e una prefazione di Andrea Zanzotto, Venezia, Centro Internazionale della Grafica, 1983.
© Paolo Steffan