, , , , ,

Una frase lunga un libro #65: Juan Carlos Onetti, Per una tomba senza nome

SUR40_Onetti_Perunatombasenzanome_cover-2

Una frase lunga un libro #65: Juan Carlos Onetti, Per una tomba senza nome, SUR, 2016. Traduzione di Dario Puccini. Revisione di Giulia Zavagna; € 14,00, ebook € 9,99

*

 

«Non voglio costringerla a fissarsi su una cosa o su un’altra; glielo suggerisco, semplicemente. Quando le chiedo di fissare l’attenzione su qualcosa, non l’aiuto affatto a comprendere la storia; ma forse questi miei suggerimenti possono essere utili per avvicinarsi al modo in cui io comprendo la storia, la mia storia».

C’è un regno che esiste solo nelle pagine di alcuni scrittori sudamericani, di quelli più bravi, è il regno in cui la fantasia e la realtà si fondono e si confondono fino a diventare una cosa sola; un posto in cui si vive sognando, si dorme vivendo, si digiuna mangiando, si baciano i morti, si passeggia con i morti, si muore finché si è vivi, si raccontano storie che non esistono e quindi più che mai credibili, si incrociano personaggi straordinari o miseri, tutti favolosi, perché di favole parliamo, perché tutto accade come in un miraggio, ma in quella Fata Morgana accadono le cose della vita, e accadono i racconti. Uno di questi scrittori è Juan Carlos Onetti, uno straordinario creatore di mondi e di storie. Onetti ha diviso la sua esistenza tra Montevideo (dove nacque) e Buenos Aires (dove visse a lungo), e per la maggior parte delle sue storie più note, ha creato un terzo luogo – il regno, appunto – Santa Mária, città, che come nota ottimamente Antonio Pascale nell’introduzione a questa nuova edizione di Per una tomba senza nome, rappresenta per Onetti una sintesi immaginaria tra le due capitali sudamericane.

Tutti  noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa Mária. Alcuni di noi, al momento opportuno, sono stati i migliori amici della famiglia; e ci è stato offerto il privilegio di vedere la faccenda fin dal principio e, per di più, il privilegio di iniziarla.

Questo romanzo è la storia di un funerale, un funerale particolare. La sepoltura, però, è anche un pretesto per raccontare un’altra storia, che è quella che ha preceduto la morte, ma ancora di più che quella che viene prima della trama, quella che è la vera e propria costruzione del racconto. Per Onetti conta il racconto più di ciò che racconta, il come prima del cosa; ecco perché ho scelto la frase riportata in alto, ecco perché nel dialogo (in più periodi) che avverrà nel libro, tra il narratore, un medico, Díaz Grey; ma è solo lui che narra? Eppure non è solo: Tutti noi che è l’incipit del romanzo pone da subito dentro la storia la comunità, un certo tipo di comunità,  allora il medico è parte di quel noi ed è a quel noi che il ragazzo – l’altro protagonista del romanzo – giovane e borghese, si chiama Jorge,  racconta del perché abbia deciso di seppellire una donna, Rita,  di andare al cimitero portandosi dietro un capro, di pretendere un funerale economico pur essendo ricco, di non dire niente al padre; ma quello che dirà al medico, in tre incontri, in tre momenti diversi di un anno, non sarà tutta la verità, o meglio, non sarà soltanto la verità, sarà una verità accompagnata dall’immaginazione. Una verità che diventerà convincente tutte le volte che non starà in piedi, perché in ognuna di quelle volte Onetti introduce un elemento che pone il Dottore e – ovviamente – il lettore davanti a delle domande: Perché? Come mai? Ma è veramente così? Ma chi è questa donna? Cosa faceva davvero? Perché si portava dietro un capro? Era amata? Era desiderata? Il ragazzo perché racconta? Cosa racconta? Ecco, la Fata Morgana, ecco il miraggio, la luce che viene e che va. Onetti vuole darci in mano gli strumenti per agevolare la nostra immaginazione, per questo motivo noi che leggiamo e i suoi protagonisti non avremo un vero finale, il finale non esiste perché non è mai uno solo. Niente è più infinito di una sepoltura, perché la terra che ricopre porta con sé ciò che è accaduto, ma lascia il campo aperto a ciò che poteva accadere, a ogni versione degna di essere narrata. Della donna sepolta in fondo non sapremo nulla, tutto è stato riportato, tutto è accaduto, ma in fondo non sappiamo come, e, fidatevi, non importa. Importa che siamo stati con Onetti in quel cimitero, presi per mano da una prosa miracolosa e dall’invenzione, che più di tutte ci mette addosso il piacere di leggere. Andreste mai in giro con un capro? Probabilmente no. Amereste una donna inventata che con un capro va in giro? Sicuramente sì.

Tra poche cose ancora vennero distribuite le parole, e quelle cose le ho dimenticate.

Cosa conta, dunque? Il cosa o il come? Entrambi i fattori, si capisce, perché a Santa Mária sono una cosa sola. Per chi non avesse mai letto Onetti, Per una tomba senza nome sarà un bel punto di partenza per leggersi tutto il resto.

*

© Gianni Montieri  su Twitter @giannimontieri

Una replica a “Una frase lunga un libro #65: Juan Carlos Onetti, Per una tomba senza nome”


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: