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Yasmin Incretolli, Mescolo tutto

Mescolo_tutto_Cover

Yasmin Incretolli, Mescolo tutto, Tunué, 2016, € 9,99

di Martino Baldi

*

«Sono carini questi orecchini», dice Chus.
«L’ho scovati in fondo a un cassetto…»
S’avvicina lascivo titillando con punta di lingua il bijoux a forma di cono gelato gusto brillantini incastonati nell’acciaio.
Ho detto, scostandomi dall’avorio dei canini: «Mi dai un pugno?»
«Eh?»
«Ho curiosità nel seguire la direzione del sangue se mi fracassi il setto».
Ride: «Che ti piglia?»
«Valuto che l’atto potrebbe saziarmi brevemente l’animo in travaglio».
«Ma come cazzo parli?»
«Come cazzo mi pare».

La storia narrata in Mescolo tutto non è particolarmente originale.  Maria e Chus sono due adolescenti borderline: lei una diciannovenne autolesionista, lui un teppista di periferia. Si incontrano tra i banchi di scuola e instaurano una relazione fatta soprattutto di violenza, verbale e fisica. L’infatuazione si trasforma in breve per Maria in una vera e propria dipendenza amorosa  e quando Chus la interrompe, ritirandosi da scuola e negandosi alla ragazza, Maria fugge in un vagabondaggio che la porta a conoscere un gruppo di ragazzi benestanti e viziati che la attraggono in un vortice di party, droghe e sesso estremo.

Ha fatto discutere molto questo libro di esordio, uscito da una delle più apprezzate fucine della nuova narrativa italiana quale la collana di narrativa dell’editore Tunué diretta da Vanni Santoni. La “colpa” di Yasmin Incretolli sarebbe quella di non apparire a prima vista con le stigmate dello scrittore che qualcuno si aspetterebbe: di giovanissima età (è del 1994), donna, bella, accento romanesco, nessuna frequentazione di riviste, festival e salotti letterari…
Invece, alla luce di Mescolo tutto, c’è da dire che sono stati lungimiranti i giurati del XXXVIII Premio Calvino a segnalare quel dattiloscritto dall’improbabile titolo Ultrantropo(rno)morfismo inviato al concorso dalla Incretolli, e bravissimo Santoni a riconoscere nella giovane romana le qualità di una scrittrice vera, ribadite nell’operazione di trasformazione che ha portato il testo in concorso a diventare il romanzo pubblicato.
È infatti  cosa da scrittrice vera quella che ha fatto Yasmin Incretolli: prendere una storia che poteva apparire banale e più che obliterata di disagio e deriva giovanile ai margini di una metropoli e trasformarla in qualcosa che meriti di esser messo su carta attraverso l’unico strumento che uno scrittore ha: la lingua. Mescolo tutto rivela infatti un lavoro ammirabile proprio nel modo in cui la vicenda è impastata con una giusta cifra di letteratura (a rendere l’operazione non spontaneistica) e la minima concentrazione di letterarietà (a non renderla un freddo esercizio di sperimentalismo). Lungi dall’essere super sperimentale, come qualcuno l’ha definito, il lavoro sulla lingua che fa la Incretolli è un lavoro prettamente narrativo, mimetico, da scrittore tout court.

Strizzacervelli signora sotuttoio m’interroga su sensazioni provate negli imputati momenti. Sollazzata dall’ampollosità monopodalica militare ho curvato lo sparo, proferendo risposte in completo rigurgito nonsense. […] Ho reso voce deliberatamente flautata sotto contrazione laringea: «Può darsi una simile caccia alla beatitudine tramite autoinflizioni possa trovare fraintendimento presso territori dogmatici di sua competenza. Eppure, si fidi: seppur  dall’esterno possa apparire delirante, nel permesso alla cute d’aprirsi, sono in estasi».
«Ma come parli?»
«Come cazzo mi pare?»

La lingua con cui la protagonista racconta in prima persona la vicenda, e che di volta in volta viene quasi assorbita giocosamente (e ironicamente) dai personaggi con cui entra in contatto, è un correlativo oggettivo della diversità di cui Maria è portatrice ed è, allo stesso tempo, capace di innescare una “suspense linguistica” che tiene teso il filo del racconto anche in assenza di suspense narrativa. Una lingua da un lato impoverita di legami sintattici, preposizioni e articoli e dall’altra arricchita di termini desueti, gergalismi, giovanilismi, esotismi, lessico scientifico e specialistico. Una lingua abbassata per un verso e innalzata dall’altro, stirata e deformata. Una lingua mutante, come l’identità della protagonista e di ciò che rappresenta, in cui i sostantivi di provenienza eterogenea appaiono in un panorama di desolazione sintattica come carcasse di civiltà dimenticate, cadute misteriosamente dal cielo o sparse da mani misteriose in un immenso deserto, sconnesse, irrelate, infinitamente malinconiche.

Qualcuno ha citato Gadda a proposito di questo impasto. Niente ci  sembra più sbagliato. Basti il paragone con un’altra giovane scrittrice italiana di ispirazione, lei sì, prettamente gaddiana: Rosa Matteucci. Se la Matteucci lavora sull’eccezione linguistica per ribadire l’appartenenza a una comunità eminentemente letteraria e la sua voce (meravigliosa) appare esterna al racconto, forse direttamente sopra, ironica, la Incretolli lavora sulla lingua per porsi al livello del racconto, dissolversi in esso, ribadendo piuttosto la differenza da una scrittura che ha il marchio di un’operazione tutta letteraria, borghese. La lingua della Incretolli è narrativamente inevitabile: se ogni ferita è la prima ferita, ogni dolore un primo dolore, allora per ogni ferita e ogni dolore c’è bisogno di una prima lingua, una lingua diversa e nuova. La lingua della Matteucci è barocca quanto quella della Incretolli è apocalittica. Perché in Mescolo tutto ad essere inseguita anche dalla lingua è l’unicità che condanna la protagonista a una condizione da “postuma”. Un isolamento assoluto, restituito così attraverso l’unico mezzo possibile: la solitudine linguistica. Chi vorrà comunicare con lei dovrà rompere anche quell’isolamento, assumere la sua lingua, come in effetti accade. La lingua del libro è il sangue vocale di Maria, solo suo, come quello che cola dalla ferite che lei stessa si autoinfligge.

Cercavo semplicemente protezione. Qualcuno a corazzarmi dal mondo schifo e dai corrispettivi demoni domicilianti. Qualcuno a corazzarmi da me stessa e dall’incapricciata fissa nello scucirmi, disprezzarmi. Accade d’osservarmi esternamente e sognare d’abbracciarmi, artigliarmi quasi a fondere carni, e poi sussurrare: «Nessuno più sarà in grado d’opprimerti, non sei sola bambina».
Il problema è che poi i demoni bussano alla casa, spacciandosi per piazzisti d’amore; e se soffri e non lo tieni per te, la gente ti dice pazza.

E qualcosa dovremmo anche dire del sentimento che la protagonista mette in campo, che ci sembra decisivo nel tenere insieme il tutto del romanzo. Un sentimento ormai immerso nell’epoca della fluidità delle relazioni e dei comportamenti, eppure non scavato nel vuoto della “mancanza della mancanza” tipico del nuovo soggetto contemporaneo; Maria non è il soggetto  “senza inconscio”, più sadiano ormai che freudiano, che si approvvigiona talmente con continuità al godimento istintuale da aver perso la capacità di elaborare e coltivare nelle segrete della propria personalità un desiderio profondo che ne fondi la sua identificazione “in differenza” dalla norma censoria.  Tali ci sembrano piuttosto tutti gli altri personaggi che le ruotano intorno. Quello di Maria è un desiderare ancora freudiano e già sadiano; un desiderio mutante. La sua sofferenza , e quindi il suo accresciuto isolamento e la sua accresciuta eccezionalità, affondano fino alle radici di un eros “vecchio stampo”, nella “mancanza dell’oggetto del desiderio”: un seme d’altri tempi coltivato in una terra ormai sterile. Per questo Maria finisce per attaccarsi, come in una vera e propria dipendenza, anche a un semplice surrogato; il suo  è un sogno d’amore bruciato e negato in partenza, per il fatto che dove lei vede e desidera l’Altro, l’Altro invece non vede niente perché niente, in fondo, desidera. Quello di Maria è un sentimento malinconico e postumo come malinconica e postuma è la sua lingua.
Per tutto questo nella domanda finale del libro, a cui viene posposto soltanto un corsivo che rimette in scena il primo incontro tra Maria e Chus,  chiudendo il cerchio di un tempo a chiusura ermetica, da cui non c’è via d’uscita, risuona qualcosa di ancora più terribile di quanto a prima vista già lo sia.

Ho diciannove anni e voglio morire. È questo diventare adulti?

Ecco, cos’è diventare adulti? Guardare indietro dove ancora c’è qualcosa o guardare avanti dove non si scorge più nulla?

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© Martino Baldi