di Andrea Raos

Parlare prima di tutto è l’atto corporeo
del far vibrare la laringe
per produrre suoni articolati.
In quanto tale, cambia secondo la postura.
Non emetto gli stessi suoni
da posizioni diverse.
A testa in giù per esempio,
o quando un ginocchio cede d’improvviso
mandandomi a sbattere contro un muro,
non dico le stesse cose.
Non le dico nello stesso modo.
La grana della voce non è la stessa.
Dunque in me accade che lingua e postura
si adattino l’una all’altra.
Però il primo a cambiare
a seconda della lingua che parlo
è il corpo collocato nello spazio;
si bilancia in luoghi diversi
rispetto alla colonna del fiato
che segue la spina dorsale
e al volume d’aria disegnato e spostato dagli altri
nello spostare e delimitare il mio.
L’italiano in me parte là dove i bronchi
confluiscono nella trachea.
È un fiato nato e cresciuto nell’affanno,
nel timore di ritrovarmi a mezza frase,
senza più parole o energia
per giungere a un senso compiuto.
Il giapponese è le spalle che ruotano
come a magnetizzare l’aria intorno
e a innescare un moto spiraloideo
di particelle luminescenti
che convergono verso di me
finché i miei avambracci
si sollevano a partire dai fianchi
in una specie di imbuto
fra il torace e il collo
e falange dopo falange
proiettano nello spazio ondate di krill.
Il francese è spostato più in basso,
verso la metà della cassa toracica,
e non circola verso l’alto lungo il canale centrale
ma cresce dai lati,
parallelo alle braccia distese,
passando lungo il collo
e uscendo alla pronuncia
come se mi venisse prima pompato all’interno
e poi espulso di bocca
nel moto ovoidale
di un’invisibile orbita ellittica.
L’inglese è tutto di schiena, lombi e nuca
come se dietro di me ci fosse un’altra persona
che il mio profilo occulta alla visione.
Mi ricorda quel mimo e pagliaccio di strada
che di fronte a Beaubourg
faceva ridere chi lo notava
mettendosi di spalle a un passante
e imitandolo senza che se ne accorgesse
perché passava di fretta
preso da un dolore o da altri pensieri.
Cinese, tedesco e spagnolo
sono poche parole apprese nel corso degli anni
saltuariamente e male,
di continuo dimenticate,
tutte di gola e cranio;
un montacarichi d’aria
lentamente le solleva
diluite in sangue e voce
fino a comprimerle contro la calotta cranica
e farle uscire a fiotti e spezzoni,
otturate e inespressive
come il ricordo vago ma preciso sui bordi,
sfocato e tagliente
di una compagna delle medie
di cui non ero mai stato molto amico
e che giorni fa ho saputo per caso essere morta
appena trentenne di tumore al seno
lasciando due figli piccoli
prima avvisaglia dell’onda di marea
dell’orda che viene.
L’italiano
è la lingua che parlo quando non so dove sono.
Tutto ciò chissà se qualcuno me lo chiederà mai
oppure se, l’attimo prima,
glielo dirò io.