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Né in cielo né in terra di Paolo Morelli. Recensione di Guido Conterio

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Paolo Morelli, Né in cielo né in terra, Exòrma edizioni, 2016, pp. 240, € 14,50

Ci sono romanzi che, in virtù di un alto grado di eufonia, interpellano direttamente l’orecchio del lettore, senza concedergli tempo e, talora, nemmeno possibilità di soffermarsi a individuare, delucidare ed eventualmente giudicare la grana strettamente narrativa delle righe che gli scorrono sotto gli occhi. Si tratta di un pregio così poco diffuso che da qualcuno, specie se ingordo di spunti ortodossi e sviluppi coesi, di cornici prefabbricate e colpi di scena telecomandati, quali generosamente fornisce la letteratura di genere sul mercato, può essere scambiato per difetto. Tanto peggio per coloro che incappano nell’abbaglio, verrebbe da dire, non fossero pure essi in un certo senso incolpevoli, se è vero come è vero che, come il coraggio, anche l’orecchio o uno ce l’ha o non se lo può dare.
L’ultimo lavoro di Paolo Morelli (Né in cielo né in terra, Exòrma 2016) si iscrive precisamente in questa minoritaria (ma preziosa per la sopravvivenza stessa della buona letteratura) categoria di proposte narrative: volte a restituire in prosa quei valori metrici e agogici che la poesia dei poeti, nel frattempo, va perdendo di suo, magari non senza legittime ragioni.
La prima assonanza che balza alla mente, anzi al timpano per l’appunto, nel percorrere pagine sempre così musicate e scoppiettanti è infatti quella con la scrittura, contagiante quant’altre mai, di Paolo Nori: un’affinità di toni e artifici certo non pedissequa, comunque abbastanza marcata da invogliare chi legge ad ergersi oziosamente ad arbitro di un’immaginaria sfida fra i due autori. L’esito della quale sembra essere che Paolo Morelli, se – inevitabilmente – cede qualcosa al carismatico collega dal punto di vista delle limature particolari e del risultante potere di soggiogazione, lo riguadagni in compenso là dove sia questione di evocare incisivamente attraverso i filtri del grottesco e dell’allegoria un preciso scenario geografico e umano: con tutte le professionali premure di una guida per turisti non smaliziati.
E lo scenario in parola non è qui niente di meno che l’Urbe: citata stravolta irrisa, difesa parodiata compianta con levità e fervore ideativo felliniani, ma rinunciando espressamente ai fasti, e prestidigitazioni, e magniloquenze pittoriche di cui un autentico tributo felliniano si sarebbe attrezzato; accantonando cioè in partenza l’indimenticabile cifra filmica di “Roma”, per imprigionare invece il sognaccio autoriale entro i confini altamente emblematici di un diroccato palazzo di rione, minacciato dagli “ultracorpi” di un’oltraggiosa, e falsa, riqualificazione abitativa, ma tuttora impregnato dei più nobili umori popolani. Dove un’eroica umanità residuale, anzi in più di un senso già morta, oppone, lungo uno spettro di registri esteso dal patetico al demenziale, la dignità di un arrangiarsi millenario al sinistro raziocinio del nuovo che avanza.
Una resistenza che certo intenerisce, ma forse non del tutto fuori tempo massimo: almeno a dar credito alla voce, ben udibile e rassicurante in epigrafe, di Eduardo: “Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro”.

© Guido Conterio