I rapporti umani
L’infanzia
Al centro della nostra vita sta il problema dei nostri rapporti umani: appena ne diventiamo consapevoli, cioè appena ci si presenta come un chiaro problema, e non più come confusa sofferenza, prendiamo a ricercarne le tracce e a ricostruirne la storia lungo tutta la nostra vita.
…Nell’infanzia, abbiamo soprattutto gli occhi fissi al mondo degli adulti, buio e misterioso per noi. Esso ci sembra assurdo, perché non capiamo nulla delle parole che gli adulti si scambiano fra loro, né il senso delle loro decisioni e azioni, né le cause dei loro mutamenti d’umore, delle loro collere improvvise. Le parole che si scambiano gli adulti fra loro non le capiamo e non ci interessano, anzi ci annoiano infinitamente. Ci interessano invece le loro decisioni che possono spostare il corso delle nostre giornate, i malumori che offuscano i pranzi e le cene, lo sbattere improvviso di porte e lo scoppio di voci nella notte. Abbiamo capito che in un momento qualunque, da un tranquillo scambio di parole può scatenarsi una tempesta improvvisa, con rumori di porte sbattute e di oggetti scagliati. Noi vigiliamo inquieti ogni minima incrinatura violenta nelle voci che parlano. Succede che siamo soli e assorti in un gioco, e d’improvviso s’alzano nella casa quelle voci di collera: seguitiamo meccanicamente a giocare, a conficcare sassi ed erbe in un mucchietto di terra per fare una collina: ma intanto non ce ne importa più niente di quella collina, sentiamo che non potremo essere felici finché la pace non sarà tornata in casa; le porte sbattono e noi sussultiamo; parole rabbiose volano da una stanza all’altra, parole incomprensibili per noi, non cerchiamo di capirle né di scoprire le ragioni oscure che le hanno dettate, confusamente pensiamo che dovrà trattarsi di ragioni orribili: tutto l’assurdo mistero degli adulti pesa su di noi. Tante volte complica i nostri rapporti col mondo dei nostri simili, i bambini: tante volte abbiamo, con noi un amico venuto a giocare, facciamo con lui una collina, e una porta sbattuta ci dice che è finita la pace; ardendo di vergogna, fingiamo d’interessarci moltissimo alla collina, ci sforziamo di distrarre l’attenzione del nostro amico da quelle voci selvagge che risuonano per la casa: con le mani diventate a un tratto molli e stanche, conficchiamo accuratamente dei legnetti nel mucchio di terra. Siamo assolutamente certi che in casa del nostro amico non si litiga mai, non si gridano mai selvagge parole; in casa del nostro amico tutti sono educati e sereni, litigare è una particolare vergogna di casa nostra: poi un giorno scopriremo con grande sollievo che si litiga anche in casa del nostro amico allo stesso modo come da noi, si litiga forse in tutte le case della terra.
L’adolescenza
Siamo entrati nell’adolescenza quando le parole che si scambiano gli adulti fra loro ci diventano intelligibili; intelligibili ma senza importanza per noi, perché ci è diventato indifferente che in casa nostra regni o no la pace. Ora possiamo seguire la trama delle liti domestiche, prevederne il corso e la durata: e non ne siamo più spaventati, le porte sbattono e non sussultiamo; la casa non è più per noi quello che era prima: non è più il punto da cui guardiamo tutto il resto dell’universo, è un luogo dove per caso mangiamo e abitiamo: mangiamo in fretta prestando un orecchio distratto alle parole degli adulti, parole che ci sono intelligibili ma che ci sembrano inutili; mangiamo e scappiamo nella nostra stanza di corsa per non sentire tutte quelle parole inutili: e possiamo essere molto felici anche se gli adulti intorno a noi litigano e si tengono il muso per giorni e giorni. Tutto quello che ci importa non succede più fra le pareti di casa nostra, ma fuori, per la strada e a scuola: sentiamo che non possiamo essere felici se a scuola gli altri ragazzi ci hanno un po’ disprezzato.
…Confusamente sentiamo che se ci disprezzano è soprattutto per colpa della nostra timidezza: chi sa, forse quel lontano momento in cui facevamo una collina di terra col nostro amico, e le porte sbattevano e risuonavano voci selvagge e la vergogna ci bruciava le guance, quel momento forse ha gettato in noi le radici della timidezza: e pensiamo di dover spendere la vita intera a liberarci dalla timidezza, a imparare a muoverci nello sguardo degli altri con la stessa baldanza e sbadataggine di quando siamo soli. La nostra timidezza ci appare come il più grave ostacolo a ottenere la simpatia e il consenso universale: e abbiamo fame e sete di questo consenso: nelle nostre fantasticherie, ci vediamo andare a cavallo trionfalmente per le città, in una folla che ci acclama e ci adora.
…A casa, quegli adulti che per tanti anni ci avevano pesato addosso col loro assurdo mistero, noi li castighiamo ora con un profondo disprezzo, col mutismo e l’impenetrabilità del nostro viso; ci hanno ossessionato per tanti anni col loro mistero, e noi ora ci vendichiamo opponendo loro il nostro mistero, un viso impenetrabile e muto, degli occhi di pietra. E anche ci vendichiamo sugli adulti di casa nostra, del disprezzo che hanno i nostri compagni per noi. Quel disprezzo ci sembra che investa non la nostra sola persona, ma tutta la nostra famiglia, la nostra condizione sociale, i mobili e le suppellettili di casa nostra, i modi e le consuetudini dei nostri genitori.
…Scoppiano di tanto in tanto per casa le collere d’una volta, magari adesso destate da noi, dal nostro viso di pietra: ci assale un turbine di parole violente, le porte sbattono ma non sussultiamo: sbattono adesso per noi, contro di noi che restiamo a tavola immobili, con un superbo sorriso: più tardi, soli nella nostra stanza, si scioglierà d’un tratto quel nostro sorriso superbo e scoppieremo a piangere, fantasticando sulla nostra solitudine e sull’incomprensione degli altri per noi; e sentiremo uno strano piacere a versare lagrime scottanti, a soffocare nel cuscino i singhiozzi. Sopraggiunge allora nostra madre, si commuove alla vista delle nostre lagrime, ci offre di portarci a prendere un gelato o al cinematografo; con gli occhi rossi e gonfi ma di nuovo il viso impietrito e impenetrabile, sediamo accanto a nostra madre al tavolino d’un caffè mangiando il gelato a piccolissimi cucchiaini: e tutt’intorno a noi si muove una folla di gente che ci sembra serena e leggera, mentre noi, noi siamo quello che c’è di più tetro, goffo e detestabile sulla terra.
…Chi sono gli altri e chi siamo noi? ci chiediamo. Restiamo a volte tutto un pomeriggio soli nella nostra stanza, a pensare: con un vago senso di vertigine, ci chiediamo se gli altri esistano veramente o se siamo noi che li inventiamo. Ci diciamo che forse, in nostra assenza, tutti gli altri cessano di esistere, scompaiono in un soffio: e miracolosamente risorgono, scaturiti d’un tratto dalla terra, non appena guardiamo. Non ci potrà succedere forse che un giorno, voltandoci d’improvviso, non troveremo niente, nessuno, sporgeremo la testa sul vuoto? E allora non c’è ragione, ci diciamo, di sentire tanta tristezza per il disprezzo degli altri: degli altri che forse non esistono, che dunque non pensano nulla né di noi né di sé. Mentre siamo assorti in questi pensieri vertiginosi, viene nostra madre a proporci di uscire a prendere un gelato: e ci sentiamo allora inesplicabilmente felici, smodatamente felici, per quel gelato che mangeremo, fra poco: e come mai una tale felicità in noi, ci chiediamo, per la prospettiva d’un gelato, in noi che siamo così adulti nei nostri vertiginosi pensieri, così stranamente perduti in un mondo di ombre? Accettiamo la proposta di nostra madre, ma ci guardiamo bene dal mostrarle che ne abbiamo un grande piacere: a labbra sigillate camminiamo con lei verso il caffè.
…Sempre dicendoci che gli altri non esistono forse, che siamo noi a inventarli, seguitiamo inesplicabilmente a soffrire per il disprezzo che ci dimostrano i nostri compagni di scuola, per la pesantezza e la goffaggine della nostra persona, così degna di sprezzo a nostro stesso giudizio da fare vergogna: quando gli altri ci parlano, vorremmo coprirci il viso con le due mani tanto ci sembra brutto, informe il nostro viso: e tuttavia sempre fantastichiamo che qualcuno s’innamori di noi, ci veda mentre prendiamo il gelato con nostra madre al caffè, ci segua di nascosto fino a casa e ci scriva una lettera d’amore: aspettiamo questa lettera, ogni giorno ci stupiamo profondamente di non averla ricevuta ancora; ne sappiamo delle frasi a memoria, tante volte le abbiamo mormorate dentro di noi; allora, quando questa lettera sarà arrivata, avremo davvero un ricco mistero fuori di casa, una storia segreta che s’intreccerà tutta fuori di casa; perché, adesso, dobbiamo confessare a noi stessi che il nostro mistero è una povera cosa, è ben poco quel che si nasconde dietro la nostra fronte di pietra, che presentiamo ai nostri genitori per il bacio serale; dopo quel bacio, scappiamo di gran corsa nella nostra stanza, mentre i nostri genitori si bisbigliano domande sospettose su di noi.
…Al mattino, ce ne andiamo a scuola dopo aver fissato con preoccupazione nello specchio il nostro viso: il nostro viso ha perduto la vellutata delicatezza dell’infanzia; noi pensiamo allora con rimpianto all’infanzia, a quando facevamo delle colline di terra, e il nostro solo dolore era se litigavano in casa; adesso in casa non si litiga più così spesso, i nostri fratelli maggiori sono andati ad abitare per conto proprio, i nostri genitori sono diventati più vecchi e tranquilli; ma della casa non ce ne importa più niente; camminiamo verso la scuola, soli nella nebbia; quando eravamo piccini, nostra madre ci accompagnava a scuola, ci veniva a prendere: adesso siamo soli nella nebbia, terribilmente responsabili di tutto quel che facciamo.
© Natalia Ginzburg, I rapporti umani, in «Il gatto selvatico», rivista aziendale Eni, ottobre 1957.
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