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Tensione spirituale ed echi biblici nella poesia di Luciano Erba (di Elena Sbrojavacca)

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Tensione spiritale ed echi biblici nella poesia di Luciano Erba

di Elena Sbrojavacca

 

La poesia di Luciano Erba è ammantata da una profonda tensione metafisica e sembra nascere da un intenso bisogno di contatto con il Trascendente. Vi si registra l’urgenza di un dialogo con le sacre scritture, a più riprese citate e utilizzate come spunto per tormentate riflessioni esistenziali. L’intervento ripercorre l’intero ventaglio della produzione erbiana analizzando i componimenti che mettono in luce la vocazione dell’io lirico come “lettore di segni” e le tappe della sua ricerca spirituale all’insegna di una fede salda ma costantemente messa alla prova.

Sebbene non riducibile allo status di “autore confessionale”, Erba ha a più riprese dichiarato[1] che la sua attività creativa poteva essere accostata alla ricerca religiosa, perché nasceva dal medesimo bisogno di Senso e dal desiderio, mai soddisfatto, di trovare Dio:

la poesia è una ricerca, è un po’ come una ricerca religiosa, è cercare Dio: c’è, non c’è, chi lo sa? […] Ricerca della verità, sapendo benissimo di non poterci arrivare, perché è una ricerca mai assertiva, sempre dubitativa, continua. La mia poesia l’ho trovata senza mai ottenere una risposta, oppure ho trovato risposte e allora non c’era la domanda. Ci sono delle risposte, so che sono risposte, ma non so come formulare la domanda a queste risposte.[2]

Costantemente diviso tra desiderio di comprensione e disincantata resa di fronte all’inconoscibilità del Vero, Luciano Erba sembra l’autore di un unico grande libro che racconta la sua instancabile ricerca di risposte, in un dialogo ininterrotto con il testo sacro. La Bibbia costituisce per la poesia di Erba più di un semplice repertorio di figure e suggestioni culturali: spesso problematiche dottrinali vengono poste al centro di sofferte riflessioni esistenziali. In questa sede, propongo dunque una lettura in chiave biblica di alcuni componimenti attinti dall’intero ventaglio della sua produzione, con l’obiettivo di verificare se effettivamente, al di là della posizione personale assunta dal poeta nei confronti della fede e del culto, le sue poesie possano presentare significativi agganci intertestuali con le Sacre Scritture.

1. UN ATTENTO LETTORE DI SEGNI
Fin dalla sua prima raccolta, il poeta ci presenta il mondo con cui deve confrontarsi come un universo misterioso e segreto, costellato di segni indecifrabili. Il reale appare contraddistinto da un’inquietante enigmaticità.
In Caino e le spine una fresca nottata di luna piena[3] fa da sfondo ad una sequenza di domande senza risposta:

Era mattina, erano le tre
quell’aria non aveva coscienza.
Ti offrivi al primo fresco e
perché? cani da guardia, ore, perché?
perché te stesso?
La ghiaia in strada si faceva chiara
la fontana rideva tra i bossi
intorno erano cose molto femmine
disinvolte ad esistere.
Passavi il filo spinato
senza scarpe rientravi al convento.[4]

La situazione di sfondo è suggerita dalla rievocazione di una fuga notturna da un convento di Friburgo; per questa ragione, come suggerisce Daniele Piccini,[5] il titolo, oltre che alla Commedia, sembra alludere obliquamente allo stesso Erba, che come Caino ha trasgredito ad un divieto; l’ipotesi potrebbe essere confermata da quel «passavi il filo spinato»: il fratricida, secondo la leggenda popolare a cui lo stesso Dante fa riferimento, è costretto a portare sulle spalle un fascio di spine di pruno. Nel ricordo si inserisce una tormentata riflessione sul senso di un istante che sembra poter essere rivelatore di qualcosa, ma che alla fine non porta a nulla: dopo il climax ascendente dei versi 4-5, si ritorna allo stato di partenza, alla descrizione della natura circostante, con gli angoscianti interrogativi rimasti inascoltati.
In Vanitas Varietatum,[6] forse la lirica più significativa della seconda silloge Il bel paese, tornano in primo piano angosciose domande esistenziali e assieme ad esse uno sguardo che cerca di sondare il presente per scoprirvi qualcosa che lo trascende. Il titolo, com’è noto, è una ripresa del celebre incipit dell’Ecclesiaste, «Vanitas vanitatum et omnia vanitas», che il poeta però modifica, non senza una vena di amara ironia. Si potrebbe ipotizzare un rimando al Leopardi di A se stesso, che si scaglia contro l’«infinita vanità del tutto».[7] Con il passo veterotestamentario il componimento condivide un angoscioso senso dell’illusorietà del reale, che si traduce nella messa in dubbio delle apparenze del mondo sensibile: «Io talvolta mi chiedo/ se la terra è la terra/ e se queste tra i viali del parco/ sono proprio le madri». Scegliendo di dialogare con l’Ecclesiaste, comunque, Erba si inserisce in una precisa linea della tradizione poetica che attraversa l’opera di Petrarca e Marino arrivando fino a Leopardi: una linea interessata all’interrogazione metafisica della realtà, in bilico fra pessimismo ed ironia speculativa. Lo sguardo del poeta si dirige sulla varietà della contingenza: nella tranquillità del parco ci sono rassicuranti figure di madri, cani, bambini, ma al tempo stesso l’ottobre è «rosso», cupo, popolato di «soldati» e «bersaglieri». Agosti riscontrava qui «una sensazione diffusa, conturbante, di “morbidezza”, calore e […] di odore, unita ad un sentimento di misteriosa sacralità».[8] Il fascino del componimento si gioca proprio sull’inquietante ambivalenza fra la «morbidezza» del materno come grembo (simboleggiato anche dai «mantelli aranciati») e le immagini che richiamano alla violenza, alla morte (oltre ai soldati, ricordiamo le Furie in agguato fuori dai cancelli). Le stesse sono però sapientemente confuse nel contesto: i bambini stanno spiando qualcuno – da dietro gli alberi, si noti, quindi ancora protetti: «tutto è dunque morbido sotto gli alberi» – non è chiaro se un soldato o uno scolaro. Il tricolore, i bersaglieri che entrano a Trieste, rimandano a scenari di guerra; eppure in nota il poeta spiega che pensava al «movimento concitato delle vecchie comiche».[9] Tutto è dunque confuso, indifferenziato: la violenza, il calore del materno, sono parte dello stesso disegno. La figura che meglio rappresenta questo mondo dell’indistinto è il nastro di Mœbius, in cui solo apparentemente esistono due facce: non è possibile infatti distinguerne una dall’altra, esiste in realtà un solo lato e un solo bordo. Ecco allora dimostrata la vanità della varietà del mondo: risiede nell’equivalersi degli opposti, in una pienezza del reale che si equipara al vuoto.
Sebbene l’io poetico non dimostri di avere un ruolo attivo nell’indagine della realtà che lo circonda,[10] è vero tuttavia che, nella sua «disattenzione»,[11] egli dà prova di una particolare attitudine a cogliere i segni che gli si presentano. È quella che Fontanella chiama «capacità osservativa prensile»,[12] che gli consente subitanee rivelazioni nel confronto con aspetti marginali della realtà; questa particolare abilità “ipervisiva” sembra avere precise conseguenze sullo stile; a tal riguardo, Limone ipotizzava: «la riduzione di superficie della pagina, la contrazione di sonorità, l’attenuazione di registro sono altrettanti strumenti maieutici con cui attivare un segreto elevarsi dei minimi di percezione».[13]
Questa abilità sembra comunque rafforzarsi col tempo, ed appare sempre più evidente nella raccolta Il prato più verde, uscita dopo un silenzio creativo durato diciassette anni, nella quale Prandi ravvisa «un tono più grave e meditativo, contrassegnato da una volontà di articolazione ed esplicitazione di quel non-detto che costituiva il fondamento della precedente maniera».[14] Si fa più intensa la richiesta di senso, alle improvvise folgorazioni delle raccolte precedenti si sostituiscono immagini astratte cariche di messaggi più incisivi, lo sguardo del poeta si fa più esplicitamente contemplativo. Ne Il passaggio si dichiara apertamente in ricerca:

Tra colline spaccate a V
cercando una giovinezza indeterminata e possibile
svalutando le tracce
interrogando le tracce
in terre di cielo giallo
circondato da province che mi disarmano
col loro sguardo di bambino
deciso a farla finita
con le solite dimensioni, a extrapolarmi
o, più semplicemente, a togliermi da un contesto
uscendo allora sulla campagna di neve
fino a smarrire ogni più lucido strumento d’analisi

Oltrepassando la strettoia della propria quotidianità, simboleggiata dal sentiero fra due colline, dopo una serie di segnali sempre più impalpabili, l’io riesce a scorgere nei più diversi aspetti del mondo, dalla linea dell’orizzonte alla tovaglia di casa, la sacralità e la potenza di un ultimo segno:

soltanto
la neve è esatta, esatta come la croce
due bracci di ferro nel nulla[15]

Il mondo è davvero un libro di segni, pronti ad essere letti, come dimostra Oltre le orobie: all’io poetico basta alzare gli occhi a seguire «lo svolazzo polveroso/ fra gli antichissimi stucchi della chiesa/ barocca bergamasca di un uccello/ prigioniero all’interno della cupola» per leggervi a lettere d’oro – e l’osservazione acquista così una delicata sfumatura religiosa – «San Matteo capo V BEATI I PO…».[16]
Non avviene mai che questo affastellarsi di segni porti poi ad una qualche forma di completezza o di comprensione più profonda, perché la loro esatta decrittazione resta irraggiungibile, tanto che a mano a mano matura la consapevolezza che sia forse più proficuo abbandonarsi alla loro successione con uno sguardo limpido, infantile, accettando l’impossibilità della piena conoscenza.
In Sette e mezzo, che risale alla fine degli anni ’70 e fa parte del gruppo di poesie che conclude il Nastro di Moebius, una maggiore probabilità di comprensione viene ipotizzata per i bambini:

Probabile che tra le sette e le otto
di sera di luglio o di agosto
ragazzi tra i sette e otto anni
possano capire qualcosa di questo mondo o dell’altro
giocando in giardini dove crescano
alberi a foglie grigie e bacche rosse…
Se mi è capitato? Tanto
non avrei saputo che potevo capire
ed ora? ho capito che non posso sapere.[17]

Il componimento è intriso di un forte simbolismo religioso: significativa è l’insistenza sui numeri sette e otto («tra le sette e le otto di sera», tra luglio e agosto, rispettivamente il settimo e l’ottavo mese dell’anno, ragazzini «tra i sette e otto anni»). Come è noto, il sette, nella numerologia tradizionale, è immagine della totalità, in quanto somma della perfezione del 3 e della completezza del 4, mentre al numero otto, associato alla Vergine, è connessa l’idea di nuovo inizio, di infinito, di resurrezione.
Il poeta continua a leggere questo libro del mondo: è in grado quindi di osservare le cose dal «punto di vista come un altro» degli «orti di periferia/ dopo i casoni della “Umanitaria”» (Quartiere Solari),[18] scoprendo che è negli angoli apparentemente insignificanti, «negli spazi intermedi»[19], che può nascondersi una qualche forma di verità.
Da L’ippopotamo quella che Puccetti chiamava «energia minima di veglia»,[20] si colora di nuove sfumature metafisiche, diventa «strumento di conoscenza»,[21] e può trasmutarsi in una più confusa situazione di sogno: è quello che succede in quel capolavoro che è Il tranviere metafisico. In un temporaneo cedere alle suggestioni oniriche, mettendo in secondo piano la componente razionale, l’io poetico – che non a caso, notava già Pappalardo La Rosa,[22] è il conducente di un tram senza rotaie – si trova a guidare nella campagna milanese, in quella periferia anonima appena fuori dalla metropoli che è la Lombardia che il poeta ama e al tempo stesso reputa unica possibile depositaria della Verità. Al sogno però segue un risveglio carico di dubbi: forse davvero non c’è alcuna verità “altra”, il mondo è frutto del caso e l’uomo è solo, intento a recitare un monologo senza senso. La fede vacilla, con quel desiderio di avvicinare l’al di là sempre insoddisfatto, ma proprio allora un’altra voce sembra rispondere con l’inno angelico. Certo non è possibile dire con sicurezza che si tratti davvero di un’altra voce, che quello dell’uomo sia in realtà un dialogo con qualcosa che lo trascende, e non solo una sua vana illusione: la poesia si conclude con questo dilemma insolubile.
Con L’Ipotesi circense la “caccia spirituale” del poeta prende definitivamente i connotati della ricerca religiosa: si accentua l’attenzione per il piccolo, il marginale, per «la pietra scartata dai costruttori» che diventa «testata d’angolo»,[23] in virtù della capacità delle cose più umili di comunicare «un senso di attesa senza struggimento», di «riempire il nulla.[24] Eccoli allora, protagonisti di Un cosmo qualunque, gli «oggetti senza prestigio» che possono riempire il nulla:

gli oggetti senza design
………………………………………la cravatta per il mio compleanno
le Trabant dei paesi dell’est.
Turbano, ma che mai vorrà dire?
Forse meglio di altri
esprimono una loro tensione
un’aura, si diceva una volta
verso quanto qui ci circonda.[25]

Ritornano, nella raccolta del ’95, situazioni che per qualche motivo storico-culturale sembrano poter essere più propizie alla rivelazione: come già il settimo e l’ottavo mese dell’anno, anche aprile[26], il «cruellest month»[27] di Eliot, favorisce uno sguardo carico di cogenti interrogativi sul senso («l’ut e il quia») dell’esistere. Il poeta ironizza sulla pregnanza simbolica di questo mese: dai segni della vegetazione che si rinnova si può indovinare l’esistenza di un qualcosa che travalica l’io, che né preti né filosofi riescono a spiegare.
Ed ecco poi riapparire, in Soltanto segni? I,[28] il tema del sogno. Si ripropone una situazione analoga a quella del Tranviere metafisico: ad una visione notturna densa di significati oscuri si accompagna un risveglio carico di dubbi. L’iscrizione sul crocefisso («non c’era INRI ma qualcosa come/ SP e poi forse QR») era un messaggio, evidentemente, ma il ricordo è confuso e non si riesce a decifrarlo. Immediatamente l’uomo di cultura pensa all’acronimo dei vessilli romani, ma all’uomo di fede viene da credere che vi si nasconda un annuncio di speranza. Così come nel Tranviere, il tutto si conclude con una domanda che rimane aperta: e se anche SPES fosse un acronimo, cosa starebbe ad indicare? La fede è una speranza fatta solo di «segni» e «parole» o ha una sua concretezza oggettiva (res)? Si noti che spes e res rimano in maniera significativa, per un poeta che cede di rado alla musicalità della rima baciata.[29] Si fanno quindi strada interrogativi di matrice espressamente speculativa:

Se quello che esiste è preverbale
luci linee colori senza nome
nient’altro che luce, linee e colori
come spiegò Giovanni 1/1
In principio era il Verbo
(o il Cantabrico fiero del suo Word-world)?[30]

Prima di chiudersi con un’altra ironica allusione a Thomas Stearns Eliot e al suo Ash Wednesday,[31] il componimento manifesta una profonda riflessione sul controverso incipit del Vangelo di Giovanni. Nei significati di quel “Verbo”, che è al tempo stesso, quasi contraddittoriamente, ragione ordinatrice, parola di Dio che crea, parola come rivelazione, verità che si svela per essere tale, è ben racchiuso il mistero della fede cristiana.
Filosofiche meditazioni sul senso dell’esserci, possono nascere, ancora una volta, dall’osservazione di aspetti irrilevanti del mondo circostante: un tappeto o un listello di parquet possono essere, come in Dasein,[32] dei segnali di quel Nulla che per Erba è la prova tangibile dell’esistenza del Divino.[33]
Da queste premesse si può meglio comprendere quello splendido elogio della marginalità che dà il titolo alla raccolta, L’ipotesi circense:

Ma dove siete Rosencrantz e Guildenstern?
dove pause, entractes, ore vuote?
particelle del nulla
se foste voi
a possedere la lampada di Aladino
se figuraste
la morte dalle labbra opache
quella sul viottolo d’erba ingiallita
dello sguardo dai vetri: una spallata,
ma la posta non è appena arrivata?

Comparse, interludi insignificanti
forse è grazie a voi
che non cade il Funambolo.[34]

Alle comparse spetta di fare da tramite fra umano e oltreumano, sono la chiave di accesso, la lampada di Aladino. E poiché il Funambolo altri non è che «l’ennesima metafora dell’Onnipotente, anch’egli in equilibrio su una fune, tra bene e male, tra significante e significato»,[35] sono anche ciò che tiene in piedi il Divino stesso, presentato in un’insolita veste di caducità, di umanità.
L’esistenza di un divino, che dissemina il visibile di segnali pronti ad essere individuati, non viene messa in dubbio: all’amico Vittorio Sereni, che in Ancora sulla strada di Zenna, “intenerisce” di fronte alle piante “turbate” dal passaggio della sua automobile, Erba risponde:[36]

I vecchi il fischio del treno
lontano in corsa nella pianura
lo credevano un segno di maltempo
se passava una nuvola sul sole
ecco, dicevano, s’annuvola il Signore
Io questi brividi di abeti
prima che dalla valle venga il vento
io questo tremito di foglie
dico è un messaggio, qualcuno lo coglie.[37]

Al sentimento umano di pietà e nostalgia provato da Sereni, si contrappone il brivido religioso del suo allievo,[38] che legge il mutare della natura come prova dell’esistenza di qualcosa che trascende l’uomo.
A partire da Nella terra di mezzo, Erba sembra acquisire maggior consapevolezza riguardo la sua attitudine interpretativa del mondo: nella raccolta successiva all’Ipotesi circense si moltiplicano infatti le riflessioni sulla pregnanza simbolica del creato. La risposta emozionale a queste inaspettate intuizioni non è sempre positiva: un’inquietudine di fondo permane, insieme alla paura che tutto ciò che è stato pensato come prova dell’Altrove sia solo «un segno che segna se stesso».[39]
Soltanto a partire da Remi in barca, l’ultima raccolta pubblicata presso Mondadori, è possibile registrare un allentarsi della tensione, in favore di un più docile e fiducioso abbandono all’enigmaticità del creato. Ci saranno ancora ambasciatori anonimi e ignorati, «particelle del nulla» a tenere in equilibrio il Funambolo, come «i piccioni in città» dell’omonima lirica,[40] che «aprono le ali tra cielo e terra/ fosse pure una volta sola». Trattati quasi come figure cristologiche – mediatori fra terra e cielo, sono raffigurati con le ali spalancate come le due braccia di un crocifisso – questi animali bistrattati forniscono anche il pretesto per una nuova allusione all’Amleto dopo i Rosecrantz e Guildenstern dell’Ipotesi circense: «There are more things between heaven and earth…».[41] Non sembra casuale la scelta di sostituire all’in shakespeariano un between: conosciamo ormai la preferenza accordata dal poeta per gli «spazi intermedi», i soli in cui può mimetizzarsi la verità.
A testimonianza di un mutato atteggiamento esistenziale, più aperto e sereno nei confronti del mistero dell’universo, si legga invece Ritiro spirituale:

Viandante affaticato
che arrivi a un paese di grandi tovaglie
di cibo lievemente insapore
lasci ogni dubbio nel piatto
più bianche vedi le suore
il dopo non sarà un bagno di folla
le foglie agitate dal vento
vogliono già dirti qualcosa.[42]

Nell’avvertire l’imminenza della fine, simboleggiata dal bianco delle suore, l’io poetico si rivolge a se stesso come ad un viandante affaticato[43] che deve abbandonare il pesante fardello del dubbio: di nuovo c’è per lui un messaggio, lo stanno ad indicare le foglie scosse dal vento; è tempo di cedere, con rinnovata speranza.
Non è semplice orientarsi in quel «laberinto poético»[44] che è il mondo: per quanto uno si dimostri particolarmente sensibile e attento nel sondare le apparenze alla ricerca di segnali, per quanto questi non manchino, ed anzi si moltiplichino di fronte ai suoi occhi allenati, alla loro esatta interpretazione manca sempre un passo. Il passo appare piccolo e al tempo stesso smisuratamente al di sopra delle sue capacità. Per questo motivo, per quanto si imponga di rinunciarvi, il poeta non smette di desiderare di riuscire a compierlo, prima o poi:

Non mancano i segnali, anzi in eccesso,
mi sfugge il loro senso, sono troppi?
alla fine resta un solo responso
stai attraversando un incanto a metà.

Basterebbe un piccolo passo, di misura
una luce appena intravista
allora il silenzio sarebbe un altro
sarebbe l’altra metà.[45]

2. «UNA FEDE CHE INCORPORA IL DUBBIO»
Quando decide di ritrarsi, Luciano Erba lo fa in questi termini:

Uomo vecchio in città
Disperso su tronchi secondari di ferrovia
o con un piatto di lesso
davanti a tetti umidi di pioggia.

Tutto qui il tuo qui e ora?
Interroghi l’alfabeto delle cose
ma al tuo non capire di ogni sera
sai la risposta di un mazzo di rose?

Rimani quello che andava per ciliege
e a mani vuote
strappava al tronco nastri di corteccia.

Resti un ladro di polli
con gli occhi oggi ancora sprovveduti
di quando in ritardo andavi a scuola.[46]

Questo simil-sonetto, posto quasi a conclusione dell’Ippopotamo, mi sembra raccogliere alcuni di quei capisaldi della poetica erbiana che ho cercato di tratteggiare: collocato di preferenza nella prima periferia metropolitana, in uno scenario anonimo e quasi svilente (uomo «di città», ma «disperso su tronchi secondari di ferrovia», con davanti un cielo uggioso e un «piatto di lesso»), l’io poetico si pone domande profonde sul significato della contingenza («Tutto qui il tuo qui e ora?»), senza poter giungere mai a risposte («il tuo non capire di ogni sera»); avverte, del resto, che è solo nelle cose piccole, simboli da interpretare, che queste risposte possono eventualmente risiedere (il «mazzo di rose»), ma la sua ricerca di senso rimane infruttuosa, proprio come quando da bambino, andando a caccia di ciliege, si ritrovava «a mani vuote» (incisivo l’isolamento di questa locuzione al decimo verso), e doveva accontentarsi di strappare la corteccia dal tronco dell’albero. Alla meta non si arriva, manca sempre quel «piccolo passo, di misura». Il poeta mantiene gli stessi occhi «sprovveduti» di bambino, con quella «disattenzione» da «svagato» che abbiamo visto essere l’atteggiamento più produttivo per la lettura del reale.
Tutti questi elementi, che ritornano ciclicamente, convergono in un quadro complessivo che delinea la poesia di Erba come una particolare forma di ricerca spirituale. Particolare perché al tempo stesso affannosa e «distratta», conscia dell’esistenza di una meta e persuasa dell’impossibilità di arrivarvi. In quest’ottica l’essere dichiaratamente cattolico del poeta rivela la sua importanza nient’affatto trascurabile. Se di ricerca si può dunque parlare, l’approdo a cui non si può giungere, vagheggiato e lontano, sarà di natura mistica. Luciano Erba è uomo di fede, ma pieno di incertezze, di ripensamenti, di paure. Tutto questo si traduce in una poesia che diventa strumento per sondare il mondo nel tentativo di catturare, verso su verso, l’indicibile mistero del vivere. Del resto, è anche grazie a questa insicurezza di fondo che l’uomo sente con maggior forza il conforto della fede: in Se non fosse[47] l’ultimo giorno dell’anno, momento paradigmatico di bilanci esistenziali[48], porta all’immancabile constatazione di una mancanza, di uno scarto fra le «entrate» e le «uscite»: si tratta di una differenza minima, che non dipende da un errore di calcolo («il 5 per un 6»), ma piuttosto da una svista, guarda caso, di disattenzione («un 8 per un 3»), che basta tuttavia a sballare il rendiconto e a riaccendere la voglia di capire dell’individuo, che non potrà rinunciare alla sua ricerca «del nodo, del principium erroris».
Solo i bambini vivono una smisurata, piena, totale fiducia verso quanto li circonda. Spesso il poeta ritorna col ricordo al periodo mitico della spensieratezza infantile; non si tratta di un rifiuto del presente, di una nostalgica fuga nel porto sicuro dei ricordi, ma della constatazione della totale apertura dei fanciulli a quella molteplicità del mondo che l’adulto sente invece, dolorosamente, come contraddittoria. Nel primo componimento di Remi in barca, l’autore ripercorre nei suoi momenti decisivi il delicato passaggio che segna la crescita. Il tutto è pervaso da un chiaro simbolismo religioso: palesi i riferimenti al libro della Genesi («in principio», «gli alberi del bene e del male»), racconto della perdita di innocenza dell’intera umanità. È proprio nello stretto intrecciarsi di autobiografia (il ricordo della madre, i giochi nel verde del Castello Sforzesco) e testo sacro che risiede il pregio principale di questa lirica:

in principio
le imposte dischiuse da mia madre
erano come braccia che si aprivano
per meglio salutare il nuovo giorno.

In seguito
dopo ore disperse tra le siepi
sotto l’occhio antico del ramarro
arrivavano gli alberi del bene e del male

Ma proprio qui sotto il fitto fogliame
confondevo il diverso con l’uguale,
restavo a mani vuote, mi mancava

quell’altro verde che avevo scoperto
dopo i castelli del dazio fuori porta
un nuovo verde, quasi fosse Natale.[49]

Non sorprende che la nuova dolente acquisizione dell’età adulta, che arriva a destabilizzare l’equilibrio iniziale, sia il «confondere il diverso con l’uguale». Ciò che più tiene desta l’angoscia esistenziale del poeta è proprio l’indistinguibilità degli opposti, la mancanza di confine netto tra Vero e Non Vero, Essere e Nulla: è questa la vanitas varietatum di cui si è già discusso.
Si avverte dunque chiaramente, nella poesia di Erba, l’occorrenza di una «folle discesa per le scritture», al fine di raggiungere «l’abbraccio del dare e dell’avere»: continua ad intrecciare un particolare legame col testo sacro, di cui ama rivisitare i luoghi più significativi, anche per problematizzarne i contenuti. In Lettura del Vangelo, per esempio, il poeta guarda con ironia ad un passo delle “beatitudini”, così come riportato da Matteo – lo stesso, per altro, che si poteva scorgere alzando lo sguardo alla cupola in Oltre le orobie – : «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».[50] Difficile stabilire cosa esattamente significhi essere poveri «in spirito», specificazione assente nel discorso riportato da Luca («Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio»[51]). Evidentemente il poeta è affascinato da un’espressione che denota al tempo stesso umiltà intellettuale e totale remissione alla volontà divina; caratteristiche di chi, come un bambino, non ha presunzione di conoscenza perché è consapevole della sua limitatezza rispetto a Dio.
Ho già nominato alcune citazioni scritturali contenute nei componimenti erbiani: Caino e le spine, l’Ecclesiaste di Vanitas Varietatum, i Salmi in Super flumina, l’incipit del Vangelo di Giovanni. Il poeta ama far dialogare la sua poesia con il mondo delle dottrine teologiche, ma è necessario fare un distinguo fra i richiami – come quello sopra citato – a cui fa seguito una riflessione teoretica, funzionali perciò ad un discorso inteso a provare la rilevanza della fede nella sua opera, e quelli, anche puntuali, che non hanno la stessa valenza. Quando cita La curiosa filosofía del gesuita spagnolo Juan Eusebio Nieremberg, mettendo come epigrafe al Male minore «el mundo es un laberinto poético», Erba lo fa con un preciso scopo, ovvero per esprimere un suo particolare modo di intendere la realtà come un insieme di segni da decifrare. Definendo «salvata dalle acque» la protagonista femminile de La mia fatica,[52] invece, non vuole instaurare una reale correlazione tra la giovane compagna di sventura e il profeta del popolo ebraico.[53] Molti richiami alla cultura religiosa vanno semplicemente ricondotti al bagaglio culturale riccamente nutrito di concetti teologici del nostro autore, che ha alle spalle una solida educazione cattolica. Ha tutt’altra rilevanza l’eco evangelica di Trasparenze di Mammona (Mt 6,24: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona»),[54] nel quale il testo sacro[55] si presta ad una pungente riflessione sull’uso “mercantilistico” della parola da parte del mondo mediatico contemporaneo:

Ma insomma questi quattrini
li dobbiamo proprio disprezzare
la parabola dei talenti
considerarla solo una parabola?

Nel dubbio scendiamo più in basso
al lessico del corriere vespertino
che a proposito di un trasformista della politica
scrive che si è “sdoganato” dal suo partito. [56]

Significative anche le suggestioni contenute in La vida es…,[57] ovvia allusione al dramma di Calderón de la Barca. È semplice individuare nello scetticismo rispetto all’autonomia dell’operare umano e all’autenticità della vita terrena il principale punto di contatto tra Erba e Calderón. Così, anche i personaggi di questo ordinario viaggio in autobus – il vecchio nostalgico, sdegnoso e un po’ conservatore, dal cui punto di vista tutto è ritratto, la bella donna in cretonne, il giovane onesto – sembrano gli attori di uno spettacolo teatrale, immagine del mondo secondo Calderón (ed ecco infatti i riferimenti al «gioco delle parti», al «balletto degli usi e dei costumi»), figure della vanità della vita di ogni giorno. Basta poi che un evento intervenga a turbare il regolare svolgimento della sceneggiatura – il giovane irsuto e mezzo rivoluzionario che recita una “parte” che non gli appartiene – perché l’assurdo irrompa nella tranquilla e rassicurante recita quotidiana. Allora è necessario che una brusca frenata del mezzo faccia cadere il barbuto addosso all’avvenente signora, ristabilendo l’ordinata illusione della realtà. Gli ultimi due versi inseriscono una crepa nel quotidiano, perché l’autobus giallo è paragonato alla «valle di Giosafat», luogo designato del Giudizio, secondo il libro di Gioele.[58] Si dà così una sfumatura di mistero all’intero componimento, vi si getta sopra un’ombra di sogno. Del resto – il titolo stesso ce lo ricorda – non esistono differenze tra sogno e realtà, la vita stessa è illusione, visione.
Sempre in materia di riferimenti religiosi, non sembra casuale nemmeno il menzionare Meister Eckhart in Un gatto mistico[59]: il poeta non fa mistero del suo amore per i felini – la poesia fa parte di una sezione del volume Mondadori intitolata Versi di un amatore di gatti – e, più in generale, per gli animali, protagonisti importanti della sua opera[60] – basti qui ricordare, oltre ai già citati piccioni di città, i cani che «corrono coi carretti del latte» di Una stazione climatica[61] o «il più grande coniglio che avevo accarezzato in piazza d’armi» in Nella torre d’avorio[62] –. Parla con accorato dolore della loro morte, spiegando come essa non gli dia pace per il suo essere definitiva, «assoluta», e cita in epigrafe il versetto del Salmo 36 che recita «uomini e bestie tu salvi, o Signore».[63] Molto legato alla figura di San Francesco[64], Erba sembra guardare ad essi come creature maggiormente in sintonia con il mondo, capaci di ciò che gli riesce impossibile, abbandonarsi totalmente all’Essere. Ama in particolar modo il gatto, forse perché, dotato di vibrisse che gli fanno captare spostamenti d’aria e presenze, è l’animale percettivo per eccellenza, che può, come e meglio del poeta, leggere i segnali del reale. Lo fa con intento contemplativo, non speculativo, ed infatti può carpirne i misteri. Alla figura del piccolo “teologo” a quattro zampe è affidata la speranza di una forma più profonda di comprensione; non a caso in una raccolta breve come Remi in barca le presenze feline si moltiplicano: dalla dichiarazione di affetto di Kaspar[65] («Se non ci fossero gatti come te/ mancherebbe qualcosa/ al senso della vita») al Gatto archeologo[66] che «ode con le sue vibrisse/ quel che raccontano le pietre/ sotto cieli di tante stelle fisse», fino ad un’altra eccezionale descrizione di se stesso come Uomo pensoso con gatto, [67] intento a riflettere sui misteri dell’universo. Psicanalisi, filosofia («l’istante del nulla, l’assalto / dell’es, dell’Angst, und so weiter»), ridicolizzate da quell’«e così via», non portano l’uomo ad una migliore comprensione dei misteri della sua vita. Non sono niente di fronte alla placida noncuranza del gatto, che sembra averne capito molto di più.
Per chi invece è «della razza di chi rimane a terra», è più difficile orientarsi in un mondo privo di punti di riferimento, in un nastro di Mœbius in cui tutto è uguale a se stesso e al suo opposto, in cui non vi sono confini fra Essere e Nulla. Accennavo già, a proposito de Gli Alberi, ma anche di Vanitas Varietatum, a questa paura di quella che Prandi chiama «equipollenza direzionale»: è una caratteristica centrale della poesia di Erba, di cui la critica si è molto occupata. Prandi segnala che tale concezione “binaria” del reale si concretizza a livello stilistico nel moltiplicarsi di quelli che già Luzzi definiva «stilemi dilemmatici»,[68] forme che al tempo stesso negano e affermano, di cui dà alcuni esempi: «fioriva la mongolfiera del comandante Gérard./ Non era comandante Gérard» (Areostatica),[69] «svalutando le tracce/ interrogando le tracce (Il passaggio),[70] «pelle più liscia, meno liscia» (Halloween),[71] «impegno, disimpegno disimpegno/ impegnato», «Credo, non credo» (Il tranviere metafisico), eccetera.
La pervasività dell’idea del Nulla nella poesia di Erba è stata dunque ampiamente e correttamente evidenziata; quello che forse non è stato abbastanza messo in luce è che il poeta lo concepisce niente meno che come l’altra faccia, non distinta, non rovesciabile, di Dio. La finitezza del suo essere uomo gli fa certo vivere questa nebulosità dell’Essere con tormento: si dichiarerà allora «Impreparato/ ma sì, alla vita» (Mœbius),[72] o avrà il timore di essere arrivato al suo limite di resistenza al vuoto di senso, come in Filo di ferro:

mi hanno detto che sono un filo di ferro
perché magro svelto resistente
invece no e lo sapevamo da ragazzi
che per spezzare un filo di ferro
se non hai pinze basta piegarlo di qua
e poi di là tre quattro sei volte
così mi chiedo davanti a una parete
se non sia oggi la mia settima volta[73]

Un crollo di certezze, con la spaventosa paura che attanagliava il Tranviere metafisico di essere l’attore unico di un monologo, può arrivare d’improvviso, colpire in momenti di apparente serenità: è ciò che avviene in Seguivo il tuo viaggio[74]. Se per un po’ è riuscito a provare su di sé un equilibrio di doppi, ha percepito, attraverso l’amore, che Due può essere Uno («provavo le tue impressioni/ pensavo i tuoi pensieri»), credendo perciò di vivere su se stesso quell’armonia cosmica fra Pieno e Vuoto (come «simulatore di un centro spaziale/ che riproduce a terra le vicende/ di un’astronave in volo tra le stelle»), ora questa certezza lo abbandona, si rivela illusoria: la donna è addormentata e lui può sentire di nuovo il nulla allargarsi dentro di sé, con la consapevolezza di essere altro da lei, e di non poter raggiungere una pienezza di Senso.
Va segnalato che i dubbi del poeta si rivolgono talvolta proprio a questioni di natura dottrinale; succede, per esempio, in Se è tutto qui:

Turbano la mia limpida fede
cattolica apostolica e che più
non tanto il corso dei tempi
il tradimento dei nuovi chierici, i magnifici scandali
mi restano in mano altri pezzi del puzzle
ad esempio il povero vitello grasso
che sarà l’unico ad andare di mezzo
quando il figliolo prodigo si deciderà a ritornare.
Chiaro che non ho capito niente
che dovrò ancora pensarci un po’ su.[75]

Viene così espressa una problematica fondamentale con cui si deve confrontare qualsiasi religione: lo scarto fra l’essere e il dover essere. Più che il mondo delle istituzioni ecclesiastiche con i suoi scandali e le sue eccessive ricchezze, sono infatti le sottili incoerenze che stanno alla base del messaggio evangelico a turbare la fede del credente Erba. Un esempio è contenuto nella nota parabola del figliol prodigo[76]: al figlio che ha dilapidato gli averi del padre per le sue dissolutezze viene concesso il perdono, mentre viene ucciso l’innocente vitello grasso, una bestiola mite e indifesa. Vedere il giusto, il puro e senza macchia, che paga perché possa essere reintegrato il disonesto mette a dura prova le sue profonde convinzioni morali; ma nei due versi finali ragiona come un perfetto uomo di fede: ammette di non poter capire fino in fondo, accetta la sua limitatezza.
Ancora una volta sarà combattuto e perplesso di fronte alla duplicità del reale nella poesia d’apertura della sua ultima plaquette (non a caso intitolata Le contraddizioni), l’evocativa Prima del sonno:

ci sono andato vicino, si fa per dire
non era un no immediato
neppure un netto sì
ma a San Paolo non basta
vedi 2 Cor 1, 17-20
è un salto con l’asta…[77]

È una rappresentazione intensa e quasi divertita dello stato di perenne esitazione dell’uomo rispetto alla Fede: di nuovo l’io lirico si sente vicino alla pienezza della verità, ma non lo è del tutto; non arriva a sentire dentro di sé come incontrovertibile certezza il proprio credere. San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi è categorico:

Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu «sì» e «no», ma in lui c’è stato il «sì». E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute «sì». Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro «amen» per la sua gloria.[78]

Dio si è espresso con pienezza, mantenendo le sue promesse attraverso la venuta di Gesù Cristo («in lui c’è stato il sì»); l’uomo deve rispondere attraverso il suo amen (da interpretarsi qui come “è degno di fiducia, è solido”) alla fedeltà dimostrata da Dio. Ma l’assoluta certezza delle scritture è in contrasto con la natura dubbiosa dell’uomo. Abbandonarsi ad una fede totalizzante sarà allora «un salto con l’asta», uno slancio improvviso al di fuori di se stessi, del proprio modo di essere.
Altri dubbi, nuovi ripensamenti, sopraggiungono nell’impossibilità di trovare senso alla sofferenza degli innocenti: è quello che accade in Dopo l’11 settembre, [79] uno dei rarissimi componimenti in cui Erba affronta direttamente un tema di attualità, manifestandovi anche la sua personale concezione della storia come insensata lotta per il potere,[80] fatta da uomini che non si rendono conto della loro insignificanza nell’Universo («Twin Towers, Tora Bora, che senso ha? / altri lo sanno o credono di saperlo»).
Ci sono poi i disastri naturali, segni ancora più difficili da interpretare ed accettare, aspetti di terribilità e crudeltà della natura del divino. Penso a Tsunami, contenuta in Remi in barca, una struggente descrizione della tragedia, delle sue vittime e della brutale impassibilità di un Trascendente che «sacrifica anche gli ultimi agnelli». Eppure a questo Dio dai molti volti, quello fragile da funambolo, quello spietato e incomprensibile, Erba non smette mai di rivolgersi. Non rinuncia a cercarlo e a provare ad andargli incontro: se nell’Ipotesi circense si chiedeva

E se tu fossi tenuto
in osservazione del gran Ricercatore
che volesse vedere come si comportano
le sue creature messe in situazioni
imprevedibili perfino per lui
che sa tutto per definizione?[81]

spesso ama rivolgerglisi direttamente, nei modi più diversi. In Homo viator lo cerca come un eterno errante che non trova pace, come un turista «che ha sbagliato biglietto/ e si rivolge al suo tour operator».[82] Ma è anche capace di apostrofarlo con ironia al limite del blasfemo, come in Anniversario di nozze, in cui del divino – visto come charcutier, “salumiere”, o “macellaio” – si parodizzano tutti gli aspetti, anche la ferocia.

Grand charcutier du Roy
Ti sei divertito ad affilarci
quasi fossimo due lame di coltello
opposte di sbieco tra di loro
per meglio tagliare alla fin fine
le nostre sottili tranches de vie
ne valeva la pena, ma almeno
ti cadesse quella matita dall’orecchio
grand charcutier![83]

Delicata e commovente è poi quest’ultima invocazione che segnalo in Preghiera, contenuta nella sezione degli inediti del volume Poesie di Mondadori:

Non sta scritto neanche negli apocrifi
che tu abbia mai riso né sorriso
si può solo intuire, ma è permesso?
dottrinalmente corretto?
forse te ne sto dando l’occasione
almeno per questo
ti prego trovami, o lasciati trovare
nei luoghi dell’assenza.[84]

All’immagine di un Dio severo e impassibile si contrappone il desiderio del fedele di sentirlo più umanamente vicino al proprio vivere quotidiano.[85] È un tema ampiamente discusso in ambito teologico: i Vangeli non riportano, com’è noto, alcuna testimonianza di un Gesù sorridente; San Giovanni Crisostomo riteneva che egli avesse pianto molto ma mai riso, eppure l’essersi fatto uomo del Cristo lascia pensare che abbia conosciuto tutte le manifestazioni della natura umana. Qui però la questione si traduce in una riflessione personale, meno impegnata dottrinalmente: al «viandante affaticato» serve ora un segno che dia significato al viaggio. Con profonda umiltà il poeta chiede che il Nulla si riempia di Senso, al di là delle limitazioni, dei dogmi, delle Scritture.
Così tra ubbie e rivelazioni, sempre in bilico tra paura e speranza, si dispiega, attraverso la sua poesia, questa fede di Luciano Erba, ondivaga ma costante. Lontana da ogni forma di integralismo dottrinale, salda ma perennemente messa alla prova, essa fu davvero «una fede che incorpora il dubbio». Aggirandosi per il mondo con le antenne – ma forse avrebbe preferito delle vibrisse – tese a captare i segnali dell’Altrove, questo «chierico vagante», un po’ lombardo un po’ apolide, ha intessuto la sua intera opera come un ininterrotto dialogo con Dio, tra canzonature ed echi scritturali, richieste di spiegazioni e slanci di devozione.
A chiudere il «cerchio aperto» della sua opera poetica, rimane quest’ultima lirica da Le contraddizioni, A caccia d’immagini, che mi sembra riassumere in toto gli aspetti che ho cercato di evidenziare:

Mistero, ti vediamo con la coda dell’occhio
ti sfioriamo, forse già nei dintorni della verità
premendo la mano sulla fronte
si succedono tante immagini
che imprigioniamo in una rete di parole
se invece si prende il mento tra pollice e indice
la rete resta vuota, due più due fa quattro
un po’ la stessa differenza
tra una donna che passa in mezzo ai fiori
e la stessa che, sempre a primavera,
passa, dove che sia, ma non tra i fiori.[86]

Lo chasseur d’images si rivolge direttamente all’Altro, a ciò che cerca e può vedere «con la coda dell’occhio», cioè, ancora una volta, con il produttivo sguardo della disattenzione. Infatti se ci si preme una mano sulla fronte, chiudendo così gli occhi e abbandonandosi al flusso dell’essere, si stimola una capacità che va oltre la vista, tante immagini si combinano dentro la testa, si può avere la sensazione di comprendere qualcosa. Se invece ci si sofferma a riflettere («il mento tra pollice e indice»), non si arriva a nulla («la rete resta vuota»).
Che differenza c’è infatti tra una donna che passa in mezzo ai fiori ed una che passa «dove che sia, ma non tra i fiori»? Penso che a questo punto risulterà semplice rispondere: la prima «è un messaggio, qualcuno lo coglie».

© Elena Sbrojavacca

 


[1] Questo articolo costituisce una sintesi della mia tesi di laurea, discussa a Ca’ Foscari nel 2011 sotto la guida del Prof. Pietro Gibellini, sulle interconnessioni tra la poesia erbiana e il testo sacro. In quel lavoro, il complesso rapporto fra il poeta e la fede veniva ricostruito anche attraverso alcune dichiarazioni dello stesso Erba raccolte da interviste da lui rilasciate.
[2] Affermazione contenuta nella lunga video-intervista raccolta in LUCIANO ERBA, VINCENZO PEZZELLA, Poesie e immagini, Milano, Viennepierre, 2007. La citazione è estrapolata ai minuti 20:50.
[3] Il titolo, come spiega l’autore stesso in una nota, rimanda a Dante, Inf. XX 126 e Par. II 51
[4] L. ERBA, Caino e le spine, in Poesie 1951-2001, Milano, Mondadori, 2002,p. 70. Ove non diversamente specificato, le poesie citate sono tratte da questa antologia complessiva.
[5] La poesia italiana dal 1960 ad oggi, a cura di Daniele Piccini, Milano, BUR, 2005,p. 73.
[6] L. Erba, Vanitas Varietatum,p. 79.
[7] Del resto, non sarebbe la prima volta in cui la titolistica erbiana ammicca a Leopardi: già in Linea K si trovava A me stesso; in Remi in barca sarà poi contenuta una più esplicita E pur mi giova la ricordanza.
[8] STEFANO AGOSTI, Consuntivo su Erba, in Idem, Poesia italiana contemporanea, Bompiani, Milano 1995, pp. 89-103.
[9] Luzzi ha spiegato l’ambiguità e la tendenza al nascondimento delle note del poeta: cfr. GIORGIO LUZZI, La poesia di Luciano Erba da Il male minore a Il prato più verde, «Paragone-Letteratura», anno XXIX, num. 340, giugno 1978, pp. 83-96, p. 89.
[10] Non a caso, in un componimento il poeta stesso si definirà Lo svagato: cfr. L. ERBA, Lo svagato, p. 82.
[11]Ho trovato preziose indicazioni sul significato profondo della «disattenzione» nella poesia erbiana e sulle sue implicazioni religiose, in PIER MASSIMO FORNI, L’aquilone, lo svagato e gli ireos gialli. (Tra pascoli ed Erba), in «Filologia e critica», anno XXIII, fasc. III, settembre-dicembre 1998.
[12] LUIGI FONTANELLA, Poesia dello sguardo: Variar del verde, in «Misure critiche», anno XXIII, num. 86-87, 1993, p. 109.
[13] GIUSEPPE LIMONE, In margine a “L’altra metà” di Luciano Erba, in «Paragone-Letteratura», anno 2005, num. 60-61-62, p. 169.
[14] STEFANO PRANDI, Uno sguardo «nei dintorni del nulla»…, Introduzione a L. ERBA, Poesie 1951-2001, cit., p. XVI.
[15] L. ERBA, Il passaggio, p. 95
[16] IDEM, Oltre le orobie, p. 102. Su questa poesia cfr. GLAUCO CAMBON, “Il prato più verde”, di Luciano Erba, «Forum italicum», anno XII, num. 3, Fall, 1979, pp. 359-64.
[17] L. ERBA, Sette e mezzo, p. 120.
[18] L. ERBA, Quartiere Solari, p. 141.
[19] IDEM, L’altrove, p. 178.
[20] VALTER LEONARDO PUCCETTI, Tensione d’idillio nell’“Ippopotamo” di Luciano Erba, in «Filologia e critica», XVIII, fasc. II, maggio-agosto 1993, p. 199.
[21] Il poeta scriverà ne Lo scansafatiche: «beata pigrizia devo a te/ se non sono un servo del potere/ o lo sono? sia pure senza saperlo? se tu fossi uno strumento di conoscenza?/ ecco perché scrivo pochi versi/ come questi». Cfr. L. ERBA, Lo scansafatiche, p. 348.
[22] Cfr. FRANCO PAPPALARDO LA ROSA, Luciano Erba, Il poeta nel “labirinto”, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 50.
[23] Mt, 21,42.
[24] Parafraso una dichiarazione contenuta nell’intervista a cura di MONICA MONDO, Tra Alfa e Omega l’attimo sfuggente, in «Avvenire», 27 maggio 1995.
[25] L. ERBA, Un cosmo qualunque, p. 185
[26] L. ERBA, Aprile, p. 200
[27] Richiamo ovviamente Thomas S. Eliot, La terra desolata, a cura di Alessandro Serpieri, Rizzoli, Milano 2007.
[28] Soltanto Segni? I fa parte di una piccola raccolta composta da tre poesie nell’Ipotesi circense, ma era già contenuta in Variar del verde del 1993 col titolo di Terzo risveglio.
[29] Cfr. anche F. PAPPALARDO LA ROSA, Luciano Erba, Il poeta nel “labirinto”, cit., p. 129. Sul significato della rima baciata in chiusura di componimento nella poesia di Erba, cfr. ARNALDO DI BENEDETTO, Luciano Erba, in Letteratura Italiana. Novecento. I contemporanei. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, IX, a cura di Gianni Grana, Milano, Marzorati, 1979, pp. 9039-9040.
[30] L. ERBA, Soltanto segni? III, p. 204.
[31] Del «cantabrico» il poeta ricorda in nota un intervento del 1939 sui requisiti necessari ad una società cristiana nell’epoca moderna. Eliot tenne infatti tre conferenze dal titolo The idea of a Christian Society al Corpus Christi College dell’Università di Cambridge.
[32] L. ERBA, Dasein, p. 205.
[33] «Dietro tutta la facciata c’è il nulla, la vera sede del nulla è quella. Una volta che uno ha scoperto il nulla, il Nada, ha scoperto tutto». Così si esprimeva il poeta nell’intervista contenuta in L. ERBA, V. PEZZELLA, Poesie e immagini, cit. La citazione è estrapolata ai minuti 23:05.
[34] L. ERBA, L’ipotesi circense, p. 207.
[35] Intervista a cura di M. MONDO, Tra Alfa e Omega l’attimo sfuggente, cit.
[36] Cfr. F. PAPPALARDO LA ROSA, Luciano Erba, Il poeta nel “labirinto”, cit., p. 129
[37] L. ERBA, Rincorrendo Vittorio S. sulla strada di Zenna, p. 214.
[38] L’amicizia tra i due nacque tra i banchi del Liceo Manzoni di Milano: per un anno Sereni fu insegnante di letteratura del giovane Erba.
[39] Rimando all’ultimo verso de L’ippopotamo, p. 167.
[40] I piccioni in città è il titolo della seconda lirica di L. ERBA, Remi in barca, Milano, Mondadori, 2006, p. 12.
[41] Questi versi del primo atto comparivano già, fedeli all’originale in Una visita a Caleppio, p. 155
[42] L. ERBA, Ritiro spirituale, in Remi in barca, cit., p. 23.
[43] Anche il viandante affaticato è un’immagine di provenienza biblica, nello specifico dal libro dell’Ecclesiaste, che ha goduto, com’è noto, di una sorprendente fortuna letteraria, grazie anche alla cristallizzazione leopardiana.
[44] Riprendo la citazione tratta dalla Curiosa filosofía di Juan Eusebio Nieremberg che Erba sceglie come epigrafe a Il male minore: «el mundo es un laberinto poético».
[45] L. ERBA, L’altra metà, in Remi in barca cit., p. 57.
[46] IDEM, Autoritratto, p. 79.
[47] IDEM, Se non fosse, p. 147.
[48] Particolarmente caro al poeta, questo giorno dedicato al raccoglimento e alla riflessione fa da sfondo a diversi componimenti: si vedano a tal proposito Implosion («Dicembre mi ha dischiuso una finestra/ nel giro che fa il sole attorno all’Anno) ne Il cerchio aperto, Capodanno a Milano ne La terra di mezzo, Anno che fuggi in Remi in barca.
[49] L. ERBA, Gli alberi, in Remi in barca, cit., p. 11.
[50] Mt 5, 3
[51] Lc 6, 20
[52] L. ERBA, La mia fatica, p. 46.
[53] Si veda Esodo 2,10: «Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: “Io l’ho salvato dalle acque!”».
[54] Lo stesso monito è contenuto in Lc 16,13: «Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona».
[55] Mt 25,14-30
[56] L. ERBA, Trasparenze di Mammona, in Remi in barca, cit., p. 17.
[57] IDEM, La vida es…, p. 172.
[58] Si legga per esempio in Gioele 4,2: «riunirò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle di Giosafat, e là verrò a giudizio con loro»
[59]«Tu sì capisci l’essere, contempli…/ Meister Eckhart domestico, dammi i tuoi tempi!». L. ERBA, Un gatto mistico, p. 334.
[60] Fra i pochi critici che hanno notato questo aspetto della poesia di Erba, ricordo Giovanna Ioli, che lo ha segnalato sul suo recente saggio Luciano Erba fisico e metafisico, in «Resine», num. 124, anno 2010, p p. 7-9.
[61] L. ERBA, Una stazione climatica, p. 28.
[62] IDEM, Nella torre d’avorio, p. 78.
[63] L. ERBA, La morte degli animali, in Remi in barca, cit., p. 14.
[64] Menzionato, per esempio, in Aspettando la «animalium pietate commoti».
[65] IDEM, Kaspar, ivi, p. 16.
[66] IDEM, Il gatto archeologo, ivi, p. 50.
[67] IDEM, Uomo pensoso con gatto, ivi, p. 51.
[68] Cfr. GIORGIO LUZZI, La poesia di Luciano Erba da Il male minore a Il prato più verde, cit., p. 91
[69] L. ERBA, Aerostatica, p. 89.
[70] IDEM, Il passaggio, p. 95.
[71] IDEM, Halloween, p. 97.
[72] IDEM, Mœbius, p. 103.
[73] IDEM, Filo di ferro, p. 163.
[74] IDEM, Seguivo il tuo viaggio, p. 165.
[75] IDEM, Se è tutto qui…, p. 150.
[76] Lc 15,11-32.
[77] L. ERBA, Prima del sonno, in Le contraddizioni, Milano, Quaderni di Orfeo, num. 7, 2007, p. 2.
[78] 2 Corinzi 1,19-20
[79] L. ERBA, Dopo l’11 settembre, p. 339.
[80] Così si esprimeva il poeta spiegando i motivi che lo avevano tenuto lontano da una poesia “impegnata”: «Per me la storia non c’è, la sento cronaca, non come storia: prima di diventare storia devono passare generazioni. È lotta per il potere. Non ho mai fatto poesie ideologiche.» La dichiarazione è contenuta nella già menzionata intervista di L. ERBA, V. PEZZELLA, Poesie e immagini, cit. La citazione è estrapolata ai minuti 07:40.
[81] L. ERBA, Verticale, p. 198.
[82] IDEM, Homo viator, in Remi in barca, cit., p. 46.
[83] IDEM, Anniversario di nozze, ivi, p. 44.
[84] IDEM, Preghiera, p. 347.
[85] Così lo si vedrà anche in Rema in piedi mentre tenta di scorgere, fra la fitta vegetazione di un bosco dove sta trascorrendo qualche ora con gli amici, l’immagine del «Figlio, nell’idea ancora incompleta / che provo a farmi della Trinità», raffigurandoselo come un solitario rematore controcorrente; p. 259.
[86] IDEM, A caccia d’immagini, in Le contraddizioni, cit., p. 7.

 


Articolo già apparso in «Testo», n. 64, Anno XXXIII, luglio-dicembre 2012, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore.

 

 


12493927_10153828017469780_4167205683700851509_oElena Sbrojavacca (Treviso, 1989) è dottoranda in Italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. La sua ricerca verte sull’”opera in corso” di Roberto Calasso. Presso lo stesso ateneo, ha conseguito nel 2011 la laurea di primo livello con un’indagine sulla poesia di Luciano Erba; nel 2014 ha terminato la laurea magistrale in Filologia e Letteratura Italiana discutendo una tesi su Roberto Calasso. Suoi contributi per riviste del settore, pubblicati o in attesa di pubblicazione, riguardano: Luciano Erba, Beppe Fenoglio, Roberto Calasso, Claude Fauriel, Gianfranco Contini, Andrea Zanzotto. Per qualche anno (2008-2012) ha collaborato al quotidiano «La Tribuna di Treviso».