Ho una spilletta, sulla scrivania, e la spilletta ha il volto di Virginia Woolf. Il volto di una donna di mezz’età, che al momento dello scatto aveva già ospitato più dolore di quanto sia giusto immaginare e preteso quanta più gioia sia possibile pretendere.
Chi è stato vivo non dovrebbe diventare un talismano; se questo accade, forse, è perché possedeva una qualità che chi gli fa questa violenza ritiene cara. La qualità di Virginia Woolf era la ferrea intenzione di mantenersi salda sul precipizio; chi abbia respirato i pieni e i vuoti della Signora Dalloway o si sia lasciato stordire da Le onde o abbia cavalcato Orlando con il sorriso a filo di bocca – o sia stato incantato, senza rimedio, da Al faro – ne conosce la maniera: un amore entusiasta e sottile per tutto quanto sia esistenza.
Dico questo perché fa il suo ritorno Tra un atto e l’altro, ultimo lavoro della scrittrice inglese – uscì postumo nel 1941 – ora in libreria per i tipi di nottetempo. È Chiara Valerio, dopo Flush e Freshwater (nottetempo 2012 e 2013), a firmare ancora traduzione e cura di un testo che, per la sua natura fresca, letteralmente dipende da ogni minima scelta di ritmo e di registro: come una ballerina che nasconda lo sforzo dei muscoli sotto la leggerezza dei salti, e che deve la riuscita della sua prova al sorriso quanto alla forza del piede.
Quando lasciò Between the Acts sul tavolo assieme alle due lettere di addio per Nessa e Leonard, Virginia Woolf pensava che fosse troppo “frivolo” per darlo alle stampe. I “moments of beeing” di una comunità tra un atto e l’altro di una recita per dilettanti: frivolo in un tempo in cui i suoi disturbi tornavano, le bombe piovevano così vicine da scambiarle per finestre sbattute, gli amici morivano cadenzati dai suoi calcoli su quanto fossero più giovani di lei. E per anni, scorrendo il suo diario[1], le iniziali del libro (P.H., “Poyntzet Hall”, il suo titolo originario) si legano a momenti quasi rubati alla critica, a piccole dosi di creatività estatica («Altri dieci minuti. Faccio un salto a P.H. che riesco a scrivere per un’ora sola. Come Le onde. Ne godo intensamente»[2]), alla cura per qualcosa che pretende di essere scritto malgrado il sospetto di non desiderare di congedarlo («Mi diverto abbastanza a scrivere P.H. Ed è già qualcosa perché non piacerà a nessuno, se mai qualcuno lo leggerà»[3]).
Né è troppo curioso pensare che per lungo tempo, e oggi ancora, Tra un atto e l’altro è stata considerata una delle opere più profonde e dolenti della scrittrice inglese: il senno del poi acuisce i sensi, e il raffronto con le pagine di diario dedicate alla guerra apre spesso la strada alle interpretazioni.
La certezza è che Virginia Woolf inizia a meditare Poyntzet Hall, poi Between the Acts, nel 1938. Scrive, in un brano del diario citato da Chiara Valerio in postfazione, di aver bisogno di qualcosa che la scarichi dalla tensione per la biografia di Roger Fry:
[…] ma per favore, nessuno m’imponga di nuovo quel colossale fardello; per amor del cielo. Sia casuale, un tentativo: qualcosa che io possa far fiorire in una mattinata, per alleggerirmi da Roger. Ma per amor del cielo, non fare progetti; non fare intervenire le immensità cosmiche; non forzare il tuo stanco e diffidente cervello ad abbracciare un nuovo mondo – tutte le parti in armonia – non ancora. Ma per puro divertimento, prendiamo un appunto: perché non Poyntzet Hall: un centro: tutta la letteratura discussa in rapporto a piccoli fatti umoristici, vivi, incongruenti: e tutto quello che mi salta in testa; ma respinto l’“Io”, sostituito il “Noi”, a chi rivolgere alfine una invocazione? “Noi”… composti di tante cose diverse… noi tutti vita, tutti arte, tutti poveri trovatelli – un complesso vagabondo e capriccioso, ma in un certo modo unito – lo stato attuale della mia mente? E la campagna inglese; una vecchia casa pittoresca e un giardino dove passeggiano le bambinaie – e gente che passa – e una perenne varietà e un mutamento continuo dall’intensità alla prosa, e fatti, e appunti; e… ma basta! Devo leggere Roger: e andare al servizio funebre di Ott. anche in rappresentanza di T.S. Eliot, per sua assurda richiesta, alle due e mezzo a St. Martin-in-the-Field.[4]
Molti sono i personaggi chiamati a dividersi «lo stato attuale della [sua] mente», i trovatelli dell’arte e della vita che, da una casa in campagna ritagliata come un hortus dalla guerra, assistono all’annuale spettacolo in cui sfilerà l’intera storia della cultura inglese (imperdibile, per guizzo e tempo comico, la commedia sull’Età della Restaurazione). Uomini e donne, vecchi e giovani, frugati nel loro essere soli e nel loro reagire: cosmi, nonostante la Woolf si sia bonariamente suggerita di non scomodare, come suo solito, le immensità. Tra un atto e l’altro, i personaggi vivono, collidono, si interrogano sul progetto irriverente e ambizioso che Miss La Trobe, dilettante regista appartata e geniale, vuole far culminare nientemeno (così li avvisa il programma di scena) con un atto rappresentante tutti loro – e non il tempo, bensì il momento presente. Il sogno di ogni libro di Virginia Woolf, e non solo il suo; concretizzato, se non nel finale, nel climax del suo ultimo libro; e nell’unica maniera possibile – di cui non si dirà qui – e che getta ancora più luce, ancora più tenerezza sul compito di Miss La Trobe, sul significato di dispersione e unità (parole-mantra del libro), sul metodo di Virginia Woolf, sul suo stesso dire: in loro, personaggi trovatelli, «lo stato attuale della mia mente».
È un libro amorevole, Tra un atto e l’altro, e vispo, e dolce. La sua materia è la vita, e la sua lingua è un fraseggio che spilluzzica le minime vicende e le pulsioni di un gruppo di umani, diversi per indole e per età, in quello che per loro è un giorno di festa e di riunione. Una lingua rapsodica che usa se stessa come un’indicazione dinamica, ora inchiodando le frasi ora partendo per lunghe volate sintattiche, e in cui le parole rintoccano a breve distanza quasi a cucire una frase con l’altra in un doppio movimento di raccolta e di spinta. Non stupisce che tra tutti i libri la scrittrice abbia paragonato il suo procedimento a quello usato per Le onde: anche qui la membrana tra ciò che accade e ciò che si sente è tesa al limite, anche se l’occhio registra la realtà con il movimento pigro tipico delle più belle pagine di Al faro. Non c’è gerarchia: le particelle di reale si muovono in un’aria rarefatta, e gesti, dialoghi, scorci, scivolano l’uno nell’altro raggrumandosi in immagini, su cui la scrittura si sofferma, cui si dedica fino a impossessarsene.
Dosare una prosa in questa maniera non può che portare verso due direzioni: renderla tossica, non per difetto ma per intenzione (ed è qui il perturbante di Tra un atto e l’altro, carico di quanto accadeva nel mondo durante la sua stesura come fuori dalla tenuta di Pointz Hall, dove le rondini assumono i profili della contraerea); oppure mantenere alta la levità, la cifra woolfiana del volersi in ogni caso aggrappati alla vita, a costo di «affondare con la vela spiegata»[5]. Una partita giocata al millimetro, mantenendo fermo l’assunto di Mrs Manresa, ultima di quelle dolcissime creature mondane di cui Virginia Woolf fu tanto brava a stanare le tristezze:
Perché perdere una sola goccia che può essere spremuta da questo maturo, da questo struggente, da questo squisito mondo?
© Giovanna Amato
[1] Per le citazioni a seguire, cfr. V. Woolf, Diario di una scrittrice, Minimum Fax 2005, traduzione di Giuliana De Carlo.
[2] 6 ottobre 1938.
[3] 7 agosto 1938.
[4] 26 aprile 1938.
[5] 8 marzo 1941, ultimo giorno segnato sul diario di Virginia Woolf prima del suo suicidio.
Una replica a “Virginia Woolf, “Tra un atto e l’altro” – (dispersi, siam dispersi)”
L’ha ribloggato su TaglioDiLama.
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