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Annalisa Macchia su “Vilipendio” di Gianmario Lucini

Gianmario Lucini, VILIPENDIO

Gianmario Lucini, Vilipendio, CFR Edizioni, 2014, pp. 88, € 10,00

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Mi brucia questa raccolta poetica tra le mani. Dopo il recente serpeggiare su internet della notizia sulla morte improvvisa di Gianmario Lucini, poeta, critico, editore di rara onestà e generosità, un senso di sbigottimento e incredulità non mi ha più lasciato. Mi mancherà maledettamente questo amico. La nostra era, ma dovrei dire è perché ancora lo sento presente, una strana amicizia, nata su internet ormai una quindicina di anni fa, complice la comune passione per la poesia. Inevitabile per me ripensare ai momenti che nel tempo l’hanno segnata, ripercorrere a ritroso ogni motivo delle sue “giuste collere”, spesso sfoghi impotenti, ma utili per comprendere e apprezzare la profondità e la coerenza del suo pensiero.
Il sito che Lucini gestiva, Poiein (www.poiein.it), su cui pubblicava online i suoi scritti prima di dare vita alla casa editrice CFR, per lungo tempo e per molte persone è stato palcoscenico di interventi, recensioni, note critiche, traduzioni, note di varia cultura e varia umanità… insomma tutto quanto potesse avere  attinenza con la Parola e le sue infinite declinazioni letterarie. I contatti sono proseguiti fecondi nel tempo, sfociati in comuni impegni di lavoro e in occasioni di incontri ormai non più solo virtuali, generando un’inevitabile e salda amicizia, ben radicata nel riconoscimento di analoghi ideali di vita. I suoi − ora mi appare più lampante che mai − erano di una limpidezza assoluta. Indicativa la volontà di istituire un Premio intitolato a David Maria Turoldo, uomo di umilissime origini, frate dei Servi di Maria, teologo e grande studioso delle Sacre Scritture, considerato uno dei massimi esponenti della poesia religiosa del nostro Novecento, della cui figura Lucini era affascinato.
Gianmario ha sempre sostenuto che la poesia di Turoldo, suo grande ispiratore, fosse la prima grande poesia, nella nostra letteratura, capace di abbattere la divisione tra poesia religiosa e poesia laica. Pienamente si riconosceva in quella dimensione personale e dialogica col Trascendente che non escludeva il quotidiano, il tarlo del dubbio, la problematicità, la durezza dell’esistenza, tipici di questo poeta. Non era tanto una poesia sull’umanità, piuttosto vi si scorgeva un’intera umanità nell’atto di entrare nella poesia, accompagnata da una voce alta e tonante contro tutto ciò che incarnava sopruso e violenza, spesso duramente rivolta contro la Chiesa stessa quando questa non era allineata al miracolo dell’amore e della Resurrezione.
Questo libro che continuo a rigirare tra le mani anche dopo averlo letto e riletto, uscito dalla tipografia appena pochi giorni dopo la sua scomparsa, so che resterà l’ultima sua fatica poetica e pare mi chieda più attenzione dei suoi precedenti lavori. Forse sarà l’ultimo frutto di quella casa editrice, con il logo CFR, da lui fortemente voluta e creata pur tra smisurati problemi di natura materiale, con la consapevolezza della triste condizione in cui oggi versa il mondo della cultura e dell’editoria, troppo spesso asservito da logiche di potere e di profitto. Perché non offrire al pubblico un’onesta alternativa? Tagliente un suo aforisma  a questo proposito, tratto da una precedente raccolta Memorie del Sottobosco (CFR, 2013), dove, facendo propria la lezione dei classici in un’ottica di continuità, tra satira e satira, richiama il lettore all’urgenza di ricostruire una coscienza etica: «La piccola editoria italiana sopravvive grazie al narcisismo dei poeti. La grande editoria, invece, grazie al narcisismo dei lettori» (Aforismi, sentenze, cinismi e cattiverie).
Lucini è stato definito “costruttore di pace” per la sua instancabile lotta a favore di una società più giusta e senza guerre, per quel suo marchio “civile” che, sprigionandosi dalle pagine, si scaglia con toni feroci e sarcastici contro chi abusa del potere, non rispetta la libertà di ciascun essere vivente. Il titolo di questo suo ultimo libro, Vilipendio, ovvero disprezzo, con prefazione di Antonino Contiliano e una nota di Viola Amarelli, rappresenta l’orrore per chi e per tutto ciò che opera contro la pace. Ma di quale civiltà e di quale pace si tratti lo chiarisce egli stesso in una breve nota introduttiva  rivolta ai lettori «… i miei quattro o cinque lettori sparsi per tutt’Italia…»:

Questa raccolta di poesie NON è un libro di poesia “civile”. Si tratta di poesia lirica che tematizza aspetti della realtà, pur nella sua crudezza. Il lirismo non è infatti soltanto poesia del cuore o dei buoni sentimenti ma è anche l’epica della coscienza, dei suoi conflitti e dei sentimenti che la agitano. […] La pace nasce dalla giustizia e i Paesi liberi sono l’insieme di gente libera che si rispetta e si aiuta: i confini territoriali, etnici e linguistici sono soltanto muri ed espressioni (o, peggio convenzioni) geografiche. […]

Non continuiamo a seguire il principio si vis pacem para bellum, esorta Lucini, ma sostituiamolo con un più vero si vis pacem este innocens, este mansuetus. Perché non saranno i potenti a garantire la pace, ma gli innocenti.
Antonino Contiliano sottolinea il lato provocatorio di questa sua parola: «una dichiarazione di ostilità intesa come sommo atto di amore» che, rovesciandosi nel suo contrario, sceglie l’innocenza e l’amore. «[…] gli occhi testimoniano l’innocenza primigenia/ dell’essere oltre umano/ al di sopra di ogni storia.// Quest’ultimo sfacelo/ è la vera saggezza da amare.» [Natale afghano 2013 (e forse anche 2014)].
Il “linguaggio umile” adottato nei  testi è tale, sostiene l’autore, perché possa essere compreso senza equivoci da chiunque, ma la sua parola non è certo priva di funzione estetica anche se è sempre il senso del messaggio a prevalere; destreggiandosi tra assonanze, enjambements, allitterazioni e capace, nel suo svolgersi, di saldare con equilibrio arte e riflessione filosofica, questa parola non cessa di invitare a riconsiderare concetti e valori. «[…] Non ho altro che questa/ sgangherata rivalsa della parola che s’inarca/ colpita alle costole dal dardo/ e getta un grido usato, stremato/ prima del silenzio.»(Kefiah).
Viola Amarelli, mettendo in risalto «il suo vasto affresco di ‘poesie incivili’ tenuto insieme dal collante della lotta all’ingiustizia e dall’esigenza primaria di fronteggiare il male», osserva come questo libro attesti la completa assimilazione da parte dell’autore della lezione turoldiana. Non poteva essere differentemente. Gli anni trascorsi, l’infaticabile scandagliare negli altrui linguaggi, se hanno potuto incidere sul dettato della sua parola poetica, più affinata e incisiva nelle ultime opere, non solo hanno mantenuto integra e potente la sua visionarietà, ma hanno reso ancora più forte lo scomodo urlo con cui viene espresso il messaggio.
Termina lo scenario di questa raccolta, un crudo affresco dell’odierna situazione mondiale, una poesia dal titolo significativo, quasi una premonizione: Congedo.
«Lasciami settembre all’aria intiepidita/ rammentare le nostre sventure/ nella carezza del sole che deterge lo sgomento/ per ciò che siamo e che potremmo essere. Il cuore// oggi naviga sereno per un cielo nobilissimo/ e vorrebbe sognare passaggi di luce./ Insegnami settembre, l’arte di obbedire/ alla benedetta collera del cuore// a tenerla sospesa in un angolo pronta a scattare / non appena l’uomo dimentico della morte/ la vada a cercare. Questo è il dovere/ del poeta capace di amare.»
Sono queste le parole che più di ogni altra bruciano. Tra le mani ho l’invito a continuare una lotta che il mio amico non si è mai stancato di combattere. Ma non è una lotta semplice; richiede un coraggio e una fede immensi, la capacità di affondare impietosamente lo sguardo in noi stessi per riuscire poi a volgersi intorno con occhi nuovi, di ritrovare la giusta misura dell’abitare questa terra, non solo dimora di esseri umani, ma anche ricca di stupende attrattive naturali, destinate a scomparire in breve tempo se non impariamo le leggi del rispetto.
Più che legato, quasi stregato dalla sua bella terra di origine, la Valtellina,  dalle montagne tra cui era cresciuto e vissuto,  aveva sviluppato, parallelamente al suo impegno civile, un’estrema sensibilità per la bellezza della natura e ne percepiva il degrado e lo scempio, tipici della nostra epoca, con disgusto e motivato timore per il futuro. Ne è testimonianza un altro suo libro, corredato da una serie di fotografie della Valtellina, poetiche istantanee catturate da lui stesso, Il bosco (CFR, 2013).
Il suo impegno si espandeva però per tutta Italia, con particolare attenzione ad un Sud dai panorami violentati e inquinati, dilaniato da mafia e ‘ndrangheta. A tale proposito sono state pubblicate alcune antologie tematiche, come L’impoetico mafioso (CFR, 2011), alla quale hanno partecipato 105 poeti, schierati con lui dalla parte della legalità e della responsabilità sociale e personalmente portata e discussa in scuole di ogni regione.
Per ricordarlo degnamente non sarà sufficiente parlare della sua persona, applaudire quanto ha fatto in vita e piangere la sua prematura scomparsa. Non è questo che vuole dai suoi amici, dai suoi lettori. A noi che tanto osanniamo la parola, troppo spesso usata a sproposito, ha mostrato che si può impugnare come un’arma, l’unica possibile per combattere ogni guerra. Un’eredità davvero di fuoco.

© Annalisa Macchia

[la recensione è stata pubblicata nel nr. 47 di “Gradiva”]

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