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Giorgio Cesarano (Milano, 8 aprile 1928 – 9 maggio 1975)

cesarano1

da La tartaruga di Jastov (Mondadori, 1966)

da Il giorno di Capraia

(Il gioco della verità)

«Ciò che non sono… ciò che potrei essere…»
Passa di mano in mano la bottiglia
che di bocche serali accenta pieghe.
È falso, è vero? Seminudi
danno all’aria d’estate una parola
rada, una dubbia
concordia negatrice. Spogliate,
mani di vene e tendini nel ruvido
granito, vanno all’ombra,
furtive, come granchi.
Nascono in qualche gola, per pigrizia,
frasi di comodo, interrotte
canzoni: «il mio amore inutile»,
«il disperato amore», «amore immenso».
Che ne sa il biondo
cauto capo di Nina,
il calmo seno di Matilde
bilanciata malizia per le stoffe
di prezzo e nulla amore?
Scende Demetrio la strada del Porto
con due sue donne ai fianchi.
Ecco chi non si scherma, ecco chi brucia
incautamente: vince
con il piacere insieme verità
dure, ha la bellezza
intiera e se consuma
disillusioni e sé nel tristo conto
del dare-avere, credo
non piangerà
il viso forte vulnerato.

 

Autodromo

I
Sia mattina.
.               (Ha rintronato l’alba
di spari e poi si sono diradati, spersi
.               i passi verdi
di cacciatori sempre più lontani.)
.                                                             Ma di nuovo
dallo stand del tiro
a volo, caricate le cassette
con i primi piccioni ancora umidi
.               – Pronti Pull ! –
s’appiattisce il cubetto scatta a volo
lo zurito…
.               nuovi schianti. Noi siamo
di qua dal muro, andiamo
aggirando l’ippodromo – laggiù
in fila sgambano i galoppatori –
verso l’ingresso dell’autodromo.
(Siamo i voli
degli scampati zuritos folli,
forbiciate sopra gli stecchiti
platani – hanno code mozzate –
.                                                       e uno
agli occhi di casuali presenti
come colomba sul ramo
giunge e posa
.               ma subito piomba
stecchito, se può servire.)

 

da Una visita di fine estate

(L’arrivo e prima)

Dentro qui non vedo quasi niente.
.                                          Che
mi sembra di scemare già e sono
disilluso come prevedevo (mite
come un canceroso). Duole
.     la ragione che non so.
So di voler resistere ma è poco.

«Lei scrive lettere
di domande, non annunziano
nulla e alle sue favole
manca sempre qualcosa: la morale
forse, la testa o la coda» (e
subito mi vedo fra meduse).
Veniamo al dunque: sono in fuga.

.                (…«cerca un cubetto,
Nina, una casettina
quasi proletaria, non ne so di più,
fece mi pare un disegno in aria»)
.                    ma telefonavano
sindacalisti da Torino – nel cuore
della cosa – «accade
il nostro progettato imprevisto»
.              e io sentivo
materialmente convergere in un fuoco
reale tutte le linee della mente
.                      (della sua, a me niente
.                      pareva mai possibile:
.                      «Certo già solamente
.                      d’ogni bene il morire…»).

Ma ecco esce di corsa:
.                     «Non poteva telegrafare?»
la borsa sotto braccio, «vado
dal sindaco, a più tardi.»

Dentro qui non vedo quasi niente.

 

Epitaffio

Gli altri che t’amano e io
– “è finita, finita, finita” –
gli altri che t’amano e tu e io
giustamente per sempre feroci,

noi che ci perdiamo sempre
apparendoci in lunghi corridoi,
noi siamo – tu bene della terra
inguaribile e noi di tanto niente

gli eroi vivi, le anime del niente–
siamo noi, gli altri che t’amano e io
– così finita finita finita –

i morti della vita, e tu la tersa
faccia che ci trattiene veri di dolore,
della sorte, della vita che è persa,

ultimo crampo di inguaribile amore.

.

Da Romanzi naturali, a cura di Giovanni Raboni, (Guanda, 1980)

(Buchmesse)

Erompe, si sprigiona la vampa, la fiamma delle
crêpes suzette e in altra lustra pagina
rosola nel suo fuoco s’indora lambito un
bonzo e ancora
in nuove gabbie (le più eleganti) grafiche s’allineano
i corpi non sai più se di pesci di vittime
di prodotto di sterminii d’atroci buongusti
di lampeggianti esauste verità
oh amico, amico e come s’allineano
le righe frante presto di milioni di versi
come ti si rinserra la gola s’asciuga l’occhio
l’avvilimento sprofonda nel muto te
infante che ammattisce tra giardini e patiboli
oh amico le paratie degli stand sono un implacabile
labirinto che ti riconduce stanchissimo sempre a te
che ora, accanto a me, tra i tuoi quasi chiusi occhi
l’immagine per un attimo colpisce
di un altissimo magro avido sdegnoso
d’affamato troppo veloce passo e odioso e losco
e giovane e rabbioso e d’incomprensibile
lingua ma muto ma volto altrove ma senza uno sguardo
per noi, di corsa, forse risibile: profeta.

.

Due da Pastorale in La tartaruga di Jastov e in Romanzi naturali

 

Fermo qui vicinissimo
amandoti con molto mio,
mentre, tuo, tutto il tuo
– ferma qui vicinissima –
diminuire, rimpicciolirti,
con strazio non so (piccolo?)
mi sgorga per te via.

«Come tutto che è secondo natura
e non può ferire»
ma secondo natura feriti sediamo

ammutoliti tenendoci per gli occhi
con sorrisi ( e disarmato
il dancing nudo di paglie ammainate
padiglione deserto che mi fa vedere
quella grande capanna di Lévi-Strauss
ma da secoli lasciata e ivi)
suona
nostra colonna sonora:

«Uno, due:

Ah!»

(quest’ultimo giuro un

lamento

di medio tono

s’accorda così con noi)

«Uno, due: Ah!»
stereofonica
voce  di sentimento, prova

«Prova, uno, due ah»,
accordata, di nessun senso.

Di quell’apparire sull’uscio (credo)
e forse con attrezzi di caccia in mano
in una certa ombra-luce che forse poi sapremo
(importa un accecante fuori mare)
anche, pare, l’odore di pergola
di glicine o d’uva o di campanule rosse
o di non so ma sai tu, toscana maremmana,
soprattutto il mutuo eccomi, eccola,
eccola, eccomi, che poi
– che ne sappiamo – forse nella pelle
(sulla, nella, che ne sappiamo) affoca
l’ombra – io penso di piastrelle o mattoni e tu?
e vedo sotto la pergola o nell’interno ma comunque
in presenza scampata di solleone: in ombra
tavola apparecchiata, e pranzo rimandato
per con amore, per amore, con
affezione (io credo, tu credi),
con questo, passione già? nostro affetto,
affezione che è
(io credo, credo io e tu?)
rimandata passione.

Con educata e toscana voce per eufemismi
dici la tua imperfezione.
Dici dei due mariti dici dei genitori.
Mi spaccherei le mani per passarti
un grano verosimile d’amore.
Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia
(e in una sua intimità con l’aria buia
dove splende) risplende: l’armoniosa
testa, l’armoniosa viso – che mi commuove
e mi angustia e che mi frena
nella bocca il più delle parole – troppo
deboli, o troppo, ancora, intense
d’un mio dentro di me che quanto a me t’include
ma quanto al tuo sentirti qui di fronte
e al mio fissarti e nominarti altra
da me, esclusa, e con tutta la tua
vita – ecco la fitta
illogica che addolora i miei occhi:
il non averti fatta
io, non averti io generata come questa cosa
amabilmente intima dell’aria
buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo
patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino
alla pelle dentro nudo
in un gelo lampante, irrefutabile.

Le due allodole in amore che al mio fischio virano
e domestiche, ma anche tra loro giocando, calano
verso di noi, si posano chiare al piede
del palo d’alta tensione: ho schiuso
la portiera e di lì fischio solo un po’ impedito
dalla cravatta e tu meravigliata
per un momento ti dimentichi e ti si schiude,
forse, la stretta
(di ciò che chiami – e io scarto, alzo le spalle –
di ciò che chiami angoscia)
forse per la naturale
metafora forse per l’analogia
tra quella volatile obbedienza che al mio richiamo
hai visto giocando calare di dove ormai
– non diciamo dal cielo ma dall’aria insalubre –
non si guarda che di rado e per caso magari quando guida
la croce di un’antenna, la rampante
capriata d’un sovrappasso in crescita o il vago
soprassalto se la voce coglie d’improvviso
dalla radio: meteorologia…
vedi che divago,
vedi che non amo
parlarne, basta, chiudo
di schiocco e scattano su
separandosi, per le vie di fuga,
le allodole, siamo a noi. Non sono
uomo tutto natura, il fischio
è un attrezzo d’argento che serve alla caccia,
le allodole sono credulone e svanite,
siamo noi. Allora, cara, il punto: la nevrosi:
isteria, trauma, transfert
mancato, panico dell’Es?

Come prevedevo (e c’erano
già tutti i segni: questa doppia corsia
attrezzata per nulla che non parte
e non conduce
e i suoni persi né di noi né d’altri
e gli sterpi dove giacere più morti
che vivi)

te ne vai portando via così
via te bambina te su quella nave
che nei sogni tutta illuminata cola
a picco in acque buie dove tu nuoti ed io
ti salvo; il ponte ove uno,
gentiluomo, forse come me barbuto (oppure
è a tuo padre che somiglio?) all’ombra
oblunga della lancia ti rovesciò
bambina e ti
(per gli erotici
libri che io amo come
scene così sono persino dolci)
vai con nel ventre o non so nel cranio chiusa
quella tua sprofondata verginità di tante
volte stuprata infante stesa nei capelli
– dicevi a braccia larghe “ti voglio bene così ” –
via intatta come la piccola ebrea
perquisita spogliata spinta nella via
tutta conclusa in un nero d’occhi
così intrepidi così infelici.

La spuma che mi si
agli inguini e poi affiora
in una lenta ombra in una
macchia di stoffa

le tue vite di stoffa tiepida e quella
sprofondante faccia della mia anima.

(Sotto casa tua
come sapevo che possa
accadere ma non a me, con
le dita fra i denti con i denti
premuti sui gridi muti e con
un male che sterrefatto
mi piega strangolato in due.)

Tutto perché hai due
tette grandi e un
culo di fossette e una
mole gonna bagnata nera

tutto perché
hai quella tremenda
faccia della mia

(anima) perché mi spacchi
il ventre e mi
(anima) il ventre e mi
nuda ridi e ti
sprofondo dentro nel corpo e non ti tocco
(anima) e non ti tocco
per quanto è lunga tutta una notte duro
dentro il tuo corpo stremato e non
e non ti tocco, anima,
sprofondante anima della mia
vita (anima) mai.

 

Con la testa sul mio cuscino
dormivi nei tuoi capelli
sanguiformi nell’alba

– ora ti guardo mentre perdi luce
piangendo nei tuoi capelli all’addio,
sul campo è l’ora dei pipistrelli –

debole come ora e tradito
da tanta mia spesa dolcezza
non sapevo vedere di te
che il nero, la cupa forma che mi assorbe.

 

                            Con la testa sul mio cuscino
e questo che reggo sul mio gomito, mio
corpo, dai segni ancora di palestra e degli
strapiombi d’asfissia
a soffi il mare
vive per un momento in una
tenda spettrale
aveva i tuoi occhi
la ragazza che in questo stesso hotel
d’ironico nome Victoria
quand’ebbero gli anni principio d’amore
venne diritta, vita.
Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi
di me che discendendo li raggiungo.
Solo allungassi la mano
verso il soccorso della voce della
chiara serena Nina tutta certa.
Ma questo che reggo sul gomito, mio
corpo discende nel tuo sonno.
«Ora lo so di tutti quei corpi
scoperti da principio come un po’ più grandi
macchie di foglie e fiori nei campi.»
«E tu imperterrito alla finestra?»

«E io nella cristallina
acqua del cannocchiale a gelarmi.»
«Ma non eri dunque mai stato infelice?»

«Ora lo so di tutti quei gesti
muti nella ravvicinata
distanza; il filma delle delizie!
la ragione disperata che non mi riesciva
mai, stupefatto, di chiamarmi.»
«Ma allora quei versi persino eleganti,
così chiari a me, che non li posso amare.»

«Allora quei versi non me i seppi spiegare,
partigiano della gioia e così sordo all’inferno.

Disceso con te dove brucia l’inverno.»
Come in margine al campo,
come all’angolo
tra siepe e fosso, in auto, e dove
la palta è calva è pesta è da topi è da carogne
di gatti è da cristi sfiancati da ammazzati
“io qui
(mentre ci si abbracciava e tu
con le lagrime io con la voglia
d’avere finalmente una furibonda
voglia, non dolce, in quel momento
sospeso fra un dirotto stupro e adesso
mi piego di gola sul volante adesso
me ne frego e piango me ne frego e schianto)
“io qui” potrebbe girarmi di dire “se dovessi
scegliere di farla finita” cosa che non dico
e mi duole come a te secondo te la bocca
delle viscere e mando a memoria
luce smorta ancora tutte le foglie
persino una rasente
rondine, ma se è già inverno
ma se è già niente, già niente, ma se
basta. Tu alzi uno sguardo
di cuoio e “amore tu mi dai tanto”
dici “ e caro non sono capace di dare
niente” mi vedi partire
“non sono capace di vivere” immobile a un palmo
mi vedi che taglio la corda che me ne vado
“non sono capace di vivere senza te”
filando seduto morto a un palmo da te.

.

da L’insurrezione erotica (Autocritica della corporeità metaforica)

Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974

 

0.

La sensazione di pena e mancanza suscitata dai rapporti formalizzati, fa sì che l’esigenza di spezzarne i limiti, per superarne la miseria più evidente, si manifesti come desiderio di farli “saltare” mediante l’irruzione della sessualità. Ma si tratta ancora di un riflesso della miseria, un corto circuito in cui l’intolleranza immediatistica del minimo cui è ridotto il tessuto sociale gli avvicina il massimo cui riesce a tendere, in condizioni di umiliazione e di fame, il desiderio, facendo apparire i due “estremi” come e prossimi quasi comunicanti, non appena l’intenzione qualitativa spezzi la separazione. Ma si svela così l’illusione. Né ciò che manca ai rapporti degradati è la sessualità, né la sessualità così com’è, storicamente determinata, punto più alto in cui la valorizzazione isola il piacere come salario della passione addomesticata al lavoro(prestazione energetica, investimento di tempo-denaro), può concentrare in sé ogni requisito qualitativo. Il dissequestro della qualità e del piacere è il compito rivoluzionario destinato a scongelare il feticcio della sessualità e, al tempo stesso, liberandola dai suoi falsi contenuti surrogatizi, magico-religiosi, a dispiegarne la ricchezza stornata. L’erotizzazione dei rapporti, la realizzazione qualitativa del loro tendere alla totalità, non vedrà più la sessualità né come mezzo, né come fine, ma come momento significativo del rapporto essenziale tra le qualità del vivente.

1.

“È solo nella violazione — al livello della morte — dell’isolamento individuale, che fa la propria apparizione quell’immagine dell’essere amato che per l’amante rappresenta il senso di tutto ciò che esiste.” Così Bataille (L’erotismo, Mondadori, p. 28). Ma l’isolamento individuale di cui parla è la prigionia nella figura di sé — violarne il fortilizio è davvero un rischio mortale —: l’apparizione di “quell’immagine dell’essere amato” è innanzitutto l’apparire della liberazione possibile, nella coniugazione col mondo, il senso appunto di tutto ciò che esiste. Al di sotto di ogni psicodramma dell’amore, negli inferi della carcerazione in sé, questa è la tragedia: l’al di là di sé appare come una “immagine”, una cifra simbolica della totalità agognata. Essa risplende di tutta la forza cresciuta nella compressione della manque à être, non tanto perché ne sia la proiezione allucinatoria (e in questo senso fittizia), quanto perché effettivamente la manque conosce e chiama l’être che le è assente, sa che esiste fuori dal sé, lo aspetta e lo cerca da sempre. L’immagine è dunque la promessa d’essere, e, insieme, la dimostrazione della sua concreta possibilità. Essa è infatti incarnata; è, come infelicemente ma realisticamente si è abituati a dire, una “persona”, ossia la maschera di un dramma, ma la maschera indossata da qualcuno che è, o più esattamente desidera essere. Una menzogna antichissima, e un’allucinazione sempre nuova, istituisce a questo punto una simmetria perfettamente illusoria. Due “persone” si trovano l’una in presenza dell’altra, si desiderano e si amano, non gli resta che congiungersi. Ma due “persone” non possono, letteralmente, congiungersi: non appena si apprestano a farlo, ecco che si separano, tanto più sostanzialmente quanto più formalmente il congiungimento appare ricco e animato. La ricchezza è accumulazione di forme metonimiche, l’animazione è di figure, di cartoons. L’ostinazione cieca con cui due “persone” si sforzano di congiungersi è simile a quella con cui taluni animali, e i bambini, si sforzano di lottare, o di congiungersi, con la propria immagine riflessa nello specchio. A fronteggiarsi sono infatti due immagini reciprocamente speculari, e speculari particolarmente nella loro diversità (l’alterità sessuale e/o l’alterità fisiognomica, in senso lato) e nella loro specificità individuale.

2.

L’angustia — la sofferenza di cui parla Bataille (“l’amore ci impegna pertanto alla sofferenza, poiché la piena fusione è apparente; e tuttavia l’amore promette la fine della sofferenza”, ibid.) — implacabilmente soffoca il piacere in questo cozzo di due architetture o “macchine”, belliche e carcerarie insieme. Ciascuno è per l’altro ciò che non è in sé. Ciascuno, per incontrare l’altro, deve uscire da sé. Di questo è fatta l’estasi, questa sortita armata fuori dal fortilizio del sé. Ma non appena l’estasi tende a spiegarsi, ad affermarsi, negarsi come istante e cercarsi come totalità e come durata, l’altro si svela essere come una pietra o un albero, o come un idolo: un oggetto, una “cosa”, un’entità comune al mondo delle cose, una cosa del mondo in cui il fortilizio ha fondamento. In questo, l’altro indica già, nell’istante stesso dell’estasi, la via del ritorno alla prigione, segnalandosi come cosa dell’orizzonte della prigione, significandosi come la pochezza in cui si disconoscono desideri e volontà, in cui si riconoscono frustrazione e inanità. Questo è vero per ciascuno; è così che gli amanti conoscono insieme e nel medesimo movimento la gravità del progetto contenuto nel desiderio e la miseria della sconfitta espressa dalla mancata realizzazione. O meglio: dalla realizzazione della mancanza. Ma guai a chi, di questa banalità del proprio destino, fa la trappola in cui va a morire ogni destino. Chi cessa di progettare l’evasione, chi cessa di osare tendervi e di detestare la miseria della carcerazione nel sé, muore chiuso nel sé, fa di sé la storia di una morte mentre muore alla storia, pone fine alla sua via mentre resta un ciottolo della grande via.

3.

L’amore, prescrive il cinismo dei proverbi, è una lotta. Di questa saggezza miserabile si inorgoglisce il sorriso dei vili: a che vale, muoversi alla ricerca dell’estasi, quando sai che non potrai trovare se non il corpo del niente, che il desiderio della fusione e della sortita dalla prigionia si conoscerà, stravolto, come un corpo a corpo di fantasmi? Se è anche vero che l’amore è una lotta, è più vero che la lotta è di ciascuno contro la propria miseria e contro la propria prigionia. Non si lotta contro l’altro, si lotta contro il sé. Nessun manuale di strategia amorosa vede la moralità di questa lotta. È più osceno il presunto realismo delle “astuzie” d’amore che le eiaculazioni sul viso della pornografia. Bataille scrive, temerariamente: “L’essere amato è, per chi lo fa oggetto d’amore, la trasparenza del mondo. Ciò che attraverso l’essere amato appare (…) è l’essere pieno, illimitato, cui l’individualità non oppone più barriere”. L’essere amato è la trasparenza del mondo finché non si riduce ad apparire come l’oggetto d’amore, e non appena appare come l’oggetto d’amore ogni trasparenza dilegua, l’opacità spezza lo sguardo, la specularità lo fa regredire al passato. Guarda l’essere che ami nel cuore di un paese: vedrai, se l’amore è forte, quanto è grande il paese del tuo cuore, e come esso è un regno, e come la tua e quella dell’essere amato volga ad essere la signoria senza schiavitù. Ma guarda ancora l’immagine della persona che ami al centro di un paesaggio: vedi la serva-padrona che fu tua madre e il forzato-sbirro che fu tuo padre, al centro focale del tuo passato, proiettato come un incubo onnivoro e ossessivo, sopra ogni presente, contro ogni futuro. Fai del progetto amoroso un oggetto d’amore e vedrai il tuo passato come la barriera specchiante che ti separa dal presente.

4.

Sei mia sono tua, la mia donna, il mio uomo: l’essere è già sgominato, l’avere già si impone con il suo contenuto di niente. Eppure non è liquidando la fedeltà alla scelta, la temerarietà di un progetto comune, che si supera la pietrificazione e l’annientamento. Se è vero che due amanti giacciono l’uno “con” l’altro come due amuleti, o due figure di un gioco tetro, o due bracci di un congegno, è però vero che essi solo così trattengono, nella loro ostinazione a volere, e anche quando essa appare come un’immotivata coazione a distruggersi, il sogno di una cosa che è al di là della cosalità in cui giacciono, il progetto d’essere che effettivamente è la loro sola ragione d’esistere, il loro solo onore, e il solo onore che trapassi l’atrocità dell’infanzia.

5.

“È, in una parola, la fusione dell’essere visto come liberazione a partire dall’essere dell’amante” scrive ancora Bataille, e: “C’è in quest’apparenza un’assurdità, un’orrenda mescolanza: ma, al di là dell’assurdità, della mescolanza, della sofferenza, splende una verità miracolosa. Niente, a conti fatti, è illusorio nella verità dell’amore: l’essere amato equivale, per chi lo fa oggetto d’amore, e naturalmente solo per chi lo faccia oggetto d’amore (ma che importa?) alla verità dell’essere. Vuole il caso che, tramite l’oggetto d’amore, sparita la complessità del mondo, l’amante scorga il fondo dell’essere, la semplicità dell’essere”. Ciò che l’amante vede nell’amato, l’ho già detto, è la concretezza possibile esistente fuori di sé, nella generalità, di un progetto d’essere che è, al tempo stesso, suo e non-suo, squisitamente personale, individuale e unico e patentemente sovrapersonale, comunista, “storico”. L’indulgenza ipocrita con cui l’universo mondano tollera la presenza degli amanti maschera a malapena l’astio e l’intolleranza per ciò che sempre l’amore trasmette d’eversivo, e lo maschera facendosi forte sulla comicità patetica, sulla goffaggine degli amanti. Coloro che incespicano tenendosi per mano. Coloro che “si illudono”. La mondanità pregusta la vendetta storicamente preparata. Finirà, quell’amore, come tutti gli altri, nel risentimento e nel vuoto; si accomuneranno, quei comunisti, alla comunità dei relitti e della desolazione. Ah sì, l’orrenda mescolanza prepara effettivamente in anticipo una sconfitta certa. Finché la vita non sarà liberata, ogni battesimo è un memento mori, ogni abbeverata un avvelenamento.

5 bis.

La misura individuale si conclude nella morte, solo la specie, la comunità totale, possiede la misura della vita verso la quale procede. Ma la vita realizzata riscatterà dalla morte l’individuo, non appena gli consentirà di superare la dimidiazione, di fondersi, indiviso, con la totalità, nel flusso del processo.

6.

Tutto, “a conti fatti”, è illusorio nell’amore, se si tratta di fare i conti. L’essere amato equivaledavvero, per chi lo fa oggetto d’amore, alla verità dell’essere: le equivale nel senso che ne è la cifra simbolica, la moneta-figura. L’oggetto è l’equivalente generale dell’essere, in una circolazione di capitale fittizio in cui l’essere ha per requisito essenziale quello di mancare. Non si capirà mai a sufficienza la portata positiva di ciò che è assenza. Ciò che manca è potente, ciò che manca si impone d’essere, di ciò che manca il processo nutre la sua dinamica inseguitrice.

 


(Selezione a cura di Fabio Michieli e Francesco Filia)

6 risposte a “Giorgio Cesarano (Milano, 8 aprile 1928 – 9 maggio 1975)”

    • Vero Vincenzo! Ogni volta che li rileggo continuano a parlarmi in maniera violenta e radicale.. irrefutabile…

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  1. Forse non tutti ricordano che nella fascetta biografica di uno dei suoi ultimi libri si leggeva “si è occupato di letteratura”. Riporto i seguenti versi di Cesarano: “se tutto è ancora da fare/preferirei essere, con il male morto,/ piuttosto che vivo qui/ per errore a parlare di errori”.

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  2. Vero Sergio, un autore inaggirabile per questo maestro necessario. I versi citati da te , Renzo, confermano la straziante potenza del dettato di Cesarano.

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