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Purgatorio dantesco: il Paradiso degli invidiosi

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Qualche mese fa avevo proposto una riflessione sulla prima cantica della Divina Commedia, nel solco di alcune suggestioni di Auerbach (per rileggerla, qui). Affrontavo in definitiva un problema centrale dell’Inferno, il contrasto tra ragioni umane e ragioni divine, cercando di mostrare come la dignità poetica dei personaggi finisca per sottrarli utopicamente alla dannazione eterna. In altre parole questi personaggi, per quanto dannati e perdenti, non possono che sembrare belli e vincenti agli occhi di noi lettori, proprio grazie alla poesia di Dante. Questo discorso vale molto meno nella seconda cantica, perché nel Purgatorio il divario tra le anime e Dio verrà presto o tardi colmato, e non esiste un’opposizione irriducibile tra dannazione e beatitudine, tra debolezza degli uomini e perfezione celeste. Il pellegrino stesso si stupisce per i canti soavi che accompagnano il transito da una cornice all’altra («Ahi quanto son diverse quelle foci/ da l’infernali! Ché quivi per canti/ s’entra, e là giù per lamenti feroci», cantoXII, vv.112-4). I profili umani risultano dunque molto più sfumati e chiaroscurali, com’è d’altra parte l’atmosfera prevalente di questa cantica. La rappresentazione di alcune anime rimane tuttavia potentissima, come nel caso di Pia de’ Tolomei, morta di morte violenta, da ricordare soprattutto per quel verso («Siena mi fé, disfecemi Maremma», canto V, v. 134) che sembra la più essenziale delle epigrafi. Nascita e morte, a rievocare pure qui nel Purgatorio il tempo troppo breve della vita umana.
Passando dalla prima alla seconda cantica, ogni lettore dovrebbe notare un’evidente asimmetria strutturale: il Purgatorio ripropone infatti le colpe che nell’Inferno sono attribuite all’incontinenza (lo fa però in ordine rovesciato, dalla più grave alla meno grave), ma ne aggiunge due, Invidia e Superbia. Perché questo? In parte dipende senz’altro dalla dottrina di riferimento, dal sistema etico e teologico al quale Dante si rifà: l’ordinamento purgatoriale riflette infatti lo schema scolastico dei vizi capitali, che nel regno precedente regola soltanto, e come detto parzialmente, le zone meno profonde. Ma queste sono ragioni estrinseche, culturali, che non riguardano direttamente l’economia interna del testo. Sarebbe importante capire piuttosto se esistono altre ragioni, di tipo formale, estetico, capaci di sprigionare anche degli effetti di significato che magari neppure Dante aveva previsto. Vittorio Sermonti fa notare che nella prima cantica si parla dell’invidia due volte: il suicida Pier de la Vigna la definisce meretrice «con occhi putti» (vedremo tra poco il problema della vista negli invidiosi), ma prima ancora, proprio all’inizio, Virgilio la designa come prerogativa principale del demonio (Inf., canto I, v. 111). Insomma, «[s]e il delitto di Lucifero è stato un atto di superbia assoluta inalberato contro il creatore, diciamo pure che il suo castigo è l’esercizio dell’invidia assoluta, la coazione a desiderare in perpetuo l’infelicità di tutte le creature» (V. Sermonti, Il Purgatorio di Dante, Bur, 2014, p. 241). Come dire, Invidia e Superbia non compaiono direttamente all’Inferno come peccati da espiare perché sono già attributi costitutivi di Satana e del suo regno. Chissà. Proviamo però a seguire un’altra strada.
Invidia e Superbia sono colpe speculari fra loro. Entrambe hanno infatti a che fare con il mancato riconoscimento dell’altro nella sua essenza: per il superbo l’altro è poco e niente; per l’invidioso, tanto e troppo. C’è anche un sottile filo genealogico che le mette in relazione nel testo: il superbo Provenzano è nipote dell’invidiosa Sapìa. I due vizi danno origine a un memorabile contrappasso, per antitesi nel caso dei superbi, analogico per quanto riguarda gli invidiosi. I primi, che in vita guardarono tutti dall’alto in basso, sono ora schiacchiati sotto enormi macigni, simili alle figure umane rannicchiate che a volte sorreggono le mensole. Gli invidiosi, invece, che non seppero né vollero guardare il bene degli altri, se non per maledirlo (in-videre può stare per «guardo contro, guardo male», ma più probabilmente in- è la negazione, segnala il rifiuto dello sguardo), hanno le palpebre cucite con del fil di ferro, indossano il cilicio, si appoggiano l’uno sull’altro, e tutti quanti a una parete livida di roccia (livida proprio come i loro antichi livori – annota ancora Sermonti, p. 243). Sull’augurare l’infelicità agli altri, sentiamo Sapía: «Savia non fui, avvegna che Sapía/ fossi chiamata, e fui de li altrui danni/ più lieta assai che di ventura mia» (canto XIII, vv. 109-111). Sul problema di vederne la felicità, questo è Guido del Duca: «Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,/ che se veduto avesse uom farsi lieto,/ visto m’avresti di livore sparso» (canto XIV, vv. 82-84). Fermiamoci un attimo. Nel Purgatorio è spesso questione di non vederci bene. Capita tutte le volte che Dante incontra gli intermediari celesti, da Catone agli angeli: «Li raggi de le quattro luci sante/ fregiavan sì la sua faccia di lume,/ ch’i’ ‘l vedea come ‘l sol fosse davante» (canto I, vv. 37-39); «A noi venia la creatura bella,/ biancovestito e ne la faccia quale/ par tremolando mattutina stella» (canto XII, vv. 88-90); «L’aspetto suo m’avea la vista tolta» (canto XXIV, v. 142); e molti altri ancora. In questi esempi non si vede per troppa luce, mentre almeno in un altro caso non si vede perché la luce manca, annullata dal fumo. Siamo tra gli iracondi, in quello che è certo, insieme al girone dei lussuriosi tra le fiamme, il luogo più infernale del Purgatorio, come l’inizio stesso del canto ci suggerisce: «Buio d’inferno e di notte privata/ d’ogne pianeto, sotto pover cielo,/ quant’esser può di nuvol tenebrata,/ non fece al viso mio sì grosso velo/ come quel fummo ch’ivi ci coperse» (canto XVI, vv. 1-5). Ma queste sono ancora somiglianze di superficie. A me sembra invece che il peccato dell’Invidia, presente in questa cantica e assente nella precedente, assolva nel testo una funzione molto più profonda e significativa. Direi addirittura che la condizione degli invidiosi è la figura nella quale si adempie l’intero secondo libro della Commedia. Non mi riferisco soltanto alla relazione con la Superbia, che è in fondo, come detto, l’altra faccia dell’Invidia, ma a una sorta di equivalenza molto più generale. Dunque: come gli invidiosi non seppero in vita appuntare lo sguardo sul bene altrui, e ne pagano le conseguenze in un contrappasso cieco, così tutte le anime purgatoriali non possono ancora vedere il sommo Bene, non possono vedere Dio. E come gli invidiosi ci sembrano in grado di rivedere un giorno la luce, anche per effetto di quell’immagine portentosamente patetica delle lacrime che superano la cucitura e ricadono sulle guance: «le divote/ ombre, che per l’orribile costura/ premevan sì, che bagnavan le gote» (canto XIII, vv. 82-84); così sappiamo che ogni penitenza purgatoriale è soltanto temporanea, e si concluderà, finalmente, con la visione della Luce.
La scintilla utopica che nell’Inferno facevo dipendere dall’ambivalenza tra umano e divino qui risiede proprio nella figura dell’Invidia. Quando parlo di utopia mi riferisco alla possibilità che il testo sprigioni anche un residuo di significato che si libera e addirittura entra in contrasto con il senso complessivo dell’opera. Accadeva così nella prima cantica, dove le ragioni umane finivano per emanciparsi dalla struttura teologico-concettuale, e qualcosa del genere avviene qui. Se davvero il Purgatorio è “tutto invidioso” (i penitenti che non possono vedere alla fine vedranno, apriranno gli occhi) allora è come se Dante ci dicesse: l’Invidia non è una colpa dannata per l’eternità e gli invidiosi non finiscono all’Inferno, l’Invidia è la colpa da cui si guarisce, da cui certamente si esce. Naturalmente a Dante interessa il percorso verso il Paradiso, verso Dio. Eppure, ed ecco il residuo di significato, la provvisorietà della condizione purgatoriale sembra parlare anche della nostra stessa vita terrena, di noi poveri invidiosi qualunque, della nostra possibilità di redimerci da soli. C’è insomma tempo anche nel mondo di qua per la conquista più difficile e meno spontanea di tutte: imparare a essere davvero felici per il bene degli altri.

@Andrea Accardi

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10 risposte a “Purgatorio dantesco: il Paradiso degli invidiosi”

  1. Complimenti Andrea, gran bel contributo. Sei riuscito a far emergere la potenza dei contrasti presenti nella seconda cantica spesso (troppo spesso) liquidata frettolosamente non tanto dalla critica blasonata, quanto piuttosto dal lettore che si fa (giustamente, sia chiaro) catturare dalla ‘ferocia’ dell’Inferno.
    Resto dell’idea che il Purgatorio sia la cantica che ha messo più in difficoltà il Sommo perché costretto a cercare di creare la dimensione dell’attesa e della fede nell’ascesa al Paradiso (e qui lo stupore per i canti e tutto il resto che anche tu ricordi in apertura del tuo intervento).

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  2. Ho letto questo contributo di Andrea Accardi, traendone grande arricchimento, letterario, linguistico – penso anche a quel “e fui de l’altrui danni più lieta assai” giustamente messo in risalto, che richiama, quasi asseconda, l’aggettivo tedesco “schadenfroh” -, dunque umano. Gratitudine ed entusiasmo.

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  3. Complimenti. Accostarsi a Dante è smepre difficile, anche per uno specialista, perché c’è il rischio di ripetere “cose” dette da altri. Invece tu hai dato un taglio introgante, ponendo l’accento su una cantica che è stata sempre trascurata. Penso a quando a scuola si studia la Commedia. Si parte esaltati con l’Inferno, si arriva faticosamente alla fine con le altre due cantiche.

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  4. Grazie a tutti per la lettura e i commenti!
    E grazie Lucia per il tuo contributo aggiunto, mi piace soprattutto il passaggio che hai scovato dalle rime petrose alla pietraia purgatoriale. Non sono del tutto d’accordo con Natoli che citi, è vero che l’invidioso può essere un Superbo sconfitto, ma la Superbia può anche risultare da una reazione all’Invidia (abbasso gli altri per non invidiarli più), quindi la questione è psicologicamente ambigua. Per Lucifero varrà anche il primo caso, ma come ho già detto non si può ridurre Dante alla sola teologia.
    Fabio, il Purgatorio è il canto dell’attesa e della sospensione, come hai detto, e Dante ha creato un’atmosfera chiaroscurale che fa pensare addirittura al simbolismo di fine Ottocento, una prova in più del suo genio.
    Grazie ancora, e ci vediamo in Paradiso :P

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