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Dalle parti di Carver, appaiando stelle

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Orientarsi, sì, seguendo le stelle. Sceglierne una, appaiandola poi a un’altra. Così, a ruota libera, ed ecco la traccia per un’altra stella, da mettere vicino a un’altra ancora che le brilla lì vicino. Giusto per fare luce sulla strada e per gusto del sentire, si traccia un sentiero. Tutta un’opera di poesia in mano consente questo, libera il gioco: associazioni, richiami, intersezioni. Perché con Carver si entra in un paese. Dalle sue parti si arriva così volentieri: subito l’amicizia con luoghi, nomi, paesaggi; presto la conoscenza del vicinato. Tutto sotto lo stesso cielo, chiaro, custode delle perdite di ciascuno. L’abitato risplende nel suo vissuto: con il beneficio dell’umorismo, il respiro naturalmente ritrovato, il realismo come orizzonte, e ogni volta va bene, è un’estasi.

Ti muore il cane

viene investito da un furgone.
lo trovi sul ciglio della strada
e lo seppellisci.
ti senti male per lui.
ti senti male personalmente,
ma ti senti male per tua figlia
perché era il suo cucciolo,
e gli voleva così bene.
canticchiava per lui
e lo lasciava dormire nel suo letto.
scrivi una poesia su di lui.
dici che è una poesia per tua figlia,
sul cane che viene investito da un furgone
e su di te che l’hai presa così a cuore
lo hai portato nei boschi
e l’hai seppellito profondamente,
e quella poesia riesce così bene
che sei quasi contento che il cagnolino
sia stato investito, altrimenti non avresti
mai scritto quella bella poesia.
poi ti siedi a scrivere
una poesia sullo scrivere poesie
sulla morte di quel cane,
ma mentre scrivi
senti una donna che grida
il tuo nome, il nome di battesimo,
le due sillabe,
e il tuo cuore si ferma.
dopo un minuto, seguiti a scrivere.
lei grida di nuovo.
ti chiedi fino a quando andrà avanti.

[trad. R. Duranti / F. Durante]

Quel “deep, deep” della sepoltura guida la mente al “deepest buried love” di Derek Walcott nella meravigliosa Oddjob, un bull terrier:

Ti prepari a un dolore,
ma ne arriva un altro.
Non è come il clima,
non puoi fronteggiarlo,
essere impreparati è tutto.
Il tuo compagno, la tua donna,
l’amico che ti è accanto,
il bambino al tuo fianco,
e il cane,
tremiamo per loro,
guardiamo il mare e pensiamo
pioverà.
Dobbiamo prepararci alla pioggia;
non colleghiamo
il sole che àltera
gli oleandri oscurati
nel giardino in riva al mare,
l’oro che si spegne sulle palme.
Non colleghiamo questo:
il puntino di pioviggine
sulla pelle,
col mugolio del cane,
il tuono non spaventa,
essere pronti è tutto;
ciò che ti segue ai tuoi piedi
sta cercando di dirti
che il silenzio è tutto:
è più profondo della prontezza,
è profondo come il mare,
profondo come la terra,
profondo come l’amore.
Il silenzio
è più potente del tuono,
siamo colpiti nel profondo, ammutoliti,
come gli animali che non dicono mai l’amore
come noi, sennonché
diventa inesprimibile
e dev’essere detto,
con un mugolio,
con le lacrime,
con la pioviggine che ti sale agli occhi,
senza dire il nome della cosa amata,
il silenzio dei morti,
il silenzio dell’amore sepolto più in fondo
è il vero silenzio,
e sia che lo proviamo per una bestia,
un bambino, una donna o un amico,
è il vero amore, è identico,
ed è benedetto,
nel modo più profondo dalla perdita
è benedetto, è benedetto.

[trad. M. Campagnoli]

Silenzio, notte; notte e insonnia. Ecco nuovamente Carver, ecco la sua Insonnia invernale:

La mente non può dormire, può solo giacere sveglia,
ingolfata, ad ascoltare la neve che si aduna
come per l’assalto finale.

Vorrebbe che venisse Čechov a somministrarle
qualcosa – tre gocce di valeriana, un bicchiere
d’acqua di rose – qualunque cosa, non importa.

La mente vorrebbe uscire di qui
fuori sulla neve. Vorrebbe correre
con un branco di bestie irsute, tutte denti,

sotto la luna, in mezzo alla neve, senza
lasciare traccia, neanche un’ impronta, nulla.
È malata, stasera, la mente.

Quella “moon, across the snow” porta lontano, lontano come “The moon in the bureau mirror” dell’Insonnia di Elizabeth Bishop:

La luna nello specchio del comò
scruta milioni di miglia lontano
(forse ammira orgogliosa se stessa,
ma senza sorridere mai)
guarda lontano lontano oltre il sonno,
o forse è una che dorme di giorno.

Anche se l’Universo dovesse lasciarla,
lei lo manderebbe all’inferno,
e troverebbe un corpo d’acqua
o uno specchio in cui contemplarsi.
Così avvolgi l’ansia in una ragnatela
e gettala giù nel pozzo

in quel mondo rovesciato
dove la sinistra è sempre la destra,
dove le ombre sono corpi,
dove vegliamo tutta la notte,
dove i cieli sono stretti quanto il mare è
profondo, e tu mi ami.

[trad. M. Bacigalupo, con variazioni personali]

La neve dove vorrebbe portarsi la mente di Carver suggerisce il Frammento di tempesta, l’estasi improvvisa di Mark Strand:

Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole,
un fiocco di neve, tormenta al singolare, impalpabile,
è entrato nella tua stanza e s’è fatto strada
fino al bracciolo della poltrona dove tu, alzando lo sguardo
dal libro, lo scorgesti nell’attimo in cui si posava. Tutto
qui. Null’altro che un solenne destarsi
alla brevità, al sollevarsi e al cadere dell’attenzione, rapido,
un tempo tra tempi, funerale senza fiori. Null’altro
tranne la sensazione che questo frammento di tempesta,
dissoltosi sotto i tuoi occhi possa tornare,
che qualcuno negli anni a venire, seduta come adesso sei tu, possa dire:
“È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo”.

[trad. D. Abeni]

Ecco ancora, infine, Carver idealmente rispondere, da uno squarcio tra le nubi, con il suo domandarsi:

Semplice

Uno squarcio tra le nubi. L’azzurrino
profilo dei monti.
Il giallo cupo dei campi.
Il fiume nero. Che ci faccio qui,
solo e pieno di rimorsi?

Continuo a mangiare come niente dalla ciotola
di lamponi. Se fossi morto,
rammento a me stesso, ora non
li mangerei. Non è così semplice.
Anzi, no, è semplicissimo.

Cristiano Poletti

4 risposte a “Dalle parti di Carver, appaiando stelle”


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