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Ritagliando “La raccolta del sale” di Alessandro Brusa

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“Nel Silenzio del suo Sangue”: così Shelley campeggia in esergo a salutare La raccolta del sale di Alessandro Brusa, edito da Perrone lo scorso ottobre. Con questa forza, con accenti posti su silenzio e sangue, si dichiara l’amore di Brusa per i romantici inglesi e subito il primo verso è un invito: «Sei qui, cerchi qualcosa» che suona difatti, un poco parafrasato: “Se sei qui è perché cerchi qualcosa”; oppure, sembra dirci l’autore: “Cerca, avanti, seguimi, seguitemi qui tra le righe, prendetemi con voi, secondo quanto ora vi dirò”. Troviamo infatti confessione, intimità e resa tra queste pagine e ripetute forme di assottigliamento: di parola, di figure, in movimento tra sentimenti e apprendimenti snocciolati in rapida successione. A fior di labbra talvolta, nei casi migliori, e si potrebbe anche azzardare con la mente un ponte con il Giudici di “O minima intenzione a fior di labbro: / di ciò nel fare cose di parole / alunno e fabbro”. Brusa, ecco, lo fa in alcuni momenti con l’accento giusto, con «viso onesto / … sporco magari, e con la parola meno adatta / stesa proprio lì, / sul confine azzurro del labbro». La confessione di cui è portatore si compone progressivamente sulla traccia di una ferita in attesa di cicatrice. Così è che «con fatica mi lasciavo / prestare a quel mondo» portandoci – grazie a un forte, incisivo enjambement – dentro il suo «mondo da riordinare». A questo servirebbe dunque il sale, sparso sulle ferite che l’esistenza sa riservare: a tentare l’ordine, la cucitura, la cicatrice. Raccogliere il sale, raccogliere parole: «: che il sale mi è figlio / e lecca la mia pelle». Da notare il “due punti” utilizzato a inizio verso, qui come in diversi altri passaggi di testo. Lo segnala rapidamente anche Gianfranco Fabbri nella postfazione; si tratta di un indizio che merita una particolare evidenziazione, perché sembra indicare dell’autore una particolare voglia di dire, di spiegare, mettendo sull’attenti il lettore.
Tanto che con l’andare della lettura s’infittisce la misura dell’ascolto, mentre si produce di continuo una volontà di ritagliare versi, isolarne anche soltanto dei frammenti, togliendoli così da un eccesso di “io in azione”, manifestato spesso in incipit («Cammino»; «Ho imparato»; «Mi guardo»; «Mi coloro») proprio per ricondurne senso e portata a occhio e orecchio maggiormente universali. Se «La raccolta del sale è / una stagione… » è l’affermazione con cui l’autore si assegna un margine di tempo per mettere ordine alle proprie ferite mediante la cristallizzazione della scrittura, uno dei versi centrali appare: «e cancello i corpi, di cui sono / lastricate le acque…», reso potente dall’uso, ancora una volta, di un forte enjambement.
Peraltro, a fronte di questa “voglia di ritagliare” prodottasi nel lettore, la tendenza pronunciata in tutto il lavoro è verso la prosa, declinata a un continuo, sotterraneo raccontare/raccontarsi di “un io senza dio” e il “tu” utilizzato di volta in volta altro non è che compagno di strada, sponda necessaria, volano di chiarificazione di quell’io-testimonianza. Un tu e io, tuttavia, posti in dualismo, spesso con nettezza, senza veli, nel cuore di una «malevolenza privata».
Nella seconda sezione, ispirata da “La stella dei perduti” di Dylan Thomas, due versi spiccano e sembrano contenere tutti gli altri: «quel suo spigolo fatto frontiera» in una poesia e in un’altra il verso: «dove il tuo nome è famiglia». L’autore vuole evidentemente fotografare il limite della perdita per condividerlo nel sangue di chi resta, fissandone respiri e battiti. Elemento, la condivisione, ribadito a chiare lettere («Il lutto va condiviso» scrive Brusa) anche nella terza sezione.
Con le ultime due sezioni del libro, dietro l’omaggio manifestato nei confronti di Caproni prima e poi con la significativa citazione del padre dell’autore, Maurizio, si nota una decisa dilatazione dello sguardo, il campo visivo dell’autore davvero allargato, cosicché un po’ di io si perde. Gli occhi allora si puntano sui «giorni in polvere», fino a «scomodare la morte». Uno scatto in avanti, potremmo dunque dire, che porta a sposare in parte quanto si rintraccia al termine, sempre tra le righe di commento regalateci da Fabbri: «Tutto il libro potrebbe quindi apparire come la metafora totale dell’umanità. Un consorzio di membri intesi, più che altro, a rubare al fratello perfino l’anima e il nocciolo della natura umana. E tutto per una sola ragione: quella di non dover nascere di nuovo all’Unicità».

Cristiano Poletti

4 risposte a “Ritagliando “La raccolta del sale” di Alessandro Brusa”

  1. Mi sembra una bella riflessione, questa di Cristiano. Articolata più sulla struttura del linguaggio, espresso con icasticità dall’autore Brusa. “La raccolta del sale” vuole dare significati multipli (a me, s’intende): può rasentare la distruzione di un campo di battaglia, o quella di una città, o il frantumarsi di un rapporto emotivo-passionale. Alessandro Brusa, nel suo lavoro poetico, potrebbe far presupporre come preponderante quest’ultimo elemento – il più grave, il più immodificabile tra quelli qui citati -. Di questo fattore, tra l’altro, sembrerebbe alludere, sia pur sotto traccia, anche l’efficace riflessione del bravo Poletti. Complimenti al poeta e complimenti al recensore.
    Vostro Gianfranco.

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  2. dici bene, Gianfranco: la lettura di Cristiano osserva la struttura del linguaggio, ché del resto è parte fondamentale della poesia sempre.
    la sfida – se così si può dire – della raccolta di Alessandro Brusa è quella anche di mantenere coerente l’intreccio tra i testi, la trama narrativa della raccolta e ovviamente il suo titolo che da una parte riassume il tutto, dall’altra sposta un passo più in là la poesia stessa verso il da farsi dal momento che il sale ‘conserva’ e perciò, non solo fa pensare al buono del passato da tenere a sé, ma anche a ciò che si porterà nel futuro. il tutto con un “io” apparentemente onnipresente.
    come scrivevo proprio a Cristiano alla vigilia della pubblicazione di questa sua lettura, penso che l’io in un certo senso esondi perché è un io che rivendica un posto, una dimensione, una fisicità, una corporeità anche dell’anima, annunciata sin dal primo verso.
    avverto una sorta di emancipazione da tutto ciò che è stato, e quindi un traghettarlo verso ciò che potrà essere.
    e in questo trovo pertinente la scelta del titolo, perché la raccolta del sale – come scrissi nella breve nota che anticipava qualche testo prima dell’uscita del libro – è anche “cura” del sale.
    forse è questo che mi piace istintivamente di queste poesie: il loro essere testimonianza, senza celarsi, senza nascondere la propria identità conquistata anche col sangue.

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