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Giuseppe Genna – Fine impero (doppia nota di lettura)

fine impero

Giuseppe Genna – Fine Impero – Minimum fax 2013

“Nel tempo in cui nulla più è sacro”

Fine impero è in libreria per i tipi di Minimum Fax, e attorno a lui già gravita tutto ciò che potete trovare qui. Perché il lavoro di Giuseppe Genna è organismo vivente offerto in libera consultazione. Genna sa che la nostra scrittura è molto più consapevole di noi: la sua officina di riflessioni è sempre aperta, scritti compiuti assumono versioni 3.0,  nomi e sintagmi rimbombano da un libro all’altro, brani si rivelano denti di ingranaggi successivi. Ogni opera è pulsazione di un cosmo che prende in prestito, per essere detto, un genere consolidato per poi portarlo alla deflagrazione, e chi rinfocola questo cosmo (senza avere la pretesa di dominarlo né l’illusione di arrivare a chiuderlo) ha ben chiaro il proprio sguardo e la propria intenzione: perché tra gli autori che assolvono il compito di fissare il tempo cui apparteniamo c’è lui, Genna, e questo grazie alla sua abilità ad affiancare questo tempo a un battito più ampio, e coglierne lo scarto. È tale scarto a fare del tempo in cui viviamo il tempo nostro.
Fine impero, dunque, ultima scossa del cosmo-Genna in ordine di tempo, si apre con l’inspiegabile morte di una bambina; inspiegabile in quanto morte in culla, inspiegabile come qualsiasi dolore tocchi in sorte ai bambini. Non abbiamo alcun agnello (capro?), ma una dimensione di lutto privata. È perdita assoluta: lo sguardo di chi ha perso un figlio è concavo all’inverosimile, e abbraccia lateralmente, cogliendola ma senza aderirle, la realtà presente e passata in cui è immerso. Raggiunge quello che in Dies Irae veniva chiamato «lo sguardo gelido che suppone di essere testimoniale e non lo è». Il perché non lo sia è uno dei cuori profondi del libro: Fine impero è osservazione di un tempo che ha perso la pietà, brillamento della tragedia. Essa non viene né erogata né richiesta: «Il mio dolore», afferma il narrante durante la sua discesa nella Milano dello show-business rantolante, «alberga ovunque negli eoni, ha posto il cuore del suo impero nel centro del suo cuore. Tutelare il segreto della mia espulsione dalla vita era un imperativo che non riuscivo neanche ad avvertire come immorale». Nulla integra chi parla nella comunità, né c’è, del resto, comunità in cui sia possibile integrarsi: il tempo presente svuota di sacro ogni patto o rito che possa tutelarne la salute. L’albedo che ci spetta è il passaggio dalle quinte alla passerella in una sfilata d’alta moda («Fenditura di luce assoluta, da qui si esce, dal nero al bianco, dal buio cieco all’abbaglio accecante»). Il pasto sacro che ha dato inizio a tutto è una confezione di würstel contesa a gomitate in uno studio televisivo:

[…] si alzano in piedi tutti, la gente, ululano che vogliono i wurstel, la carne carcere dell’anima, le vallette afferrano confezioni di questi wurstel enormi famosi, li lanciano tra il pubblico che sgomita, la gente si lancia ad afferrare al volo la confezione, la gente apre la plastica sottovuoto della confezione, estrae i wurstel crudi, ecco la carne che comanda l’anima in tutto e per tutto […]. Lanciavano wurstel tra la gente che si azzuffava per mangiarli crudi dove cominciò tutto, lì.

Resta l’idea di uno sfascio, di un tempo incapace di aggancio, in cui perfino gli occhi di una tartaruga bastano a sentirci giudicati e minimi, e «il padre abbandonato diviene la figura patetica che fa da capo espiatorio per la città e si porta in esilio la peste che la devastava. Oppure diventa un profeta, ma non è questa un’epoca della profezia, questa non è un’era, non esistono più ere oggi e nell’immediato qui».

© Giovanna Amato

Titolo e citazioni, dove non altrimenti specificato, sono tratte da G. Genna, Fine Impero, Minimum Fax 2013.

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Il vuoto e il respiro

Siamo nel primo capitolo. Immaginate l’aria quando manca e poi, subito dopo, immaginate il respiro, quando torna e quanto sia ampio e vitale. Immaginate quando l’aria manca e quando torna. Quando si ferma il cuore per un attimo  e poi torna a battere, prima lentamente e poi più velocemente. Pensate a una storia e poi alla scrittura della storia. Ricordate: siamo nel primo capitolo. C’è questa scena iniziale del primo capitolo, c’è questo funerale, questa desolazione. Ci sono queste macchine parcheggiate fuori dal cimitero. Queste poche persone. Si sentono pochi passi. Ci sono  un uomo e una donna che stanno davanti agli altri. Una piccola bara bianca in mezzo a questo silenzio. Lei è la madre e lui e il padre. Qui manca l’aria. Avete finito il primo pezzo del primo capitolo, vi manca l’aria, avete voglia di ritornare indietro, a rileggere. Ed ecco la scelta delle parole, come si vanno a formare le frasi, la cupezza e la luminosità – il contrasto – delle descrizioni. La sintassi, i periodi, i punti al posto giusto. Qui torna il respiro. L’aria che manca, il respiro che torna, questo è Giuseppe Genna. “Nessuno sapeva niente di me tranne che ero nessuno: uno che scrive, uno normale, uno poco noto.” Il protagonista e voce narrante del libro, il padre dell’incipit, è uno scrittore. Uno scrittore che non scrive, che per vivere –anzi per sopravvivere – scrive per riviste di moda. Fine Impero racconta un dolore personale, la perdita di ogni cosa da parte di uomo. Genna parte dal  (e usa il ) dolore privato per scavare nella delirante desolazione collettiva in cui è precipitato questo paese. Il crollo dell’Impero viene ripreso da una telecamera che gira vorticosamente tra sfilate di moda, feste in casa di uomini di potere, droga, modelle giovanissime e strafatte, ragazzi che sognano la televisione, il reality, la televisione che li brama. Si passa dalla casa dello Zio Bubba,  l’uomo che accompagna “il padre” in questa discesa agli inferi, casa che è lusso, che è televisori al plasma appesi al soffitto, che è ragazzini che giocano a Wi, altri che scopano, altri che giacciono strafatti, altri che stanno male. Gli occhi di tutti sono vuoti. Nessuno dorme,  nemmeno chi lo fa, ebeti che vegetano, che ridono. L’orgia di corpi, del nulla, prosegue in un capannone fuori città dove si cercano altri corpi da mettere davanti a una telecamera. Würstel/Wrestler. Pubblicità/regresso. Suv che si muovono verso la Brianza, uno dei luoghi più produttivi d’Europa. Ville stratosferiche, dentro una di queste: la festa. Luogo della fine di tutto, del non festeggiamento. Corpi che ballano, corpi in piscina, nudi, vestiti, camere occupate da piccole orge, droga. Baratro. Il protagonista sembra muoversi come dentro una bolla e la bolla si buca ed entra un po’ d’aria biondo cenere. Perdersi in un corpo e ritrovarsi per un attimo. Questa è la fine dell’impero: un mondo perduto e fottuto costruito sul vuoto. Un vuoto che è un orribile palazzo in periferia o una sfilata di moda. Giuseppe Genna non lascia scampo, segue le tracce della fine di un’epoca e la cattura con una prosa cattiva, bellissima. L’equazione che regge il vuoto, risolve la sua incognita nei passi di un uomo che cammina, privo di tutto, verso Milano.

© Gianni Montieri

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14 risposte a “Giuseppe Genna – Fine impero (doppia nota di lettura)”

    • Ciao Lucia, non saprei dirti sinceramente. Quello che è certo è che questo libro non è su quello. Questo è un libro sul dolore, sulla decadenza.

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  1. Abbiamo già iniziato su facebook un “commentario” su questo libro e ho letto la doppia nota di lettura con piacere, come d’altronde ho letto Fine Impero e colgo l’occasione per confrontarmi su questo testo. La prosa a me sembra ridondante, appesantita volutamente, musicale ma senza attenzione al ritmo, così da diventare confusa per fuggire al punto caldo della narrazione. La fiction risulta artificiale (lui e lei che scopano, il funerale per fare due esempi) e più che produrre immagini le sfoca in una carrellata di zommate repentine e approssimative. Parla tanto ma dice ben poco e soprattutto tiene il lettore sull’uscio della porta.

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    • Ciao Julian, sono osservazioni molto interessanti le tue, provo a risponderti per come l’ho vista io.
      La prosa è realmente ridondante in alcune parti del libro, l’appesantimento (come dici tu) è voluto, lo penso anch’io. Non vedo questa scelta come negativa. Gli ambienti, i personaggi, che il romanzo attraversa sono un manifesto della ridondanza. La fine di un impero non può non esserlo. Non mi pare, invece, che non ci sia attenzione al ritmo. Il passo di scrittura che tiene Genna nel libro è molto sicuro e, mi pare, tenga un ottimo ritmo fino alla fine. Ho trovato anche molto efficaci i rimandi che il protagonista fa alla sua infanzia e come questi si intersechino bene con resto della trama. Non sono d’accordo (ma trovo motivo di riflessione su come diverse siano le percezioni di chi legge su un determinato punto) sui due esempi che fai, perché proprio quelli li trovo significativi al contrario. Il funerale è la parte del libro che preferisco, mentre leggevo ho sentito un silenzio irreale come prima di un duello e poi la cadenza delle immagini mi è caduta addosso facendomi sentire il Dolore e una sorta di strana nostalgia, come se quelle immagini, che rappresentavano la fine di qualcosa, poste all’inizio del libro creassero in me una sorta di loop malinconico che poi andando avanti si risolve (non dico troppo qui per evitare spoiler). Anche la scopata di cui parli è una scena determinante. La scopata è una sorta di rimpianto, qualcosa dentro cui sparire.Più che stare sull’uscio il lettore mi pare che stia davanti a una casa crollata.
      Queste sono, più o meno, le mie impressioni, magari Giovanna vorrà aggiungere qualcosa.

      Grazie e un saluto

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  2. naturalmente intendevo il set: e quello, non cambia. sulla finanza, sul mondo brillante delle feste e della coca, si incistano le più diverse storie. trovo che la cosa stia aumentando a dismisura

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    • ci sono sicuramente diversi romanzi che hanno utilizzato tale scenografia come dici tu e ciò mi fa pensare a ciò che penso da molto: dagli anni ottanta in avanti questo paese (o la percezione del paese) è stato qualcosa di diverso da questo?
      Siccome siamo, però, su macerie conclamate immagino (e spero) che arrivino romanzi che comincino a raccontarci un dopo.
      grazie

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  3. Ciao Lucia e ciao Julian, e grazie per i vostri commenti. Mettono in moto molte riflessioni, e proverò a rispondervi in ordine. Mi trovo d’accordo con Gianni quando parla del ritmo e del respiro scelti da Genna per questo libro, e trovo molto efficace la sua immagine della casa crollata; poi unisco quell’immagine, Julian, alla tua, mi immagino sull’uscio di una casa crollata, appena fuori, e mi sembra che questa sia esattamente la sensazione che il libro ha intenzione di lasciare. Parli di “zommata repentina e approssimativa”, e mi accorgo di concepire quest’uso della camera come la maniera migliore di immergere chi legge nella condizione di cui il libro vuole parlare: gettati tra le rovine ma non pienamente partecipi, non siamo realmente spettatori, né completamente colpevoli, né del tutto innocenti; soprattutto non ci è dato sapere se salvi o meno. Anche io che leggo divento così sguardo che non aderisce, sguardo che in qualche modo non si appaga perché qualcosa di ciò che vede è guasto, marcio dall’interno. E questo mi porta alla riflessione di Lucia, che ha ragione. Quando scrivevo che Genna affianca il nostro tempo a un battito più ampio, pensavo proprio a questo: il suo aver trattato la festa non come semplice manifestazione volgare, ma come protagonista per eccellenza dei momenti di snodo. Nient’altro è né è sempre stata la festa: sulla festa dotata di sacralità la comunità si ricompatta; nella festa svuotata di senso la comunità va in rovina. In quanto set, non ce n’è uno che possa parlarci più profondamente; in quanto forza, tutto sta (come è stato nel tempo) a tradurla nelle immagini che riconosciamo come vicine: nel nostro caso, la cocaina, il mondo scintillante della moda. Credo che se la festa prolifera è perché il nostro tempo lo chiede, come altri l’hanno chiesto: accade quando sotto la scorza si avverte il vuoto. Ben venga la proliferazione se non è semplice ambientazione, ma forza parlante.
    Grazie ancora per i vostri commenti.

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  4. non ho letto il libro, ma pare proprio che Genna pensi-con-il-diaframma, e con le molteplici accezioni che questa parola porta.

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    • Non avendo letto il libro lo deduci dalle recensioni, mi riferisco all’assunto che ti porta a dire “pare proprio che Genna pensi-con-il-diaframma”? Ché peraltro come assunto si presterebbe a più interpretazioni e anche qualche battuta, simpaticamente s’intende. Sono epifanie che fanno bene alla salute queste letture. grazie comunque e di cuore.

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  5. per sua fortuna giuseppe genna – nel bene e nel male – è già spinto di suo, altrimenti a botte di diframma e di sfinteri di chi neanche lo ha letto e comprato, non venderebbe una copia.

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  6. (senza nessuna offesa a genna, mi riferivo a giovani redattrici che gonfiano il diframma alla cieca, e che rispondono a spam pensando di parlare con l’ammericano cool)

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  7. Vedo soltanto ora questa discussione, mentre cercavo un’immagine – resto sorpreso, devo davvero ringraziare i recensori e coloro che commentano: critiche e ragionamenti sono preziosi, mi danno da pensare e scrivere. Più avanti, se non risulta sgradito, magari posto un commento anche io. Ora fuggo in vacanza. Auguro buona estate a tutte e tutti! :*

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