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Cosa germoglia – filosofi per la poesia

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(…) Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?

 

Zanzotto, in questi versi tratti dal Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch, vede il più alto testamento di Leopardi. Riconosce qui in particolare quattro parole cardine della sua poesia, che sono del resto autentiche gemme per la poesia in generale: punto / acerbo / vita / nome. Di queste, il compimento, la fioritura potremmo dire, è ‘nome’.[1] Da intendersi, meglio, in senso più ampio, Logos: «forza, energia che raccorda, germinare primo di ogni linguaggio. Logos è ciò che dona parole (nomi e pensieri-nei-nomi).»[2] Senza nome, senza Logos, tutto ciò che viene prima (il punto come termine istantaneo e fisso, l’acerbo che dovrà maturare, la vita intera nel suo sostanziarsi) non avrebbe peso.
Il poeta, in fondo, diffida delle parole. Le ama, certamente, perché gli mancano e non può che cercarle, ansiosamente. E forse non se ne diffida mai abbastanza,[3] nei loro confronti spesso non si pone la giusta distanza. D’altronde, il poeta che viene dal fastidio di parlare, come da un immenso campo scuro, sa bene che è tutto scorgere, magari balbettando poco prima sull’orlo dell’afasia, uno scintillio.
In questo consisterebbe la resistenza, ancor oggi, della poesia: cercar luce, e corrisponde questo all’inesausto compito di recuperare ciò che è adveniente. Chiedendosi: cosa germoglia (o può continuare a germinare) verso il futuro, una volta anticipata consapevolmente la morte, possibilità estrema verso cui l’esserci si spinge?[4] Tutto muove a partire da questo interrogativo, così come da quelli posti nei versi iniziali di Leopardi… Cos’è? – domandiamo in continuazione – mentre subito in questo s’inanella un altro “cos’è”; portatori di domande dentro la domanda, di fronte a noi campeggia una permanente insufficienza di risposta.
Interrogativi – è bene evidenziarlo – declinati al passato. Necessariamente, perché il poeta parla sempre al passato, costitutivo di tutto, del presente come del futuro. Vuole sempre l’origine, il germoglio appunto. E lo fa cantando. «Cantare… segno di timore», scrive Leopardi nello Zibaldone.[5] Cantare, già: un’intonazione del dolore, potremmo dire – dolore che viene essenzialmente da quell’assenza di risposta, col fine di zittirlo, di superarlo con la musica.
Seguendo le indicazioni del filosofo Carlo Sini,[6] pensiamo a come con parole rese rivelative ed evocative, e mediante il canto, il poeta faccia accadere i nomi delle cose, faccia apparire le cose. E come continui oggi in qualche modo a farlo, evocando fedeltà all’antica oralità, resistendo così all’altrettanto antico assoggettamento, compiutosi con l’avvento della scrittura, della poesia alla filosofia. O forse nella contemporaneità riconosciamo come il poeta sappia resistere “fabbricando” la particolare, personale disposizione grafica della “pagina poetica”, attraverso quel “foglio-mondo” dove continuare a produrre il reale, cercando in questo modo di contestare la pratica della scrittura (e quindi quell’antico assoggettamento) agendo proprio sul corpo stesso della scrittura. Si tratta in definitiva dell’idea e dell’auspicio che il “miglior fabbro” possa ancora inventare la lingua attraverso la lingua.
Quel germinare, dunque, non sarebbe possibile senza scavo della lingua, della voce e del canto, e senza attraversamento del dolore, senza luce. Luce di trascendenza, evidentemente, qualora dovessimo pensare, per esempio, a un poeta come Mario Luzi; ma in ogni caso di luce religiosa si tratta, ammesso che essa sia il traguardo auspicato a seguito di una vera, autentica ricerca poetica.[7]
Proprio a proposito della poesia di Luzi, Massimo Cacciari scrive: «Non ci si eleva, nulla si erige, se non sul fondamento di ciò che si è abbattuto. La resurrezione è compimento, non superamento della croce».
[8] L’uomo – afferma infatti Luzi – «desidera una salvezza fondata sulla qualità del proprio dolore. Tale speranza l’unica munita d’una forza capace di vincere disperazione e nello stesso tempo non tradirla: solo essa poteva avere una dignità agli occhi di Pascal o a quelli di Leopardi.»[9]
Davvero, senza spiraglio di luce,
[10] senza possibilità di canto, sarebbe davvero destinata al silenzio la nostra sofferenza. Il nostro parlare, ugualmente, si limiterebbe anch’esso a tornare prima al balbettio e poi al silenzio.
Scavo, si diceva, attraversamento, necessari. «Poeta è colui che attraversa queste stratificazioni come un palombaro,  in discesa e in ascesa, e prova un’irresistibile vocazione a rendere conto di queste discese-ascese», per dirla con Antonio Porta.[11] La parola poetica, ecco, vive paradossalmente, elevandosi alta sul mondo ma del mondo allo stesso tempo nutrendosi, abitando le sue immagini.
«Solo la parola del poeta – continua difatti Cacciari – in quanto puro ad-verbum può custodire il paradosso (…) Parola concretissima, idea della cosa, della più vicina presenza, ma detta ad Altro, significata alla più lontana assenza. Questo far segno della destinazione dell’esserci all’Aperto della sua provenienza costituisce l’essenza dell’ad-verbum: parola destinata alla Parola, luce che si “invia” alla Luce. Ma l’ad-verbum è veramente tale quando ri-vela questo “destino” nel volto stesso della creatura, quando ne fa segno semplicemente nominandola».[12]
Luce: germoglio, nome.

Cristiano Poletti


[1]  A. Zanzotto, Scritti sulla letteratura, vol. II, 2001.

[2] M. Cacciari, Per Zanzotto, in L’immaginazione, 2007.

[3]  L. F. Céline, Viaggio al termine della notte: “Dunque, non si diffida mai abbastanza delle parole, è quel che concludo”. 

[4]  Esplicito qui il riferimento alla “decisione anticipatrice” nel pensiero di Heidegger.

[5]  G. Leopardi, Zibaldone, 3527.

[6]  C. Sini, Il foglio-mondo della scrittura poetica, in Materiali di Estetica, 2002

[7]  Religione, da re-légere, significa “guardare con attenzione” / “aver cura”; da re-ligàre: “unire insieme”.

[8]  M. Cacciari, Insostenibile incarnazione in Nuova corrente XLVI, 1999.

[9]  M. Luzi, L’inferno e il limbo, 1964.

[10] Luce chiarificatrice, che dà ragione. Si pensi, ad esempio, ai versi di Nell’imminenza dei quarant’anni di Luzi: «…è questa l’opera / che si compie ciascuno e tutti insieme / i vivi i morti, penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontro effimeri e di perdite / o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido».

[11] A. Porta, Nel fare poesia, 1985.

[12] M. Cacciari, Insostenibile incarnazione, op. cit.

6 risposte a “Cosa germoglia – filosofi per la poesia”

  1. Luce, germoglio, nome, parola che scavalca, travalica e permane tuttavia, riflette e si rivolta, dipana e s’avvolge. L’itinerario percorso qui da Cristiano Poletti, che ringrazio, aggiunge materia e verbo alla antica e sempre nuova tensione. Risuona su tutto il verso di Hölderlin “Was bleibt aber, stiften die Dichter”, “ma ciò che resta fondano i poeti”. Grazie, Cristiano.

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  2. Il pensiero e la ricerca di una Verità è comunque, a mio modesto avviso, un percorso che ogni uomo sente -talvolta nel pieno di una perfetta tempesta di inconsapevolezza-. Chi, al contrario, è conscio di questo processo, sa benissimo che il pensiero è di molti; il desiderio di dirne è, ancora, di tanti. Ma poi il risultato è solo della capacità del talento che sa partorire la parole. E la parola, sempre, per vestire e illustrare il mistero del pensiero, è Unica. Prima della parola era l’informe, era il pianto di un pensiero che non riusciva a guardarsi allo specchio. Durante la parola, la luce s’ingolfa nel suo stesso trionfo. Il dopo è il futuro, dove il germoglio cristallizza la propria consistenza e si storicizza.
    Bravo Cristiano.
    Non so quanto la mia labilità abbia compreso il tuo dire.
    Ma grazie a questa labilità costruisco il mio ponte con te.
    Tuo Gianfranco

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  3. Grazie Anna Maria, di cuore; Giuseppe per la sottolineatura che ha desiderato evidenziare e a Gianfranco, la sua consueta intelligenza, la sensibilità.

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  4. 1) puoi approfondire ” il poeta diffida le parole”?
    2) il poeta ama o cerca la parola, o la ricerca?
    3) poesia/filosofia: se il poeta pone domande, a chi la risposta? alla parola poetica o alla conoscenza?
    4) sarebbe stato bello porti queste domande di persona, avere un bel dialogo dal vivo. Pazienza.
    5) spero di non aver annoiato,
    buone cose. Leonardo

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  5. Caro Leonardo,
    parto dall’ultimo punto: non annoi, anzi, personalmente ti ringrazio.
    Rispondo dunque – 1 e 2, il poeta diffida delle parole, amandole: sì, ritengo sia proprio là dove si ama di più – e si ama (e si desidera) essenzialmente ciò che (ci) manca – che la contesa si fa decisiva, profonda, e l’interrogazione inestinguibile, fino ad arrivare davvero ai ferri corti. Ecco, per il poeta è il (IL) linguaggio (come “Sage”, in tedesco) il campo della contesa. Ama le parole, il poeta, e da esse spesso si sente rifiutato: ostinatamente, ossessivamente ne cerca uno scintillio, ossia che dal linguaggio tramite dettato poetico si sprigioni luce. 3, il poeta pone domande: sì, più che altro lavora proprio perché ci sia quel “gemoglio”, quella luce. Non si tratta di risposta logica-filosofica-veritativa, ma questo suo lavoro appunto illumina senz’altro il sentiero di ogni possibile risposta (per questo ho parlato di “campo scuro”, di “insufficienza di risposta”). Sono, i nostri – per dirla con Heidegger – “Holzwege”, sentieri interrotti, sempre. Dunque la conoscenza pretende a mio parere un dialogo continuo e fitto tra poesia e filosofia, purché ciascuna “disciplina” mantenga le necessarie peculiarità. 4 punto: sarebbe stato bello porti… capiterà un’occasione di un dialogo dal vivo? Lo spero, volentieri.
    Saluti, CP

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