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L’albero e la vite, di Dola De Jong (a cura di Alice Pisu)

Il rilievo della pubblicazione per la prima volta in italiano de L’albero e la vite (trad. Laura Pignatti, postfazione Eva Cossée, La Nuova Frontiera) risiede nell’opportunità di scoprire una voce rivoluzionaria nella letteratura nederlandese del Novecento che nei primi anni Cinquanta ha scardinato i pregiudizi sulla narrazione dell’omosessualità con un irriverente e delicato manifesto di libertà identitaria.
Ambientato nel 1938 ad Amsterdam, il romanzo racconta un amore tra due donne segnato dall’impotenza e dalla frustrazione. È il ritratto di due esistenze che tentano furiosamente di sopravvivere al carico di pressioni sociali che impedisce loro di fare scelte in base ai desideri reali, la storia di due vite indissolubilmente legate tra loro.
La nuova valorizzazione dell’opera rischiara oggi anche la vicenda privata della sua autrice e il tortuoso percorso editoriale che ha dovuto affrontare. Originaria di una famiglia ebrea di Arnhem, Dola de Jong entra a far parte della lista nera degli autori ebrei nei Paesi Bassi. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale decide di andarsene lasciando il padre, la matrigna e il fratello che moriranno durante la persecuzione. Riesce a imbarcarsi da Tangeri per New York nel 1941. Scoperta dall’editor Maxwell Perkins, diventa nota per il romanzo And the Field is the World sulla vita degli esuli, ispirato alla sua esperienza marocchina. È ormai una scrittrice di successo negli Stati Uniti anche grazie all’uscita di The Level Land e Return to the Level Land quando, sollecitata dall’editore Scribner, inizia a lavorare a L’albero e la vite. A causa della sua tematica il testo subisce il rifiuto dell’editore olandese (che lo definisce scandaloso e impubblicabile) e dell’americano. Il testo vedrà finalmente la luce nel 1954 per i tipi di Querido grazie all’interessamento di Marnix Gijsen, scrittore belga fuggito al nazismo e divenuto un riferimento nell’editoria newyorkese di quegli anni.
L’uscita del romanzo decreta un grande successo tra i lettori, ma incontra la ritrosia di una parte della stampa che sottolinea la pericolosità di un testo a tematica omosessuale nel condizionamento dei giovani. Definito come “il primo libro nederlandese sul desiderio di una donna omosessuale divenuto opera d’arte”, uscirà anche in Inghilterra, nel 1961, e verrà pubblicato due anni dopo in America. Spiccano tra gli altri le parole di V. S. Naipaul che rileva la capacità dell’autrice di tratteggiare la comune insoddisfazione esistenziale di una trentenne e, al contempo, l’inconsapevolezza della donna nel prendere atto della vacuità della sua esistenza: “Questo silenzio, questo rifiutarsi di vedere è raccontato in modo molto commovente e con grande sensibilità”. L’opera arriva in Italia a seguito della pubblicazione nel 1996 di Feminist Press, a cui seguono nuove traduzioni in Francia, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca e Polonia.

Dola De Jong nel 1963

Ne L’albero e la vite Dola de Jong si confronta con temi che risultano rivoluzionari per l’epoca con una fine narrazione in grado di insinuarsi tra le crepe dell’ordinario per metterne in risalto le anomalie e immortalare la paura e lo sconforto, le euforie fugaci e gli impeti di rivalsa. Attraverso le vicende delle due protagoniste, Dola de Jong affronta aspetti del proprio vissuto come la perdita della madre in tenera età, definita da una delle due protagoniste come un buco lasciato nell’infanzia, la natura ribelle e inquieta in contrasto con le aspettative famigliari, l’impegno nel giornalismo, l’attenzione per la dimensione infantile resa attraverso le sfumature del carattere del soggetto centrale dell’opera, l’inquietudine vissuta nello spettro dell’invasione e la necessità di fuga, il contrasto interiore insito nell’idea di partenza come divisione.
Sfilano sulla pagina due figure agli antipodi. Bea è razionale e remissiva, conduce una vita ordinaria tra il lavoro d’ufficio, la cura della casa e le brevi e insoddisfacenti relazioni con uomini inadeguati. Erica è irruenta e imprevedibile, passa le giornate al giornale per cui lavora, il Niewspost, e conduce un’esistenza sregolata, fatta di alcol, notti fuori e domeniche trascorse a letto per esularsi dal presente. Fugge da una realtà famigliare asfittica e tossica con una madre
dalle simpatie nazionalsocialiste e un padre lontano e inaffidabile, di origine ebrea. Le due trovano un alloggio in Prinsengracht, scelgono di improntare la convivenza sulla base di un’assoluta libertà da ogni vincolo come forma di ribellione alle limitazioni della loro infanzia. Sarà tale condizione, approfondita sin dalle prime pagine, a gettare le premesse narrative dell’opera.
Il romanzo è strutturato come un profondo sguardo sul passato dalla prospettiva di Bea che a distanza di oltre dieci anni rievoca aspetti del quotidiano all’apparenza minimi per analizzarli sotto una nuova luce, svincolandoli dal peso emotivo che le aveva impedito di scorgerne le conseguenze. La cristallizzazione dei ricordi permette a chi narra di assegnare un senso nuovo al disastro, una celebrazione privata necessaria per elaborare la perdita e, al contempo, illuminare un dramma silenzioso e irrisolvibile.
“Dalla mia posizione non potevo vedere che Erica, che era tanto più giovane di me, e sembrava così infantile con tutti i suoi vezzi e le sue immaturità, il suo taglio alla maschietta, le sue camicie sciatte da ragazzo e i suoi buffi calzettoni al ginocchio, si fosse messa a nudo davanti a una persona con un coltello nascosto nella manica”.
Le scelte incongrue della giovane sono la reazione a un senso di inadeguatezza e anormalità sessuale instillato da una madre che attua umiliazioni continue con un umorismo sguaiato. Gli eccessi e il rifiuto a rivestire ruoli e sottostare a responsabilità famigliari e sociali traducono la fragilità nascosta di chi combatte contro un’inquietudine stratificata nel tempo, nella vana ricerca di uno strenuo appiglio contro l’annientamento.
Con una prosa capace di posarsi lieve sul dramma, Dola de Jong scorge nella sua protagonista ribelle e idealista una visionarietà propria di chi intravede nel comico la sola strategia di salvezza. Si inserisce in tale ottica l’adozione di un personale lessico famigliare, studiato per accrescere una complicità che diventerà una sottile forma di ricatto emotivo nei confronti della sola figura di riferimento in un’esistenza tumultuosa. De Jong tratteggia con maestria il gioco di equilibri che si instaura tra due donne consapevoli di dipendere l’una dall’altra e che, nel tentativo di non manifestare i reali sentimenti, sviluppano una difesa che le porta a distanziarsi a fasi alterne. Un inseguimento consumato nell’impossibilità di cogliere la reale natura dell’altra dietro desideri sopiti, utopie, emozioni ambivalenti, urgenza di evasione dal presente, paura di perdersi, necessità di forgiare una personale forma di sopravvivenza alla vita.
L’espediente finzionale consente a Dola de Jong di esplorare il significato della graduale presa di coscienza civile di una giovane donna di fronte all’evolversi della crisi internazionale alla vigilia del conflitto mondiale. Un percorso – affine a quello dell’autrice – che cela le incertezze e il furore giovanile di fronte a un cocente senso di ingiustizia da sradicare, nella convinzione che il genere umano vada diviso “in buoni e nazionalsocialisti”. I timori di Erica non riguardano le ripercussioni personali per l’origine ebraica del padre, ma si riferiscono alla possibilità di operare un contrasto concreto, ragione che la spinge a entrare in un’organizzazione che va a prendere al confine i bambini ebrei in fuga dalla Germania e a frequentare riunioni politiche nel tentativo di fomentare la ribellione.
“Nel corso dell’ultimo anno il mondo era stato spinto irrimediabilmente sull’orlo del precipizio, per quanto gli eventi devastanti in Spagna, Austria, a Monaco e in Asia, per esempio, non mi avessero mai toccata, giravo in tondo tra le mie esperienze e i miei problemi come un cavallo nel maneggio, e i paraocchi mi impedivano di vedere altro che Erica, che trottava davanti a me e non potevo – né dovevo – raggiungere”.
La dimensione domestica appare lo scenario d’elezione di Dola de Jong, dove raffigurare il contrasto tra gli insuccessi e le attese. L’autrice rende particolari minimi custodi di significati assoluti, che enfatizzano gli esperimenti per coltivare un immaginario privato, imporlo sulla realtà e nutrire, così, un’illusione di appagamento nel dominare un’oscura angoscia di vivere. La capacità dell’autrice di soffermarsi non solo sulle vicende individuali ma sugli spazi che fanno da scenario agli eventi narrati è riconoscibile in particolare nelle descrizioni di un’abitazione dalle stanze divise da una porta scorrevole e dai mobili recuperati dai rifiuti, o nelle immagini di una casa al mare come zona franca rispetto al mondo esterno che si allinea al neutro paesaggio olandese. L’ambiente privato appare noto e estraneo al contempo, riflette il disagio interiore delle due donne, manifestato in un caso con la necessità di frivolezza per distrarsi dalla realtà, e nell’altro con lo sfogo nell’accudimento per dare un senso al proprio stare al mondo. Lo spazio domestico e l’allestimento dell’ambiente urbano attestano il progressivo inabissamento che con esiti opposti riguarderà le due figure centrali dell’opera.
Con una scrittura priva di orpelli, Dola de Jong traccia il doloroso contraccolpo provato da chi prende coscienza che i dubbi e i rimorsi sulle limitazioni poste a un rapporto sono divenuti un groviglio inestricabile, l’eredità di un tempo irraggiungibile. Le evoluzioni della relazione si sovrappongono ai cambiamenti sociali generati dai primi mesi dell’occupazione: le sequenze di uno dei tentativi di fuga di Erica (che attestano la tardiva consapevolezza della sua natura incurante) si stratificano sulle immagini dell’invasione dei tedeschi. La cura estrema per la parola esatta è riconoscibile nella capacità di misurare con insistenze descrittive e stacchi lirici improvvisi le ossessioni di una donna disperata che, di fronte all’incedere di una tragedia immane, ritiene la sorte dell’amata come prioritaria rispetto a quella dell’intero Paese.
“Per me è lì che iniziò la guerra, nella stanza di Erica. L’immagine di lei, curva sull’apparecchio, quasi ne venisse risucchiata, per me rappresentava l’invasione, gli scontri, i bombardamenti, la sconfitta di un popolo fiero”.
La scrittura piana, gli scorci impressionistici che si aprono sulla pagina, gli equilibri compositivi, l’indagine sensibile attraverso la storia di una radicale estraneità al presente in una visione che non lascia spazio alla speranza e alla salvezza, rendono l’opera di Dola de Jong un delicato e intenso affresco sull’autodeterminazione.
I contenuti innovativi, la scelta linguistica e l’impianto formale imprimono alla realtà una forma di trascendenza nell’illusione. Leggere oggi L’albero e la vite consente di riconoscere in Dola de Jong una voce significativa nel panorama del secondo Novecento e di rintracciare nell’urgenza etica e civile di una scrittura dalla matrice esuberante e drammatica una personale e inconfondibile concezione della letteratura.

 

Di Alice Pisu

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