
Essendo il dentro un fuori infinito di Mariasole Ariot (Caffèorchidea Editore, 2022) è una lettura che acceca dentro e scuote il buio molle del corpo. L’autrice convoca sulla pagina tutta la bellezza di una fame artistica e umana per rispondere a quanto conferisce alla scrittura il suo carattere di obbligo “che non si sa né da dove venga né come ci sia stato imposto”, come dichiara Foucault (Il bel rischio. Conversazione con Claude Bonnefoy). Un obbligo e insieme un bisogno che manterrà viva la sua urgenza e intensità per tutto il testo: ridurre la distanza e le asimmetrie relazionali con coloro che vivono una sofferenza psichica provando a dare voce alla loro interiorità.
Vi è una prima persona che ogni tanto, tramite impercettibili slittamenti, riaffiora nelle pagine e che convive con i rinchiusi con i quali forma un noi; personaggi ai quali la voce narrante tenta di restituire la singolarità che sola può sottrarli alle operazioni atte a normare che provengono da chi abita il mondo di fuori.
Sono tredici storie introdotte ognuna da un esergo illuminante che si fonde nella narrazione corredata, inoltre, da preziosi disegni a matita, alcuni in stile surrealista, che fecondano anche dal versante visivo l’immaginario che sorregge l’opera, che dischiudono un orizzonte di senso troppo spesso insondabile con le sole parole, anche a causa dell’attrito che la materia narrativa scelta oppone a questa possibilità. Il carattere evocativo dei disegni estende il percorso dentro/fuori già in atto nella lingua, generando sorgivi cortocircuiti tra le due dimensioni che qui sono poste in comunicazione attraverso frequenze che travalicano il senso comune delle cose.
“Sgretolati come siamo parliamo la lingua degli appoggi. Il punto aperto a superficie è una condanna, una semplice andatura immobile, una convalescenza ispessita dalle circostanze”.
Nella scrittura tali intenzioni sono spesso destinate ad arretrare davanti a una materia che costantemente deborda, non si prende, si discosta dalla contingenza e dalla biografia delle singole storie e, allora, la lingua si scardina, salta ogni legame logico nella sintassi, nella grammatica, nella struttura e si assiste a un processo doppio di connotazione che ha a oggetto sia quanto raccontato, il disagio mentale che disallinea rispetto alle convenzioni sociali, sia la lingua usata per dirlo che si allontana sempre più dal senso comune per risignificare ciò che va scoprendo. La parola che è, con maggiore evidenza nell’ambito della salute mentale, insieme malattia e cura.
La prosa è poetica nel modo in cui le parole legano tra di loro e nel modo in cui l’intensità connotativa della lingua tiene insieme ciò che nella realtà è diviso e solo apparentemente, e in superficie, stabilizzato dalle significazioni primarie del linguaggio.
I personaggi sono separati, fissati nel binomio mente/corpo, saldati in quello normalità/follia, ai quali si aggiunge la bipolarità spaziale del confinamento in un dentro fisico rispetto a un fuori; soggetti a volte dimezzati anche perché di origine straniera, investiti quindi da barriere linguistiche e culturali, oltre che diagnostiche. Una voce di dentro che si vuole espandere al di là dei confini delle eterotopie, gli spazi in cui collocare tutti coloro che hanno un comportamento deviante rispetto alla norma; voce recuperata per farsi fuga, che scava non accontentandosi di effimeri sollievi, che vuole scollare la forza adesiva della vergogna, voce che vortica di pensieri e crolla per la mancanza di un riconoscimento.
Ascoltiamo la marginalità di chi “mangia le sigarette che non fuma”, di chi “parla tre lingue ma esige silenzio”, “se non silenzia grida”, di chi “soffre di ragni”, di chi ha “dieci occhi per sopravvivere agli eventi” in un tempo rotto in cui giorni e decenni si equivalgono.
È una scrittura che resiste a ciò che eleva l’invisibilità a principio, a chi vorrebbe mettere ordine a uno stato emotivo e percettivo di chi presenta un equilibrio mentale precario che nel testo, invece, diventa un’occasione per aprire a un rapporto intimo con chi legge e per dirsi delle verità su una condizione che può riguardare tutti come esseri umani e deve riguardare tutti come membri di una comunità. Una scrittura che, grazie alla torsione finzionale e a uno sguardo alieno da ogni retorica, conferisce significati inattesi a gesti, momenti, sensazioni che credevamo di comprendere nell’altro; una scrittura che facendosi evento spinge a superare le modalità di assoggettamento codificate, così come la rigidità di certi schemi narrativi.
“Il mio corpo è un occhio senza collirio, un gigante si muove alle mie spalle, il secondino mi spalanca la retina. Gli escrementi cedono dall’intestino, le braccia legate al letto mi ricordano un cristo sulla croce: sono io quel cristo? Siamo tutti inchiodati alla terra?”.
“Non partite senza di me. Il mio cuore è fragile ma pulsa come una stella remota, se mi dimeno è per raggiungere l’infinito, quello che non sapete, quello che non sappiamo. Mi è stato dato un corpo in miniatura, mi è stato chiesto di abitarlo: ma è possibile abitare un corpo estraneo attaccato e che rigetta? Guardate fuori: il possibile è questo noi che non abbiamo ancora avuto la capacità di pronunciare”.
La narrazione frammentata continua nelle lettere che i personaggi scrivono, dove apprendiamo per lampi di un vissuto pregresso e attraverso le quali spesso si evocano legami di sangue, padri, madri, fratelli, sorelle, figli nella speranza di poter riallacciare un dialogo sospeso, allentare l’appresa gerarchia dei ruoli.
Le docce sono fredde e i corpi sono spesso attaccati ai macchinari, come a protesi che gli consentiranno di rientrare nel mondo dei sani con la promessa di guarire da diagnosi come, ad esempio, quella di Roberto. Diagnosi: domande infantili. Promessa che troppo spesso colma l’incapacità di attraversarla con lui, quella condizione.
Vi sono somme implicazioni conoscitive per chi legge la parola con cui Ariot prova a trascendere ogni limite, ogni costrizione che il dentro vuole slacciare.
Di Maria Teresa Rovitto