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Che forma d’arte è quella che dà per scontato di non piacere al suo pubblico?: “Odiare la poesia”, Ben Lerner

Nessuna forma d’arte è stata denigrata quanto la poesia. Gli stessi poeti sono i suoi primi critici.

 

 

Nel 2017, Martina Testa ha tradotto per Sellerio un saggio graffiante e anche un po’ spietato, che tutti i poeti e le poetesse e anche tutti i non-lettori e non-lettrici di poesia dovrebbero leggere a colazione. Si tratta del saggio The Hatred of Poetry, di Ben Lerner.
Ovvero, Odiare la poesia.
Un umorismo nero e lucidissimo attraversa l’analisi di un atteggiamento adottato tanto dagli intellettuali quanto dai qualunquisti, a proposito di una forma d’arte fra le più complesse e viscerali: va da sé, la poesia.
Uno come Platone la disapprovava, ci ricorda l’autore, e la stessa disapprovazione esiste ancora oggi, in una maniera certo meno articolata, ovvero vomitata come un giudizio insindacabile, che oscilla fra inutilità – fiacca spendibilità – orrori editoriali. E altri cliché di questo tipo.
Ben Lerner scruta le dinamiche che hanno reso la scrittura poetica invisa e derisa e lo fa con acuta sincerità, ammettendo di averla detestata lui stesso, la poesia. Arringa & difesa/ pro & contro il verso: Lerner incarna entrambe le parti e ogni significazione si infittisce, una cosa però è certa: il poeta è condannato alla tragicità quasi comica della sua ispirazione. Dovrebbe essere un atto mistico trasfigurarsi grazie al verso e invece ne uscirai infiacchito. Ti giudicherà anche chi non ti leggerà davvero.
In fondo fa tutto parte del processo, si tratta di arte. Ed è la diretta conseguenza di uno dei limiti del linguaggio: non riusciremo mai a esprimere la purezza intatta di una sensazione metaforica o di un’immagine mentale, perché quando le parole ne sostituiscono la forma, la dissanguano.

Di seguito proponiamo un brano tratta dal libro, utile a stimolare questo dibattito inesauribile.

 

G.B.


 

«La poesia»: che forma d’arte è quella che dà per scontato di non piacere al suo pubblico, e che artista è quello che condivide questa antipatia, e anzi la incoraggia? Una forma d’arte odiata dall’esterno e dall’interno. Che forma d’arte è quella che ha come condizione della propria possibilità un perfetto disprezzo? E oltretutto, anche leggendola con disprezzo, che forma d’arte è quella che dà per scontato di non piacere al suo pubblico? E, oltretutto, anche leggendola con disprezzo non si ottiene l’autenticità. Le si può solo creare uno spazio: ma comunque non si tocca con mano la vera poesia, il prodotto genuino. A intervalli di qualche anno, sulle riviste Fioriscmainstream appare un pezzo in cui si lanciano accuse alla poesia o se ne proclama la morte, solitamente dando ai pochi poeti esistenti la colpa della relativa marginalizzazione di questa forma d’arte, e poi nella blogosfera fioriscono le difese, prima che la nostra cultura, se così possiamo chiamarla, torni a rivolgere la sua attenzione, se così possiamo chiamarla, al futuro. Ma perché non ci chiediamo: che forma d’arte è quella che è caratterizzata – e viene caratterizzata da millenni – da un simile alternarsi di attacchi e difese? Molta più gente si trova d’accordo sul fatto di odiare la poesia di quanta concordi nel definire che cos’è. Neanche a me piace, eppure ho fatto in modo che gran parte della mia vita ci ruotasse intorno (anche se con molta minore disciplina e perizia rispetto a Marianne Moore), ma questa non la vivo come una contraddizione perché la poesia e l’odio della poesia per me – e forse per voi – sono inestricabili.

(…) La poesia nasce dal desiderio di superare la dimensione finita e storica – il mondo umano fatto di violenza e differenza – e raggiungere il trascendente e il divino. Si viene spinti a scrivere una poesia, ci si sente chiamati a cantare, per via di questo impulso trascendente. Ma appena si passa da quell’impulso alla poesia reale, il canto dell’infinito viene compromesso dalla finitezza dei suoi termini.
In sogno i versi possono sconfiggere il tempo, le parole possono scuotersi via di dosso la storia del loro uso, si può rappresentare ciò che è impossibile da rappresentare (per esempio, la creazione della rappresentazione stessa), ma al risveglio, quando ci si ricongiunge agli amici seduti attorno al fuoco, si è di nuovo nel mondo umano con l’inflessibilità delle sue leggi e della sua logica. Il poeta è dunque una figura tragica. La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento. (…) Come tanti poeti, vivo immerso nel divario fra ciò che mi sento spinto a fare e ciò che sono in grado di fare, e in questa disconnessione mi trovo alle prese non solo con i miei limiti individuali (senz’altro avverto anche quelli), ma proprio con la struttura dell’arte poetica così come la concepisco. E questa struttura implicita la incontro di continuo, sia nelle tesi di quelli che sembrano attaccare la poesia che di quelli pronti ad accorrere in sua difesa.
La crudeltà della logica poetica è tanto più dolorosa in quanto fin da piccoli ci hanno insegnato che siamo tutti poeti in virtù del semplice fatto di essere umani. La nostra capacità di scrivere poesie è quindi, in un certo senso, la misura della nostra umanità. O almeno, questo ci insegnavano a Topeka: tutti abbiamo dei sentimenti dentro di noi (dove si trovano, di preciso?): ed è la poesia il luogo in cui si esprime (o si spreme, come fosse un’arancia?) questo territorio interiore. Dato che il linguaggio è la base della socialità e la poesia è l’espressione sotto forma di linguaggio della nostra irriducibile individualità, il nostro essere persone è legato a doppio filo con il nostro essere poeti.
«Sei un poeta senza neanche saperlo», ci diceva sempre il maestro X in seconda elementare: pronunciava questo irritante ritornello ogni volta che dicevamo due parole che facevano rima. Io credo che questo cliché scherzoso nasconda una convinzione reale sull’universalità della poesia: ci sono bambini che studiano pianoforte, bambini che vanno a lezione di tip tap, ma non diciamo che ogni bambino è un pianista o un ballerino. E invece sei un poeta, che tu lo sappia o meno, perché far parte di una comunità linguistica – essere un «tu» a cui ci si rivolge – significa avere in dono una capacità poetica…

 

Tratto da Odiare la poesia, di Ben Lerner (Sellerio, 2017)

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