Insorte (Il Convivio Ed.), di Anna Maria Curci, compone con le due raccolte immediatamente precedenti, Nei giorni per versi (Arcipelago Itaca, 2019) e Opera incerta (L’Arcolaio, 2020), una trilogia che verte sul tema di fondo della paideia (educazione, formazione, illuminazione) di una comunità che si identifica e cresce attraverso la traduzione reciproca di lingue e dialetti di luoghi diversi. Questa era infatti la funzione originaria della poesia, nelle rapsodie preomeriche, cui era affidata la trasmissione di una koinè e di un ethos in regime di comunicazione orale.
Ovviamente non posso qui riassumere, neanche per sommi capi, il percorso compiuto dall’autrice nelle sue due sillogi precedenti; mi limiterò dunque a esaminare lo spazio artistico dei due testi precedenti e la loro rispettiva topologia, intesa piuttosto nel senso matematico che in quelli geografico e retorico del termine.
A tale scopo farò una comparazione fra le rispettive cornici, ossia fra i loro inizi e i loro finali.
Nei giorni per versi inizia con questa eloquente quartina: «Come un accento a voce claudicante/ balza e s’arresta il limite del giorno./ Taglieggia tra le sdrucciole e le piane/ e tronca si riveste soluzione». Un’autentica dichiarazione di po-etica esistenziale. Il finale costituisce invece una sorta di approdo epifanico: «Man mano che s’accende lume a lume/ sostiamo nel silenzio che rapprende/ lo squarcio all’improvviso rivelato./ Noi che veniamo al mondo lacerando». Nel mezzo si svolge l’enigma della composizione narrativa e etica della perversione dei giorni nella tensione irrisolta tra vita e forma. Del resto la sequenza di 173 quartine di endecasillabi, a costituire «il diario di oltre cinque anni… di ricerca ed esistenza, di stupore e disappunto», denuncia proprio l’intento di chiusura formale, cioè la «scelta di dare una cornice rigorosa allo sfogo del cuore e alla rivolta della mente», perché «l’impalcatura regolare impone riflessioni, soste, dà spazio e respiro».
Opera incerta invece inizia con un’allocuzione autodiretta, un dialogo tra il sé e la coscienza che si espanderà nell’intero testo, sondandone i margini di incertezza, le soglie tra dubbio e scelta che lo caratterizzano poeticamente: «Siedi sull’altra riva e getti l’amo./ Io traghetto. Nella scalmiera remo/ bisbiglia con cadenza. Lei, la tua mobile sostanza,/ smesse le vesti torbide, mi accoglie./ Quando riprende il volo la speranza,/ cocciutamente sai che non è fuga». E si conclude invece con la splendida allocuzione alla lingua-madre che ribadisce la riconoscenza per i maestri e l’inesausta vocazione poetico-didattica dell’autrice, che costituisce poi il filo conduttore dell’intera sua opera: «Non so se sono ancora la bambina/ che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo al sole di dicembre./ La casa, poi il mio asilo e la tua scuola/ dove da trafelata ti mutavi,/ lingua-madre diventava il francese./ So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e l’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone».

La struttura metrica e strofica si fanno ora più irregolari, quartine, terzine, distici, a costruire quegli incastri a embrice che secondo il De Architettura di Vitruvio “formano muri non altrettanto belli, ma più solidi del reticolatum”. A sottolineare l’intenzione di apertura della forma alla vita e «l’interrogazione permanente posta dalla poesia… dall’oggi brutale e dimentico». Privilegiando insomma la funzione etica su quella estetica, in quel continuo riorientamento (Erörterung) dell’esserci nell’esercizio del linguaggio poetico, che comporta il mettersi in discussione, esaminare, riflettere, assumendo la valenza di una vera e propria “composizione di luogo”, ossia di esercizio spirituale nel senso inteso da Sant’Ignazio da Loyola. Apertura formale e cura esistenziale si compendiano dunque in questa adozione del principio di incertezza, nonché nelle connotazioni di casualità, flessibilità e resilienza implicite nella struttura a embrice delle tegole del tetto di questa casa dell’essere costruita dal linguaggio poetico, coi suoi continui effetti di straniamento e rinnovamento della percezione del mondo, e con la sua funzione di rigenerazione del “dialetto della tribù”, ossia del senso e del valore della comunicazione umana erosi dall’equivoco e dalla chiacchiera, oggi più che mai imperanti. Da questa breve disamina risulta evidente il deliberato rivolgimento avvenuto tra la prima e la seconda silloge, cioè il passaggio da una forma chiusa a una aperta.
Questo movimento dalla forma dell’espressione alla forma del contenuto, dall’estetica all’etica, prosegue e si accentua in Insorte che può considerarsi come la sintesi del trittico sopra menzionato. Una sintesi che è nel contempo una costola e una miniatura delle prime due, comportando una rastremazione e un addensamento tematico-formale che a sua volta contiene dentro di sé quella dialettica nelle sue tre sezioni. Dove l’ironia e il paradosso, che sono due figure cardine della poetica di Anna Maria Curci, si condensano in ossimoro fin dal titolo che nel suo gioco grafico fra tondo e corsivo, “Insorte”, riassume la tensione fra la casualità dell’esperienza e la necessità di prendere posizione, ossia anche fra la dimensione estetica e quella etica. E lo fa esemplarmente nella prima sezione, Tragedia e idillio, dove le figure e gli emblemi che costellavano le due opere precedenti, vengono raccolti e trasportati sul piano del mito, ma nel contempo sinesteticamente depotenziati, sicché il primato della visione cede alle funzioni dell’udito e del tatto, intese in senso proprio e metaforico, cioè anche come ascolto, attenzione e cura dell’altro che si annuncia.
Così nella bellissima Psyche, lirica di apertura che riassume tutta la poetica dell’autrice, il dramma di “una mente vigile e di un cuore pensante” appare nel suo rapporto intimo col demone dell’amore, considerato in tutta la sua ambivalenza fra Eros e Agape, e fra pienezza e carenza (Poros e Penìa). Il mito di Amore e Psiche, così come ci viene narrato nelle Metamorfosi di Apuleio, ci racconta infatti della perdita dell’amore di quest’ultima per la curiosità di guardare il primo in volto. Qui invece l’anima appare «folle d’Amore per un’eco celata/ nel sogno di fondali inesistenti». Con una impressionante condensazione di livelli del testo che chiama in gioco figura e fondo, coscienza e inconscio, volontà e rappresentazione, pulsione organica ed espressione linguistica: «Si immerge per lei ch’è inabissata/ chi esplora le anse e i fondi del volere/ – brama coatta, deriva di corrente -/ e recupera il filo e la parola».
Si tratta di una rilevante elaborazione del mito, di un intarsio prezioso nella storia della sua ricezione. O nella seguente lirica dedicata a Creonte e, in filigrana ad Antigone, che depotenzia l’esercizio del potere a vantaggio della pietà e della grazia: «è livida la piena di potere/ mentre s’azzuffa la ciancia della brama/ con altra ciancia/… sotto la calce viva/ voce smorzata/ di chi raccolse spoglie».
E poi ancora in quella dedicata alla naiade Ciane che si scioglie in lacrime per il ratto dell’amica Persefone e diviene una fonte nei pressi di Siracusa, incarnando «l’essenza di scorrere e cercare/ nell’intralcio di lacci e di cesure» e precedendo proprio l’apparizione di Kore, la fanciulla divina per eccellenza, quella figlia o parte di Demetra, la madre-terra che si spalanca per consentire il rapimento da parte di Ade e con ciò il distacco tra la vergine e la donna feconda, che torneranno a riunirsi a ogni nuova primavera. In un perenne ciclo di immersione ed emersione, dove è destino che la tenerezza e il coraggio si integrino a vicenda, nell’atto «senza riparo» di «accogliere la grazia» e, con pregnante sinestesia, di «cedere al raggio di sole nella pozza:/ mischiare acqua piovana e la parola». Per comporre la natura e l’arte nell’opera della vita activa di colei che, già figlia, «pensa nella sventura, s’inabissa/ e riemerge, con licenza di amare». Fino a tornare a quell’enigma della composizione narrativa di Nei giorni per versi, dei giorni nei versi, con l’evocazione della sua ipostasi fatale, quella Sfinge che è una propaggine dell’Oracolo che avviò Edipo sulla strada di Tebe, per irretirlo nel legame fatale che sottende Tragedia e Idillio.
E così in una decostruzione congiunta del mito e dell’epica, nell’epoca odierna in cui tutta la realtà si è trasformata in favola o è affogata nel rumore bianco della chiacchiera amplificata dai media, mentre i nuovi antieroi, profughi anonimi, partono per i loro peripli e naufragi in «una navigazione sottotraccia» di dannati e sommersi, finché i superstiti troveranno la forza di raccontare «le rotte dell’eloquio/ da muro a muro e gli schiaffi sull’acqua/ di tutte le odissee, note e dimesse». Così si chiude questa prima sezione in un rivolgimento reciproco dei generi letterari, lirica, epica e dramma, nella polifonia apocalittica, sospesa sul baratro della dissonanza, del nostro antropocene, l’era in cui la prepotenza della tecnica ha stravolto i ritmi della natura, candidando la specie homo sapiens a una probabile estinzione. E in effetti, nella scansione temporale del testo, questa prima sezione ha messo in scena il tempo in quanto Evo o Aiòn. Mentre le due successive lo assumeranno rispettivamente come Chronos e Kairos, i tre nomi e aspetti del tempo contemplati dal pensiero e dalla lingua greca antica.
Nella seconda sezione, Quando tace il latrato, viene infatti subito ripreso il tema della chiacchiera, ora restituito alle dimensioni della cronaca quotidiana e al registro della denuncia civile già ampiamente praticato dalla poeta nelle opere precedenti. Ma sempre privilegiando le dimensioni uditiva e tattile come contrappeso alla inflazione delle immagini nella selva di specchi e di schermi che ci attorniano. Perorando l’esercizio della cautela, del silenzio, dell’ascolto e della modulazione minima della voce a ravvivare poeticamente il linguaggio usurato e oltraggiato nell’odierna babele mediatica. Così l’invito a «tastare cauto piuttosto/ parte dura o membrana sottile/ il gradino nascosto sull’uscio/ il patire promesso/ di timpani e trafori/ Quando tace il latrato cambia voce/ Aspetto/ nel disordine compatto». E così di seguito vengono esplorate le soglie fra vita e coscienza, piaghe esistenziali e pieghe poetiche, incertezza e resistenza, stupore e angoscia, attesa e scelta, orrore e amore, servitù e signoria, in un esercizio costante di spersonalizzazione fino a giungere a una sorta di “partito preso delle cose” e di animismo di ritorno dove «Gli stipiti abbandonano/ vani di usci e soglie./ Suonano spifferi», cui fa seguito una miniserie di inequivocabile denuncia civile, una sorta di quadrilogia delle date che esibisce l’impianto cronologico della sezione, evocando in ordine sparso i traumi degli anni di piombo, con tutto il corredo di attentati, repressioni, connivenze e depistaggi, in una disseminazione di “giorni perversi”: dall’assassinio di Giorgiana Masi (12 maggio 1977), presumibilmente per mano della polizia, durante una manifestazione pacifica del partito radicale, al famigerato incidente aereo di Ustica (27 giugno 1980) di cui mai furono definitivamente chiarite le responsabilità, dalla strage di matrice fascista di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) all’assassinio di Padre Pino Puglisi per mano della mafia (15 settembre 1993), dove viene ripreso ed enunciato il rebus del raccontare, quell’enigma della dispositio che già reggeva Nei giorni per versi: «Potrei contare i giorni e gli anni tondi/ che da nascita e morte corrono tumultuosi/ indaffarati a urtare la memoria./ Potrei scomporli e incolonnarli/ multipli e divisori/ numeri primi e certe ricorrenze,/ contare e raccontare/ quesiti e affermazioni/ lettere e cifre a ricomporre il rebus.
Padre Pino Puglisi, tre iniziali gemelle/ e il tuo quesito porge il testimone:/ “Sì, ma verso dove?”». Per finire col ribadire la propria dedizione a una poesia intesa come revisione e ricucitura indefessi nonché come testimonianza e “controcanto a pifferi e trombette”. E con una sapida evocazione della irriducibilità reciproca di Chronos e Kairos, «l’orologio del gigante» e «l’oracolo ad acqua», che annuncia già la terza e ultima sezione, Tolle, lege, tutta nel segno di Kairos, dell’istante decisivo, del taglio auto-bio-grafico, che custodisce la crepa madre e l’orizzonte di ogni poetare, riprendendo il filo rosso dell’opera incerta e portando il rendiconto dei giorni perversi a un nuovo, provvisorio finale aperto.
Nella terza sezione il tempo infatti è altro, è l’altro che ci abita e ci interroga, o rispondendoci se interrogato bussa alla porta come l’angelo che visita il poeta folle nella sua torre. Questa sezione è una declinazione del Kairos greco, il momento opportuno e l’attimo supremo, la giusta misura e l’occasione propizia, dove la scelta umana intercetta il mutamento naturale per conferire un senso alla nuda vita e una forma al suo riflesso nella coscienza. Esistenzialmente è il tempo dell’altro, dell’alienazione in sé e per sé, della discontinuità della narrazione dell’io poetico. Del rischio della scelta nell’esercizio del dubbio, del cambiamento del cuore a livello dell’individuo e della biforcazione evolutiva a livello della specie.
È il taglio auto-biografico sotteso ad ogni narrazione, la ferita e l’orizzonte in cui l’autoconfessione si apre alla scelta. Così nel famoso passo del libro VIII delle Confessioni, dove Agostino, in preda al dubbio e alla disperazione, sente una voce di fanciullo sussurrargli dalla stanza accanto “tolle, lege”, apre il libro che ha dinnanzi, legge dalle lettere di San Paolo e si converte al cristianesimo. Il libro è quello sacro, la Bibbia, il veicolo materiale e la metafora guida della civiltà letteraria, quella “Biblioteca di Babele” dove ciascuno di noi cerca la chiave della propria improbabile legittimazione. Così in una allocuzione autodiretta l’io poetico, nella sua privata biblioteca, cerca il filo rosso del proprio diario esistenziale, rapsodicamente scomposto in una serie di glosse a margine delle sue tante letture. La poesia di apertura che dà il titolo alla III sezione è essenziale per comprendere la militanza poetica della nostra autrice «tenace il filo/ rincorso a capitomboli sventati./ prende fiato e dal margine addita». Si tratta di una vocazione alla testimonianza che poi si fa corale nel dialogo coi suoi interlocutori eletti: l’Hölde, per cui val la pena citarla per intero: «Dietro i vetri i tuoi libri/ custodiscono pagine da aprire/ in tutti i tempi, dicono: tolle, lege!/ Dato per perso, è pur rlin folle dei suoi ultimi anni, «un altro te sulla soglia del buio» e il fraterno compagno di strada Fabio Michieli, con cui condivide una laboriosa presa di coscienza, «tra narrare e narrarsi» tra riconoscimento e riconoscenza. Tra i chiaroscuri dell’esistenza dove talvolta improvviso emerge un atto di misericordia: «Tra i vicoli in penombra e fino al buio/ viene una luce brusca un braccio teso/ la schiena nuda inferma si solleva». Misericordia che nasce dalla disposizione all’ascolto che consente di incontrare l’angelo viandante e la parola salvifica («Mistero, Inciampo./ Scandalo per l’iniquo./ Nel buio stella») e di trasmetterla con la voce sommessa e il canto sussurrato della «trobadora», traduttrice e traghettatrice che, tra pause, silenzi e accordi in sordina, veste «di luce il buio». Così l’opera incerta e il rendiconto dei giorni per versi trovano un nuovo provvisorio approdo e un finale aperto al domani, qualunque esso sia.
A cura di Giuseppe Martella