In un panorama editoriale saturo di pubblicazioni, che per eccesso di titoli in uscita rischiano di soffocare la qualità a discapito della quantità, esistono ancora isole felici.
Scritture radicali, che non hanno paura di guardare in faccia l’abisso, e che si consegnano volentieri agli artigli dei propri demoni: perché la scrittura non è mai terapeutica, come scrive Michele Mari: alcuni scrittori «hanno nell’ossessione non solo il tema principale ma l’ispirazione stessa» e scrivendo «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano».
Questo è lo spirito che anima la nascita di questa rubrica, dal titolo che rimanda al celebre romanzo di Balzac Illusioni perdute: le vicende di Lucien, aspirante scrittore nella Parigi della prima metà dell’Ottocento, sono lo specchio di una società in cui le aspirazioni di ognuno fanno a pugni con i giochi di potere, gli inganni e le sopraffazioni per svettare sopra gli altri.
La ricerca di nuove voci capaci di sorprendere, di raccontare le metamorfosi del tempo in cui viviamo abbagliati da uno schermo luminoso qualunque, perennemente acceso come un faro sulla notte del mondo: gli esordienti e la scrittura, questo è l’ordine del discorso.
– Omar Suboh

La rivincita dei timidi: Non nella Enne non nella A ma nella Esse.
L’esordio di Mariana Branca
Yeah, it always feels like The Gods are looking on us
and are like: «Ah, let’s make him do this».
Aphex Twin
«L’arte apre porte portoni dimensioni attraverso i quali tutto può accadere».
In una notte nerissima, dello stesso nero del VantaBlack – ovvero «la sostanza più scura conosciuta al mondo, in grado di assorbire fino al 99,965% delle radiazioni» –, sembra che tutto possa accadere: Nicolas Jaar e Dave Harrington sono i Darkside, suonano nella Music Hall di Williamsburg. Ballano tutti, «sotto una Luna Specchio gigantesca», lo Spazio si è dissipato nel Rumore e i nottambuli fuoriescono dai loro sotterranei bagnati da riflessi di luce scintillanti, prima che il silenzio avvolga ogni cosa attraverso il proprio manto trasparente. Non nella Enne non nella A ma nella Esse di Mariana Branca (Wojtek, 2022) – finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino – è molto di più di un romanzo su Nicolas Jaar, o sui musicisti che hanno fatto uso del Roland JUNO –106 – il sintetizzatore analogico con componenti digitali utilizzato da artisti del calibro di Autechre, Jean–Michel Jarre, The Prodigy, Tame Impala e molti altri –: è la storia di una profonda amicizia che scava nel cuore dei legami, scandagliandoli, al ritmo di ottanta bpm al minuto, non uno di più.
Un lento apprendistato che conduce due amici verso la Centrale Elettrica – «era la musica elettronica che ascoltavano» –, nei pressi di New York, all’alba del ventunesimo secolo. Ascoltare con un’innocenza aliena quel suono deforme, gorgogliante e blasfemo prendere forma è il viatico verso l’infinito, corteggiando la malinconia e la tristezza, ovvero quella condizione che ha le stesse caratteristiche dell’umidità, perché è «qualcosa che cede la sua durezza per farsi penetrabile». L’impulso elettrico prima, che si fa elettronico successivamente, sfiorando liturgie ecclesiastiche, il trascendente e, di conseguenza, il sacro. Se la morte è soltanto «un cambiamento di forma», nessuna metafora è più potente della musica per visualizzarne l’idea: il contenuto platonico e archetipico a cui tende ogni creazione, orientata verso la bellezza essenziale.
L’esordio di questa autrice è un romanzo-saggio che si fa strumento esso stesso, più suonato che scritto come ribadito recentemente in una bella intervista pubblicata su Nazione Indiana, in cui a contare è soprattutto la sfumatura come ribadisce il personaggio di Jean nel cortometraggio di Jean–Luc Godard Charlotte et son Jules. Quando ogni lineamento appare come alterato dall’abuso di sostanze, le stesse che accompagnano i rituali collettivi dei rave, dei free party, dall’alba della Techno alla musica Trance: di quest’ultima, in particolare, nel libro viene ricostruita la genealogia a cominciare dalla sua prima apparizione negli anni Novanta in Germania, e ai principali festival disseminati in Europa dove immergersi per avere una esperienza estetica psichedelica – dal Boom in Portogallo all’Ozora in Ungheria, passando per il Blackmoon Festival e il Sonica –; divenire come in osmosi la stessa materia della montagna, dopo aver consumato psilocibina e DMT, e la musica sembra spremuta dagli alberi stessi, «le radici, le foglie, la terra tutta, le cascate e gli animali, come se da tutto ne venisse fuori una colatura psichedelica e di quella psichedelia ti ritrovavi fatto, completamente fatto, alterato, aperto, dilatato».
Torna alla mente un altro classico della letteratura sul tema come Muro di casse (Laterza, 2015) di Vanni Santoni, quando attraverso le parole di Cleopatra Mancini – l’intelletto – ovvero, la stessa che sarà poi protagonista dell’ultimo lavoro dell’autore dal titolo La verità su tutto –, ripercorriamo i principali centri nevralgici del movimento dei free party. Quando a contare è sopra ogni cosa l’elettronica, la condivisione dei luoghi e dello spazio, quando la società diviene comunità non strutturata o sottomessa a autorità alcuna; «stravolgimento del linguaggio della rappresentazione», contro ogni «retorica della stabilità», la stessa che ha provato in tutti i modi a imporre categorie sociopolitiche per imbrigliare ogni forma di dissenso, di sperimentazione, per una realtà che differisce dalle altre controculture giovanili, proprio perché è un movimento «non mappabile, dinamico, frastagliato, a vari gradi di radicalità, senza confini tracciabili tra partecipazione e appartenenza». Il cui sbocco finale non può che essere lo spirito, come una visione che abbatte ogni frontiera, riconciliando ogni cosa con la sua matrice primigenia, calati all’interno di un viaggio interiore che ridefinisce ogni categoria del sé, ogni monolite culturale preimpostato: uscendone purificati.
Animata dallo stesso travolgimento Mariana Branca scrive come in uno stato di trance perenne, guidata dalle forze oscure del Suono che tutto ibrida, e le parole sono come cancelli da sollevare, o scavalcare, giocandoci. Ajar, per esempio, che in inglese rimanda al concetto di chiuso, di semiaperto, per estensione disarmonico, è il collegamento verso l’arte, il cui ruolo è stato trasmesso dal padre del musicista – Il signor Jaar, architetto, fotografo e artista anche lui, di origine cilena e palestinese –, l’allontanamento della coscienza dalla realtà attraverso la sua espansione, la stessa che si ottiene con le sostanze, e il distacco creativo dal resto diviene funzionale alla sperimentazione, all’improvvisazione contro ogni assimilazione in un ruolo predestinato. Un testo da leggere ascoltandolo, magari in compagnia degli stessi dischi citati un po’ ovunque nel testo – di cui è farcito copiosamente, un po’ come nella migliore tradizione postmodernista –, a partire dal primo disco di Nicolas Jaar Space Is Only Noise, passando a Inès con Nikita Quasim e Soul Keita, e abbracciare di colpo la musica delle sfere, colmando ogni distanza tra i pianeti. D’altra parte, come ci ricorda Branca in uno dei passaggi del testo, un astronomo come Johannes Kepler era in prima istanza anche un mistico. E quando formula la sua Terza Legge del Movimento dei Pianeti, tra le dita, possiede la Harmonices Mundi: ovvero la proporzione armonica fra la differenza massima e la minima velocità angolare dei pianeti nella loro orbita per approssimazione. Il «fluido musicale cosmico» scorre senza mai fermarsi, e il battito cardiaco si contrae seguendo il suo ritmo interiore, e l’unica chiave per esprimere l’impossibile diviene una archiscrittura: perché «la musica parla meglio delle parole». Itinerario che esorta a riscoprire noi stessi attraverso le irriducibili differenze con l’Altro da sé, come scrive Jean–Luc Nancy, citato nel capitolo dedicato agli anni trascorsi alla Brown University di Jaar, a Providence.
Accompagnati dalla voce e dalle parole del migliore amico dell’artista, quello che si rivela gradualmente tra le pagine è lo spazio dell’esistenza: «Questo spazio, secondo Derrida, è sempre decentrato rispetto a se stesso e, pertanto, non se ne può parlare. Il dentro si proietta all’infuori: migrazioni, cicli, circuiti della soggettività col fuori che diventa dentro. Il pensiero si crea e si dissolve in una creazione e un dissolvimento continui, quasi sincronici, allora la scrittura non è più possibile ma solo è possibile l’archiscrittura che è il livello primitivo, quello dei gesti semplici e delle linee parallele, delle tracce». Il mistero si alimenta, tra poesie di John Cage e dischi di Aphex Twin – Drukqs, per esempio –, e la nostalgia si mischia al sentimento per un tempo perduto e mai conosciuto davvero. Un enigma di complessa decifrazione, così come la vertigine della lista e la numerologia sparsa tra le pagine sembra vogliano suggerirci che la chiave (se c’è) è nascosta tra le pieghe, tra le innumerevoli tracce lasciate da fotografie, suoni e spazi che si confondono in un unico riflesso, che poi è più importante della cosa che viene riflessa in sé. Se ogni cosa è espressione di una sola ed enorme energia, allora anche scrivere (o suonare) può essere uno strumento del divino, che decide di manifestarsi in molteplici forme sempre differenti ma che rimandano a una Unità indifferenziata, un po’ come all’origine della creazione dell’Universo stesso: «Io ero là, steso, morto a galla, inondato, allagato dal Rumore e dallo Spazio, e forse, come i colori primari e secondari, che se li mischi tutti insieme si ottiene grigio, così il rumore, tutto il rumore dello spazio, una volta mischiatosi diventa trasparente, e io ero trasparente».
Un’autrice discreta, che predilige la timidità all’ostentazione dell’onnipresenza sui social – Mariana Branca non ha un profilo in nessuna delle varie piattaforme, né un blog, né ha mai pubblicato su riviste… –, dando ragione un po’ come scrive un’altra esordiente, Valentina Maini, in La mischia a proposito di scrittori ed editori: «Gli scrittori migliori che ho conosciuto nella mia vita quasi si vergognavano di dire in giro che scrivevano. Se ne stavano buoni buoni in un angolo e si facevano i fatti loro. Non erano nel giro, non si facevano vedere nei posti giusti […]. E poi tirano fuori dei capolavori e tutti a dire: ma come hanno fatto? Ma da quali abissi hanno estrapolato tutto questo dolore?». Esonda così con un libro che ha il coraggio di sfidare le regole di un mercato editoriale che appare sempre più appiattito sui generi da botteghino, sui soliti nomi, sovvertendo dall’interno le regole di sintassi e ortografia, componendo uno spartito musicale che risuona collegando mente più cervello, cuore e neuroni, dilatando l’attimo in una sospensione infinita come il Tempo.
Una rubrica a cura di Omar Suboh