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Giulia Bocchio racconta “Gli undici” di Pierre Michon

Il quadro che ci serviva: Gli undici di Pierre Michon
A cura di Giulia Bocchio 

Un quadro.
Un’ultima cena senza Cristo, seduti a tavola molti Giuda o piuttosto una serie di apostoli laici che in nome della libertà e della fratellanza non disdegneranno qualche testa da far saltare.
L’ultima cena imbellettata a festa, ma piena di ombre che tanto sarebbero piaciute a Caravaggio. Undici commensali e una sola ospite, la Storia.
Ci penserà lei a rendere noti quegli uomini che l’hanno fatta sedere alla destra e alla sinistra di più madri, di più padri e di più spade.
Una rivoluzione va ritratta, i tempi cambiano, certi spazi vanno riempiti adesso. C’è un senso di urgenza, passare dalla parte del nemico, è un attimo. Un giorno la gloria, quello dopo un brindisi avvelenato.
Per il momento sono Gli Unidici e li ha dipinti un vecchio maestro di gran fama – uno che è stato allievo di Tiepolo e ha lavorato per David – ma che non ha mai ottenuto una vera consacrazione, si chiama François-Élie Corentin.
Siamo in Francia, a Parigi, nel bel mezzo di un periodo che non ha bisogno di presentazioni, certo lo conoscerete, il Terrore.
Una fredda notte del mese di nevoso dell’anno II, ovverosia il 5 gennaio 1794, un drappello di ferventi sanculotti preleva il noto pittore in tutta segretezza per condurlo alla Chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs; lì nella buia sacrestia volti cerei consumati dalla Rivoluzione lo scelgono, lo eleggono massimo testimone delle loro imprese per la Madre Francia: deve ritrarre il Comitato di Salute Pubblica, gli undici membri detentori di un potere fantasma e sanguinoso, undici personalità che in nome della morte della tirannide hanno finito essi stessi per incarnarne l’assolutismo.
Undici fanatici, undici visionari: undici uomini che sono la storia in atto. E questo presente Corentin deve ritrarlo, deve dipingere un quadro magistrale e impossibile, un quadro pericoloso e necessario e deve farlo in tempi strettissimi, senza fiatare. Il prezzo morale è alto, come la sua ricompensa.
Ci sono condizioni precise: dare a Robespierre e ai suoi il massimo rilievo, la massima magnificenza. Billaud, Carnot, Couthon, solo per citarne alcuni, devono rappresentare un’anima collettiva e solenne. E non alla maniera del Marat di David, che è un residuo della storia, un uomo morto; no, loro sono vivi. Mai stati così vivi. Un’ultima cena truccata, potentissima. Un’arma peggiore della ghigliottina stessa.
Perché Robespierre vacillava, fugaci alleanze si andavano elaborando nel panico, anche se presto la sua testa sarebbe saltata comunque, ma in nevoso questo nessuno poteva ancora saperlo. Meglio allora ritrarre subito quel Comitato: consacrarlo attraverso una tela nel caso il suo esecutivo fosse sopravvissuto ai tradimenti e alle spaccature interne, condannarlo qualora un passo falso di Robespierre avesse rispecchiato troppo l’autorevolezza di un qualsiasi Luigi. E quel quadro era degno di un palazzo fatto di specchi. La grandezza si paga e quel dipinto sarebbe stato o un testamento o una prova di colpa. Un jolly politico.
L’arte come somma verità, l’imbroglio perfetto, quello che celebra e poi si ammira al Louvre. Corentin realizza Gli Undici e quella tela immensa è un’opera grandiosa. Undici versioni del potere e delle sue derive, undici cuori di Francia, undici rivoluzioni per una sola storia. Il mondo che cambia per sempre e che trascina con sé le ossa e le parole, le immagini e la fede. Ognuno può scegliere il suo credo. I suoi santi e i suoi demoni.
Perché la Storia è una summa di infinite versioni di diverse storie, alcune di esse sono addirittura false, non esistono. Corentin stesso non esiste e dunque nemmeno Gli Undici in versione dipinto. Gli Undici esistono nella storia, ma non sono quella storia, sono la storia che la grande penna di Pierre Michon ha consacrato in nome di un romanzo.

 


Pierre Michon, Gli undici, Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco, Adelphi, 2018

 

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