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‘È una raccolta fervorosamente disperata’: Massimo Morasso racconta ‘Testimoni’ di E. Franceschetti

Sculpture by Britt-Ingrid Persson

 

È una raccolta fervorosamente disperata, questa di Emanuele Franceschetti, Testimoni (Aragno, Torino 2022). Un piccolo libro da leggere e rileggere quando si è ben disposti a uscire dal tempo della durata serena, per camminare al fianco di un pensiero aperto con veemente, tremebonda intelligenza alla dismisura tragica che abita la realtà. Capite subito che soprattutto Mario Luzi ha innervato la struttura fisiologica del dettato del giovane poeta marchigiano. Come per il Luzi più memorabile, anche per Franceschetti l’esistenza non è una passeggiata e l’essenza non è un’astrazione filosofica. Entrambi, il Luzi degli anni ’50 e questo sorprendente poeta nuovo, frequentano senza paraocchi a un tempo l’idea e il magma terragno che l’invischia. Entrambi parlano a partire dalla “fiamma d’amor viva” che tende, quasi senza scampo, a fargli bruciare in letterario auto da fè la materia più superficiale dell’universo mondo. Si potrebbe parlare a lungo della genealogia poetica che presuppone un libro pieno d’echi come questo. Lo fa abbastanza bene Massimo Gezzi nella sua acuta postfazione. La cosiddetta critica, come spero, si occuperà di rivelarla. Ma fin d’ora è possibile dire, perlomeno, che Testimoni inscrive il suo autore nella ristretta genia dei poeti italiani di non nascosta complessità intellettuale, che sono capaci di insistere con profitto anche stilistico nel rovello del proprio tormento conoscitivo. Sostengo che pathos immaginifico, padronanza timbrica e pseudo-naturalezza lessicale fanno di Franceschetti un successore designato di quella piccola stirpe. Ho accennato prima alla dismisura tragica che abita la realtà. Ora, preciso la cosa entrando per qualche riga nel merito del libro, e aggiungo che in questa edizione aggiornata e ampliata della raccolta inclusa nel XV Quaderno italiano di poesia contemporanea (2021, Marcos y Marcos) Franceschetti scava in tale dismisura con lo strumento di una poetica ancipite, inestricabilmente imbozzolata nel dilemma fra l’esercizio della parola – e del verso – come misura della dismisura, o, viceversa, incontentabile com’è, come… dismisura della dismisura. Di più, azzardo che il poeta «sempre inchiodato alla frontiera, sempre/ nel vivo dell’enigma» dà voce a un corpo testuale che contiene il battito di una meditata ma indomabile concordia discors, per cui il sinistro spessore delle cose vibra in modo assordante nel suo orecchio interno, teso «all’ascolto immobile di un vuoto» dove le parole «perfette, misurate», subito dopo essere arrivate cedono il passo a «un tremore di risata» che spezza l’ordine del discorso – e rimbalza ai cieli l’illusione di una rappacificazione fra mente e senso, ego scriptor e nuda vita. W.B. Yeats, orecchiando Nietzsche, ha scritto in The Gyres che di fronte alla degenerazione del tutto noi spettatori non possiamo che ridere di tragica gioia. Notate l’affinità, e notate la differenza.
In Yeats tragedia è una visione cosmica tradotta in parola da un io “in carrozza”, tendenzialmente onnisciente. Mentre Franceschetti s’aggrappa al suo tremore, che tenta di condividere con noi partendo dal basso di una lingua «ruvida, incordata/ all’origine, al corpo». La forma perfetta (analogo retorico di un ordine metafisico delle cose) muore in poesia dopo una lunga vicenda storica. Ai poeti post-novecenteschi viene offerto un ampio fascio di possibilità linguistiche. Quasi tutte banali. E un poeta autentico, come Franceschetti, anche se ha solo trent’anni ha l’occhio lungo di un maturo, e s’industria, fra “azzardi ascensionali” e picchiate nel “fondo oscuro della mente”, per qualcosa che non sia banale.

A cura di Massimo Morasso

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