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L’assurda evidenza: dialogo con Francesco D’Isa (a cura di Giulia Bocchio)

Finché ho scoperto una medicina nel veleno dell’assurdo
Francesco D’Isa

 

In termini puramente estetici e sensoriali, provando a visualizzarlo in libreria o all’interno di una qualche biblioteca, L’assurda evidenza è un diario filosofico molto breve, sottile, scritto dal filosofo e artista visivo Francesco D’Isa e uscito per Tlon ormai da qualche settimana.
Eppure, una volta aperto, è un libro densissimo, che merita più d’una ri-lettura.
Merita inoltre un’interazione diretta con le particolari illustrazioni che vi sono all’interno: vuoti e pieni, il non finito.
Francesco D’Isa rende umani e personali quesiti complessi, che animano la filosofia (e non solo quella Occidentale) da secoli, e coraggiosamente li generalizza a partire da quel ‘Qualcosa esiste’, che apre il percorso stesso del libro e che conduce a un resoconto  illuminante per chi scrive: ‘La vita è assurda’.
L’importante è non subire in maniera passiva tutto questo.
Questa assurda evidenza è però solo una delle tante possibili. Ogni essere vivente, ogni essere pensante, è una possibile versione del mondo che ci ( e lo ) circonda. Il fatto è che ‘vivo non significa vero’, ma questo ce lo racconterà Francesco…


Francesco, bentrovato. L’assurda evidenza (Tlon) è un diario filosofico e come la maggior parte dei diari, comincia con un ricordo personale, intimo, quasi commovente: un mosaico che conserva la giovinezza, un ricovero, una donna acuta ma con pochi mezzi e una domanda-voragine “Perché si soffre?”. Si tratta di un percorso filosofico che ha la puntualità di un saggio e un approccio intimista, come se tu volessi affidare al lettore nuove possibilità, nuove riflessioni, senza pretese accademiche…

Bentrovata Giulia e grazie per il tuo interesse nel mio libro. Ho scelto il registro diaristico proprio perché la filosofia che più mi interessa è quella dei diari, degli aforismi, i quaderni, le consolatio, i poemi-trattati taoisti e buddisti… insomma, quella che si sviluppa con grande libertà stilistica attorno ai temi esistenziali più urgenti, come il celebre “essere o non essere” e il suo corollario, ovvero come essere. È il punto di partenza di Camus e prima di lui di Buddha o Laozi, ma anche di moltissima filosofia antica occidentale – si tratta della filosofia che Philippe Hadot ha definito un esercizio spirituale. Per farti un esempio, uno dei miei modelli è il Boezio della De consolatione philosophiae, un’opera in cui l’autore si rivolge alla filosofia per ottenere consiglio e conforto. È qualcosa che chiedo anch’io alla filosofia, anche se spesso la risposta “la prende larga” e parte da intuizioni e riflessioni metafisiche che si interrogano sulla natura dell’esistenza.

C’è un passaggio che mi ha colpito, ed è questo : “Il nostro linguaggio, compreso quello logico e matematico, è un dispositivo che finora ha funzionato spaventosamente bene, ma questo non ci garantisce l’eterna e onnipervasiva validità degli assiomi su cui si basa la nostra logica: è solo la loro ovvietà a farli apparire incrollabili, ma questa ovvietà è indissolubilmente legata a chi la considera tale e al fatto che credere in essi ci mantiene in vita – ma vivo non significa vero”. Vivo non significa vero: gli esseri umani sono disposti a credere a una piccola porzione di verità senza neanche averla pensata l’interezza di una verità, pur di non annegare nell’indeterminatezza?

La parte di cui parli ruota attorno uno dei concetti a cui tengo di più e che in futuro vorrei espandere, ovvero il fatto che la vita è il confine della nostra indagine sul mondo. Qualunque strumento o criterio si scelga di adottare per indagare o segnalare ciò che è vero e reale, infatti, si scontra prima o poi con questo muro. Possiamo dire che è vero ciò che è riproducibile sperimentalmente, o ciò che ha un effetto su di noi e le cose del mondo. Possiamo dire, con William James, che «è reale qualsiasi cosa si sia obbligati a prendere in considerazione in un caso qualsiasi». Oppure possiamo considerare vero quel che percepiamo e che chiunque percepisce allo stesso modo, quel che ci consente di fare previsioni sugli eventi futuri, che sentiamo più vero, che crediamo senza ombra di dubbio, che ci viene rivelato da una divinità o in un’intuizione mistica… i criteri sono moltissimi, hanno pregi, difetti e soprattutto limiti.

Se mi interrogo su quale criterio sia preferibile adottare, finisco comunque per confrontarmi con questi o altri modelli. Posso trovare motivazioni persuasive, ma di fatto la scelta è sempre arbitraria, perché è legata a un determinato scopo, credenza o preferenza. Un vecchio aneddoto vuole che Samuel Johnson volle confutare l’idealismo di Berkeley colpendo una pietra con il piede e dicendo: «No, signore, io la confuto in questo modo!». Per quanto originale, questa critica rischia di essere controproducente, perché di fatto Johnson non dimostra, come vorrebbe, la realtà della materia, ma solo che una sua caratteristica (poniamo la durezza) ci si impone. Colpisco la pietra con un piede, o la scanso qualora mi venga scagliata addosso, perché altrimenti soffro – ma questo non mi informa sulla realtà della pietra al di là delle sue innegabili apparenze, mi dice solo con certezza che questa ha un certo effetto su di me e altre cose del mondo. I criteri con cui giudico la realtà, come dicevo prima, sono arbitrari e in parte assiomatici; eppure alcuni di essi ci sono preclusi. Non ho accesso, ad esempio, a criteri di verità che implicano la mia scomparsa. Non posso applicare dei criteri letali, o, per meglio dire, posso ma poi scompaio. Nell’esempio precedente, Berkeley può negare la realtà della pietra di Johnson anche se questo la usa per colpirlo alla testa fino a ucciderlo – sebbene dopo non possa difendere la propria teoria.

Così come posso definire reale «qualsiasi cosa si sia obbligati a prendere in considerazione in un caso qualsiasi», posso dire che è reale ciò a cui ho accesso solo da morto, o ciò che non posso percepire in alcun modo. Può sembrare una stupidaggine ma a mio parere evidenzia come diamo per scontato che sia vero quel che in qualche modo ci interessa, che è importante per noi. È un’opinione che si autodistrugge, perché in questo modo non sto evidenziando ciò che è parte del mondo al di là di quel che penso di esso, ma solo ciò che posso percepire, che mi interessa, che per me ha qualche funzione. Il criterio di verità più persuasivo tra i tanti che attuiamo credo sia il dolore, per il semplice fatto che cerchiamo di evitarlo in ogni modo. Un ferro rovente sarà preso da chiunque in seria considerazione. Ma ancora una volta non ci parla della realtà, ma di cosa ci interessa in quanto forme di vita. Il vero oltre la morte è inaccessibile per definizione, almeno in finché viviamo: è un criterio-limite. Siamo prigionieri della vita.

L’assurdità dell’esistenza è un approdo uno e trino all’interno del tuo libro: esiste qualcosa – esiste qualcosa solo se esiste qualcos’altro – ogni relazione è una differenza.
Quest’ultimo punto è particolarmente interessante perché la differenza crea una riconoscibilità, un’esistenza e un’identità, di tutto e di nulla: ma in termini quotidiani (e più fisici che mentali), che ruolo hanno l’ego, la vanità, il vizio, l’umore in quest’ottica?

Credo che ci definiamo sempre attraverso ciò che non siamo e lo stesso accade per ogni oggetto individuabile, ogni cosa ha il resto del mondo come calco. In termini quotidiani ego, vanità, vizio, umore, desiderio, percezioni e via dicendo sono i mezzi attraverso cui esprimiamo il nostro giudizio su ciò che siamo e non siamo, vogliamo o non vogliamo. In alcuni casi possiamo annullare o modificare questi mezzi, come ad esempio certe credenze culturali che abbiamo assimilato con l’educazione: cambiare idea è spesso difficile, ma non impossibile. A volte invece questi mezzi sono un cielo fisso, come nel caso di alcuni desideri o avversioni. Sono i criteri-limite di cui parlavo prima, sebbene anche questi muri prima o poi si sgretoleranno.

Come nascono le suggestive illustrazioni presenti all’interno del libro? Illustrazioni che io stessa ho colorato e modificato fra una riflessione e l’altra: sono così ricche di vuoti e pieni che sembrano suggerire proprio un’interazione; d’altra parte tutto si trasforma…
Il libro non è più uguale a se stesso ora.

Non avevo pensato alla possibilità di una fruizione così interattiva col libro! Ora sono curioso di vedere il risultato. Le illustrazioni presenti nel libro sono una mescolanza tra assemblaggi di opere già esistenti (libere dal copyright) e mie integrazioni, e sono state sviluppate dopo delle sessioni di meditazione. Da questo punto di vista si tratta di una proiezione visiva del processo di costruzione e decostruzione di senso che avviene durante la meditazione e che mi ha accompagnato nella stesura del libro. Ne sono, in un certo senso, la versione visiva.

Illustrazione colorata

Al termine di questa lettura, permane in me un pensiero: che l’esistenza sia assurda e che questo aspetto non sia necessariamente un disastro è accettabile, però siamo esseri limitati, la nostra natura è limitata, soprattutto nello spazio fisico e temporale che occupiamo, eppure la mente dilata queste percezioni, crea, immagina, proietta ipotesi, oppure – nei casi peggiori – le oscura tutte, perdendosi.
Il pensiero, poi, è l’unico strumento (termine che non amo, ma che userò comunque) che diventa possibilità concreta, perfino nei confronti della morte…
D’altra parte l’atto stesso della scrittura è un modo per sopravvivere a noi stessi.

Alcuni confini li possiamo valicare, seppur tracciandone altri. Spesso possiamo anche decidere di tornare indietro, qualora la nuova meta sia dolorosa. Altri invece non possiamo superarli, se non mutando a tal punto da non risultare più umani – o vivi. La scrittura, come molti altri strumenti, sgretola e ricostruisce il senso, è uno specchio delle nostre possibilità e dei nostri limiti. Al di là di essa c’è una conoscenza silenziosa.

A cura di Giulia Bocchio


Francesco D’Isa (Firenze, 1980), non è solo il direttore editoriale de L’Indiscreto, ma un raffinato filosofo e un artista visivo. Ha esposto in gallerie e centri d’arte contemporanea. Dopo l’esordio con la graphic novel I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato saggi e romanzi per Hoepli, Effequ, Tunué e Newton Compton. Il suo ultimo saggio è contenuto in Trilogia della Catastrofe (Effequ, 2020) mentre il suo ultimo romanzo è La Stanza di Therese (Tunué, 2017). Scrive e disegna per varie riviste.

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