
L’Ultima Notte
Una luna densa svettava su via delle Belle Arti. Un boato riecheggiò sotto i portici, di fianco a una scritta sul muro che recitava Merola ti veniamo a prendere!, si abbassò d’istinto, come per schivare un proiettile invisibile, e quando rialzò gli occhi verso l’alto non c’era più nessuno: Era lei!, ne sono sicuro, sono venuti a prendermi con la forza, useranno ogni mezzo necessario come Malcolm X, mi devo nascondere…
Le luci dei lampioni orientavano i suoi passi sincopati verso una meta indefinita, mentre un mendicante tracannava vino dal suo cartoccio logoro e accennava qualche suono inarticolato per farsi notare: Ecco, a costo di vivere per strada, di alcolizzarmi bevendo vino da cucina nei cartoni, di quelli da un euro e cinquanta che trovi nei discount, non me ne vado neanche se mobilitassero l’intero corpo delle forze armate, qui è dove voglio stare: il principio e la fine di tutte le cose! – disse – stringendo forte una Peroni da sessantasei ghiacciata, e lasciandola penzoloni in parallelo con i jeans neri stropicciati e macchiati di salsa allo yogurt. Dove sono? È via Centotrecento? Ci lavorava Jamil, il palestinese che aveva il miglior ristorante di cucina araba di Bologna. I falafel che faceva erano unici, così come le foglie di vite, l’hummus: magia. Mangiare con il faccione di Arafat rovesciato che ti fissa sullo sfondo bianco rosso verde nero della bandiera? Impagabile. Se fossi rimasto a Lunamatrona non sarebbe stata la stessa cosa: qui c’è una vita culturale. Ogni volta che attraverso Piazza Verdi mi sembra di essere a Woodstock, e mi sento vivo. Ah, ma cosa stavo dicendo? Giusto: mia madre. Sì, è venuta a cercarmi, mi vuole costringere a rientrare a casa. Dovrei accollarmi il peso della famiglia, andare a lavorare nell’attività di mio padre, non finire gli studi, e miei sogni? Le mie aspirazioni? Chi mi ridarà quello che mi è stato tolto? A me della società non frega un cazzo, come Kieślowski. Non riesco nemmeno a immaginare cosa significherebbe per me non vedere più Piazza Maggiore, la Cineteca e le sue rassegne con il mega schermo in Piazza Maggiore, il Nettuno sullo sfondo, e tutti i classici restaurati… è venuto pure Refn da poco, ma ci rendiamo conto? Chi viene, invece, a Lunamatrona? E poi i negozi di dischi, i centri sociali come l’XM24, via Mascarella: quante serate abbiamo trascorso lì? Abbiamo bevuto sino a piangere, con gli occhi lucidi come albumi d’uovo, e a quante presentazioni abbiamo assistito da Modo Info Shop? Uno che non è nato in un paesino di merda non può capire cosa si prova arrivando in una città come questa, basta farsi un giro in Salaborse e sembrerà di stare in un quadro di Escher, con le scale che si sovrappongono e i piani inferiori come un sottomondo che si dischiude verso gli scaffali aperti, e poi i concerti che abbiamo fatto, ancora mi fischiano le orecchie dall’ultimo live al Locomotiv, no! Non mi avranno mai. Voglio diventare uno scrittore, il migliore che questo paese abbia mai avuto, devo riscrivere Petrolio e ambientarlo a Bologna, tra tossici e politici che tramano nell’oscurità per rovesciare l’ordine: ho tutti i mezzi per mettere in atto la mia cospirazione, e la mia vendetta verso le istituzioni calerà implacabile perché sono il vendicatore dei diseredati, sono l’ultimo poeta vivente, mi puoi trovare all’angolo che caccio rime come erba e coca dalle buste, spaccio letteratura al bivio dove i sentieri si biforcano, sono l’ultimo genio rimasto prima che la scintilla scocchi inesorabile la sua ultima ora, tra volti cadenti come maschere, identità interscambiabili, cessi viventi le cui opere sono incise sopra le pareti (dove puoi decifrare ancora la Verità: perché l’ho sempre letta sopra i muri); mendicante sul filo del rasoio dell’imperscrutabile, il Re di una pletora di sonnambuli e marciamo, marciamo lentamente nella densa notte oscura, trainando il carro della morte con al seguito casse di birra infinita, vodka essenziale per i nostri poemi ferroviari del futuro; cacceremo l’ultimo imperatore dal tempio e restaureremo la città celeste in terra, tra singhiozzi trattenuti e respiri strazianti, bruceremo i libri contabili, le teche dei musei rimasti: vetrine del nulla che la Storia ci ha lasciato, per sopperire alla mancanza di senso del tutto! – disse – accasciandosi sul muro e chiudendo gli occhi, mentre un faro di luce, attinto da chissà quale recondita regione della mente, abbagliò i suoi pensieri sfumandone i contorni.
E le categorie di spazio e tempo non esisteranno più! Saremo liberi di muoverci tra università e teatri senza pagare il conto, padroni di tutto perché avremo estinto ogni cosa prima di occuparla, reinventando la trama del destino e il suo codice non scritto, l’anima si manifesterà in un rave sotterraneo, tra rituali di epoche sepolte, danzeremo sulle macerie della civiltà ubriachi da settimane, anzi, da mesi, privati di ogni orientamento del sé, claudicanti nel mare di niente che i Padri ci hanno lasciato in eredità! – disse – aumentando il tono di voce, mentre da una finestra aperta qualcuno sorvegliava la scena, e proprio in quel momento, una pattuglia con le sirene accese, diretti verso chissà quale caserma, gli passava accanto: Questa notte non mi avrà, sono ancora in piedi, anche se ho la vista annebbiata, forse è soltanto lo specchio delle mie aspirazioni: essere arrestato per essere ricordato. Sì, è tutto qui.
Di Omar Suboh