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Considera David Foster Wallace (a cura di Giulia Bocchio)

Alzi la mano chi ha letto Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta e ha poi pensato “accidenti, quel pianeta è più affollato di quanto uno non creda, forse ci sono stato”. Chi l’ha letto capirà perfettamente questo riferimento. Chi non ha alzato la mano legga quanto segue.
Di David Foster Wallace non bisogna fidarsi, bisogna piuttosto af-fidarsi e, vista la portata di questo immenso autore, la differenza è notevole.
Per scomodare i classici si potrebbe dire che la sua lucidità e il suo acume somiglino a un Émile Zola con la potenza di Dante e tutto il disperato virtuosismo di Paganini. Ma c’è dell’altro nelle opere di Wallace, vale a dire tutto: c’è David Letterman, gli anni Novanta, la pubblicità, le droghe, la cultura americana, la depressione, il rap, la tristezza, l’ironia tagliente, la comicità grottesca, la poesia, la metafora, l’avant-pop e c’è persino Wittgenstein, la trigonometria, le scuole di scrittura, il tennis, il porno, le elezioni, le aragoste e tutto quello che chiunque ha sperimentato almeno una volta nella vita.
E non si tratta dei grandi sentimenti universali di sempre, certo ci sono anche quelli, ma in Wallace c’è soprattutto il dettaglio, quel maledetto dettaglio, quello che fa sempre la differenza, quel dettaglio con il quale fare i conti; c’è la sfumatura, c’è quella crepa che racconta alla perfezione una ferita senza aver bisogno di citare il sangue. Tanto sappiamo tutti cos’è una ferita.
Wallace piuttosto ti racconta l’arma, di come spesso è impossibile difendersi, o di quanto difendersi non sia poi proprio la soluzione, può sempre servire una ferita: per ridere, per recriminare qualcosa, per dare la colpa a qualcuno. A te stesso per esempio.
Ma, attenzione, non c’è nulla di triste in tutto questo, David Foster Wallace ha scritto libri che conservano un sarcasmo e un’ironia che sa di meraviglia e ha scritto storie che hanno fatto i conti con la realtà reale e con l’importanza della parola, della lingua in una maniera che ha cambiato per sempre la letteratura americana degli ultimi decenni.
Geniale, depresso, rivoluzionario, contorto e poliedrico, le sue sono frasi lunghe una pagina, note elefantiache, termini complessi, padronanza assoluta di un lessico che deve molto alla filosofia ( e a cosa se no, direbbe Seneca ) perché, l’autore in questione, nato a Ithaca, NY, nel 1962, cominciò più o meno da lì, con una laurea in letteratura inglese e filosofia appunto, con una tesi complicatissima che proponeva una soluzione al problema del rapporto fra semantica e modalità fisiche legate al tempo, alla logica-matematica ecc…
Era il 1985, la mente già illuminata da una visione ma anche offuscata da un certo tormento, che chiameremo depressione, che gli fece rifiutare l’opportunità di studiare ad Harvard e lo invogliò piuttosto a raggiungere l’Università dell’Arizona, c’era in gioco un corso di scrittura creativa, che peraltro pochi anni dopo insegnò lui stesso, ma a suo modo: «Ho sempre paura di sembrare pretenzioso».[1]
Eppure nei suoi libri qualcosa di pretenzioso c’è, ma quando sensibilità, creatività e talento danno origine a una lettura prodigiosa e irresistibile del presente, è un aspetto che non pesa, è accettabile, è un patto con l’autore. Ci vuole un certo sforzo, ma la volontà, con Wallace, paga.
Paga leggere i saggi contenuti nel volume Considera l’aragosta, dove le esilaranti riflessioni sull’industria del porno e dei più o meno legittimi premi elargiti ai registi lasciano spazio all’11 settembre 2001, di come è facile essere magari al supermercato mentre la storia sta cambiando e mentre questa cambiava tu sceglievi tonno in scatola in offerta: è questo che racconterai ai tuoi nipoti un giorno?
E mentre provi a rispondere ecco che il gigante americano ti accompagna nel Maine, alla fiera dell’astice, affollatissima, tutta una testa di gente in coda al gran buffet, che indossa cappellini a tema e si dimentica come quell’astice, che pochi sanno davvero pulire e che si incastra fra i denti, muore.
In quel pentolone bollente, dove il crostaceo viene gettato vivo, ci finiamo anche noi, fra una risata e l’altra, grazie a quelle spassosissime pagine, ma poi una volta terminata la lettura ecco arrivare un senso d’orrore e smarrimento: considera che l’astice sei tu, perché in preda all’affanno, alle mode, al consumismo esasperato e al tristissimo presenzialismo più o meno mondano non hai notato che sei parte di quel sistema e di quel metaforico pentolone.
Paga ancora di più un racconto lungo che ha una precisa destinazione ma, non si sa come, non va da nessuna parte, o meglio, sai che non andrà da nessuna parte: Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso, opera fondamentale per conoscere Wallace, che fa di McDonald’s un simbolo e uno strumento per analizzare in maniera surreale l’autoreferenzialità della società consumistica americana, e questo racconto vale più d’un manuale di sociologia (con buona pace di due tipi come T. Parsons e R. Merton) pur rimanendo un raffinatissimo esempio di scrittura tanto cerebrale quanto postmoderna: è metafiction che sconfessa la metafiction stessa. 
Certo Wallace è denso, caotico, è complesso (mai complicato però), è il virtuoso per eccellenza ma senza spocchia, è così per necessità ecco perché è un grande narratore. Ecco perché Infinite Jest esiste: è un fatto di necessità. 
Ora, qualcuno potrebbe obiettare la necessità di adoperare una mole di note che sono a loro volta note di altre note a piè di pagina in un lavoro complessivo che supera le mille, di pagine. Sì, è necessario, perché la letteratura è fatta di strutture che possono cambiare, c’è dell’isteria in questo, del genio certamente, ma per rivoluzionare un sistema va considerato anche questo approccio. Ci vuole pazienza, ma non la pretendiamo tutti?
Ad ogni modo, romanzi enciclopedici a parte, ci sono poi due raccolte di racconti difficili da abbandonare: La ragazza dai capelli strani e Questa è l’acqua. Entrambe commoventi, entrambe piene di trovate assurde, di macchie, di ombre, di consigli non richiesti ma che solo un vero amico ti potrebbe fornire. Chiudi queste due letture e non puoi che dire Grazie, non senza una certa inquietudine.
Leggere Brevi interviste con uomini schifosi è invece più o meno l’opposto, ma Wallace è così. E se nel frattempo questo autore è diventato un amico, difficili e inquietanti saranno gli otto racconti contenuti in Oblio, qualcosa di fatale emerge, scompare e riappare fra quelle righe di sovrumane descrizioni, composte con lucidissima incoscienza e un vero senso letterale di oblio, al quale si accompagna la cruda realtà dei fatti: il suicidio di Wallace, avvenuto il 12 settembre 2008.
E con questo definitivo atto cala il sipario su tutte quelle cose divertenti che non leggeremo mai più, parafrasando un suo stesso saggio. 
David Foster Wallace è da considerarsi un classico, fondamentale come Platone, come Dante, come Michelangelo, come Hugo, fondamentale come lo sono le necessità che si danno per scontate, fondamentale come la sincerità, le sottigliezze, le noie e il sudore. Wallace è la maniera obliqua per addentrarsi nell’ovvio, quando tutti cercano di fuggirlo, Wallace è la versione spietata e geniale di una potenziale gamma infinita di pensieri ove al centro di essi c’è sempre l’essere umano, nella sua complessità, nella sua spoglia -quasi ridicola- essenzialità.
E se qualcuno non sarà d’accordo: «Digli che nelle maschere degli uomini non ci sono buchi dove infilare le dita. Digli di come si potrebbe mai anche solo sperare di amare qualcosa su cui non si può far presa».[2]

Giulia Bocchio


1 David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine interviste e conversazioni, a cura di Stephen J.Burn, Minimum Fax, 2018.
2 David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani, Minimum Fax, 2014.

2 risposte a “Considera David Foster Wallace (a cura di Giulia Bocchio)”

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