Stavamo tutti in piedi, la stanza è strettissima a viverla,
un quadrato concentrato e da lì pentolame, cose sciatte a scriverle
noi impazziti nell’attesa, le mani come uncini.
Bisogna premurarsi di aprire entrambe le finestre,
lasciare passare il poco spazio che ci separa,
la tua fame d’aria.
La piazzola è nerissima, fa schifo, c’è puzza di piscio e due ragazzi si sbaciucchiano.
Da lì, è un passarmi accanto di schiena, fa un freddo: cazzo, che freddo!
Mi faccio corpuscolo nella giacca leggera.
Accanto, a metà tra le case, c’è un bar squadrato, squallido,
eppure, si dice “M. è un ragazzone simpatico”.
Invece no. È uno burbero che dice porcate.
Quando poi c’è stato quel pranzo non hai fatto altro che sbirciare.
Occhi come boe impazzite, catrame appiccicaticcio e anche le parole,
posticce, pasticciate, aneddoti che non fanno più ridere,
potresti ricordare le onde e le chiese ragusane, invece ci dici:
Non avevo le forchette e mangiavo tutto col cucchiaio.
Sarebbe tutto più molle in silenzio
e tu conosci l’insegnamento: “dire pochissimo, ascoltare bene”.
Qualche segnale era certo presente,
altri calcati, disegni eseguiti con una mano pesantissima.
I messaggi ascoltati a massimo volume, alcuni graffietti insignificanti,
dinamiche da paese che ti appartengono.
Poi prove di forza o dimostrazioni lineari.
Mi sveglio dal sonno, non è più un seguitare confuso di rumori,
è il farsi trasparente, rendersi corpo che guarda un corpo che dorme
o almeno ci prova.
Sarebbe stato più semplice, qualche discorso d’anticipazione e il dissiparsi.
Invece, è un tirarsi le pellicine, boccheggiare.
Dovevo farmi amo per tirarti un’altra volta,
divento ramo.
A terra è un altro pavimento, ora che hai capito.
Con le dita tamburello e siamo di nuovo in quei balconi di Palermo,
ma è uno sbattere di fogli e un drin di campanella
che mi ricordano che la notte è uno sfondo
e che il rammendo è sempre di numero pari.
Aggrottata, poi girovaga, varia.
Si dice “scumparisti!” e invece sei solo dimagrita.