Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.
Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato.
Non è difficile la formula del mondo.
È questo cielo, un po’ di vino,
il tuo nome che si apre quando dico
le tue vene la mia eredità:
poi più niente.
I poeti non sanno morire:
se hanno un fiore lo conficcano
in un rosario di organi marci; lo schiudono
giocando col gambo come si gioca
da bambini in inverno da soli.
I bambini giocano a intrecciare
le storie dei morti: hanno mille
voci in una sola lingua.
Conoscono la linea tra il mondo
e la sua conclusione; intuiscono
che le cose non durano e bisogna
piangere per tutto e per tutto
strillare, agitarsi, poi ridere.
Ci sembrava rimanesse solamente
una parola impronunciabile per dire
il fremito, l’angoscia, oppure i giorni
che giravano e tremando sostenevano
questa stagione sconosciuta in ogni casa.
© Mattia Tarantino, L’età dell’uva, Giulio Perrone Editore 2021
Una replica a “Mattia Tarantino, Poesie da “L’età dell’uva””
Conoscere l’inconoscibile attraverso una lingua aperta, libera, senza la finitudine imposta dalla grammatica, carpire il linguaggio dell’infanzia, l’unico che si avvicina alla lingua dei poeti, dei salti pindarici.
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