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Heinrich Heine, Germania, una fiaba d’inverno (cura e traduzione di Nino Muzzi)

Heinrich Heine
Germania, una fiaba d’inverno
(come una lunga traccia di sangue)

L’umore «ha per sua essenza la con­traddizione: onde quel fare e disfare, quel dire e disdire, quel distruggere con l’una mano, ciò che si edifica con l’altra. Tale è il senso profondo di questa forma; e, se gli angusti confini di un’appendice mel consentissero, mostrerei quanta intelligenza e ordi­ne e misura è nell’apparente spensie­ratezza di Heine, e di che sangue gronda il suo riso. Ma il lettore può già immaginare quante qualità si richieggano per giungere a queste al­tezze, spesso, opposte: l’ironia, il sar­casmo, la caricatura, congiunte con tutte le gradazioni del patetico, le più strane bizzarrie di una inferma im­maginazione, congiunte con le più ri­poste profondità dell’intelligenza.»
Così scriveva De Sanctis nel 1856, quando la fama di Heinrich Heine era molto viva in Europa e l’Italia gli fa­ceva omaggio di molte traduzioni. Il maneggio dell’ironia, del sarcasmo, il piglio epigrammatico che lo caratte­rizzava apre uno spiraglio sul roman­ticismo rivoluzionario, e l’ironia compare allora come arma di critica sociale. D’altronde c’è ben un motivo se Baudelaire amava il pittore Constantin Guys, pur elogiando dovero­samente Delacroix. È l’ironia la vena segreta di chi vide spegnersi gli ardo­ri e le speranze rivoluzionarie dell’Ottocento europeo.

Doch als die schwarz-roth-goldne Fahn,
Der alt germanische Plunder,
Aufs Neu’ erschien, da schwand mein Wahn
Und die süßen Mährchenwunder.

Riapparso il vessillo giallo-nero-rosso,
vecchio saccheggiatore tedesco,
scomparve la mia illusione e con essa
l’amabile miraggio fiabesco. (trad. Nino Muzzi, qui e oltre se non diversamente indicato)

A questa vena si aggiunge il dolore che in Heine ebbe anche gli effetti fisici che conosciamo e che lo videro sprofondare in quella Matratzengruft che era divenuto il suo letto di ospe­dale da cui, sempre vignettizzando, descriveva quelle figurine storiche che popolano il suo Romanzero. Ma il poemetto Deutschland, ein Wintermärchen s’inscrive ancora nel cerchio della speranza, la speranza rivoluzionaria che apre scenari fiabeschi e dà al Poeta la forza di Anteo, perché – e qui si apre l’altra feconda ambiguità – quell’odiata bandiera tedesca sventola su una terra amata dal Poeta, amata e rifuggita e di nuovo desiderata:

Und als ich die deutsche Sprache vernahm,
Da ward mir seltsam zumute;
Ich meinte nicht anders, als ob das Herz
Recht angenehm verblute.

E quando udii la lingua tedesca,
ebbi una sensazione sorprendente;
mi parve che il mio cuore si mettesse
a sanguinare proprio allegramente. 

Il buon vecchio Carducci, che traduce in prosa, mi ha suggerito il verbo e l’avverbio: «E quando intesi parlar tedesco, qualcosa di strano avvenne nell’animo mio; come se il cuore si fosse messo a sanguinare allegramente» (Carducci, Opere, vol. X, Zanichelli, Bologna). Il suo giudizio sul poemetto lo ricaviamo da queste parole: «I grandi critici e i piccoli poeti di parte moderata, quelli intendo che adesso tengono il méstolo, almeno fin che non sarà strappato loro dalle mani e rotto su le corna, s’industriano d’ogni loro arte a mostrarci di Heine solo il primo quarto di luna romantico, e fanno un tal guazzetto di capelli biondi e d’ occhi azzurri e di fior di memoria da risentirsene pur della vista gli stomachi invalidi. Ma il vero è che a suo tempo e in certi casi la musa heiniana apparve rossa e affocata come luna che sorga all’orizzonte in una sera d’agosto» (Ibidem).
E dopo aver citato il primo caput del poema in traduzione sua fatta di prosa lirica così continua: «Questa è, se non m’inganno, la sveglia allegramente e fieramente intonata della rivoluzione non pur politica, ma sociale; ed è il primo capitolo o canto d’un poema, Deutschland Ein Wintermärchen (Germania, canto d’inverno) che Arrigo Heine scrisse in Parigi nel gennaio del 1844, di ritorno da un viaggio, dopo 15 anni d’esilio francese, in patria» (Ibidem).Quindi bisognava anche allora com­battere contro una critica dolciastra e accademica per sottrarre il poeta renano agli artigli del lirismo puro e socialmente disimpegnato. Wolf Biermann nella Germania negli anni ’70 del secolo scorso aveva fatto di Heine il suo cantore preferito e l’aveva attualizzato addirittura inserendo­lo nella prospettiva socialista della Germania Est. Il senso era quello di interpretare i versi di Heine:

Wir wollen hier auf Erden schon
Das Himmelreich errichten.
Wir wollen auf Erden glücklich sein,
Und wollen nicht mehr darben;
Verschlemmen soll nicht der faule Bauch,
Was fleißige Hände erwarben.

È già in terra che vogliamo erigere
il regno dei cieli. Vogliamo che sia
felice la terra e non che peni;
la pancia pigra non deve divorare
ciò che produssero industriose mani.

Come un sogno irrealizzabile, in quanto il paradiso in terra doveva re­stare un sogno, una promessa, per­ché la sua messa in pratica sa­rebbe stata sempre deludente. Ma non si accorgeva che di deludente c’era solo il socialismo della DDR e che quel socialismo era ben lungi dall’assomigliare a quello sperato da Heine.
E anche questa attualizzazione del Nostro in qualche modo è da respin­gere, perché Heine non fu un canto­re del sogno irrealizzabile, e la sua battaglia contro il prussianesimo ha mosso all’azione anche altri cuori, se è vero che Heine se lo portavano in tasca anche i combattenti della Rivo­luzione tedesca del 1919 e via via fino a oggi passando dalla resistenza al nazifascismo.
In Italia, malgrado le raccomanda­zioni di Carducci, Heine passa per un intellettuale salottiero, un ebreuccio errante e senza patria. E invece è un poeta robusto, come si diceva un tempo, e la sua forza sta proprio nel suo riso che “sangue gronda”. Lo di­ceva anche Cantù nel 1837: «uno de’ più caldi scrittori e patrioti, rac­conta i suoi viaggi con uno spirito robustissimo, e qualora dardeggia i pregiudizi di grado, gli abusi della tirannia, le pre­tensioni de’ pedanti, fa sangue».
Quindi troviamo sempre in lui la pre­senza del sangue, che potrebbe rap­presentare anche un filo rosso per una ricerca interna alla sua poesia che qui non è il caso d’intraprendere.1
È invece il caso di dare un’occhiata a come Heine sia stato trattato in italiano. E qui corre l’obbligo di pre­sentare un personaggio, Tullo Massarani, che, prima nel 1857 su rivista e in seguito nel 1874 a mezzo stampa, trattò di letteratura tedesca occupan­dosi anche di Heine con una disami­na, che possiamo definire accurata, delle sue opere. A Germania, una fiaba d’inverno dedicò alcune pagine riassuntive con brani di traduzione di suo pugno che dimostrano al lettore di oggi co­me le formule poetiche della tradi­zione letteraria italiana trovassero difficoltà a interpretare Heine, in quanto o troppo leggere e garrule nei toni ironici o troppo pesanti e retori­che nei registri gravi.
Garrule e spensierate come le se­guenti:

Stolti che anfanano a rovistare
Dentro al fardello?
Il contrabbando, che s’ha a trovare,
L’ho nel cervello.

Ihr Toren, die ihr im Koffer sucht!
Hier werdet ihr nichts entdecken!
Die Konterbande, die mit mir reist,
Die hab ich im Kopfe stecken.

Poveri pazzi a cercar nel baule!
Voi lì non troverete niente!
Quella merce di frodo, con la quale viaggio,
l’ho nascosta nella mente. (trad. N. Muzzi)

Il pelliccione ch’uso affibbiarmi
Per riscaldarmi,
Lupi, credetelo, non m’ha portato
A rinnegato.
Non sono pecora, non sono cane,
Né scannapane:
Lupo nell’anima, di lupo intenti
Arroto i denti.

Der Schafpelz, den ich umgehängt
Zuweilen, um mich zu wärmen,
Glaubt mir’s, er brachte mich nie dahin,
Für das Glück der Schafe zu schwärmen.
Ich bin kein Schaf, ich bin kein Hund,
Kein Hofrat und kein Schellfisch –
Ich bin ein Wolf geblieben, mein Herz
Und meine Zähne sind wölfisch.

Da questo lercio cavalierume,
Screzio di gotico e modernume,
Miscela incondita, che non riesce
Carne né pesce.

Von jenem Kamaschenrittertum,
Das ekelhaft ein Gemisch ist
Von gotischem Wahn und modernem Lug,
Das weder Fleisch noch Fisch ist.

Quella pelle d’agnello che ogni tanto mi misi addosso per un po’ di calore,
credetemi che mai mi spinse al punto d’invidiare la gioia delle pecore.
Non sono pecora e non sono cane, non son né cortigiano, né burocrate –
Sono rimasto un lupo, le mie zanne e il mio cuore son di quel quadrupede. (trad. N. Muzzi)

quella stivalata cavalleria
impasto vieto che insieme unisce
follia gotica e moderna bugia,
che non è poi né carne né pesce. (trad. N. Muzzi)

Gravi e melodrammatiche come le seguenti:

Voleva pianger là dove già pria
Piansi, e di spine coronai le chiome
Amor di patria, o m’ inganno, ha nome
Questa follia.
Non però ne favello, e nel profondo
Petto reprimo la fatal ferita:
Fuor dal casto dolor della mia vita
Rèlego il mondo.
Non io col gramo tristanzuol mi dico,
Che per tentar dell’anime la chiostra
Reca la piaga sanguinosa in mostra,
Bruto mendico.

Ich wollte weinen, wo ich einst
Geweint die bittersten Tränen –
Ich glaube, Vaterlandsliebe nennt
Man dieses törichte Sehnen.
Ich spreche nicht gern davon; es ist
Nur eine Krankheit im Grunde.
Verschämten Gemütes, verberge ich stets
Dem Publiko meine Wunde.
Fatal ist mir das Lumpenpack,
Das, um die Herzen zu rühren,
Den Patriotismus trägt zur Schau
Mit allen seinen Geschwüren

Volevo piangere dove un tempo versai le mie lacrime, quelle più amare –
Credo si chiami amor di patria ormai tutta questa nostalgia singolare.
Io non ne parlo volentieri; ha l’aspetto in fondo in fondo di una malattia.
Sempre con animo pudico ho sottratto agli occhi del mondo la ferita mia.
È quella gentaglia che mi fa morire, quella che per commuovere la gente
fa sfoggio del suo patriottico amore con tutte quante le ferite aperte. (trad. N. Muzzi)

Ci voleva un altro piglio per tradurre Heine, oppure, diciamolo, un’altra modestia, nel senso di una maggiore fedeltà all’originale e di aderenza allo stile dell’autore. Bisognava indagare quale lingua poetica poteva tradurre i suoi versi. Si poteva pensare a Foscolo, ma non c’era l’ironia del Nostro, né Manzoni poeta, né tantomeno Leopardi facevano al caso. Ci voleva l’ironia sanguinante, e infatti lo stesso Carducci non si sentì in ve­na di tradurre Deutschland se non in prosa poetica, scegliendo i capitoli storico-politici. Eccone un esempio:

Ella cantava la vecchia canzone della ri­nunzia al mondo, la ninna nanna del pa­radiso, con la quale suolsi addormenta­re, quando frigna, il bamboccio popolo. Io so quell’ aria, so quelle parole, cono­sco anche gli autori; e so che in casa trincano il vino e in piazza predican l’acqua. Una nuova canzone, una migliore canzo­ne io vi voglio, o amici, cantare: noi vogliam cominciare a fondar qui su la terra il regno del cielo

Cantava il vecchio canto di rinuncia,
il canto di culla del cielo,
che fa addormentare, quando piange,
il popolo, il grande bricconcello.
Conosco la melodia, conosco il testo,
conosco pure i signori autori;
so che bevevan vino di nascosto
e predicavano acqua di fuori.
Un nuovo canto, un canto migliore,
o amici, vi offro in poesia!
È sulla terra che già vogliamo erigere
il regno dei cieli. […] (trad. N. Muzzi)

Heine ebbe nel suo secolo, assieme a tanti altri autori tedeschi, il destino di venir tradotto in italiano attraver­so le traduzioni in francese. Così fe­ce Ippolito Nievo, passando attra­verso la traduzione di Gérard de Nerval. E qui si mostra tutto il suo talento nel passare da una prosa in francese a dei versi in Italiano:

Ce fut dans le triste mois de novembre — quand les jours sombríssent, quand le vent effeuille les arbres, que je partis pour l’Allemagne.
Et lorsque j’arrivai à la frontière, je sen­tis dans ma poltrine s’accélérer le batte­ment de mon coeur; je crois même que mes yeux commençaient à s’humecter. Et lorsque j’entendis parler la langue al­lemande, je ressentis une étrange émo­tion. C’était tout simplement comme si mon coeur s’était mis à saigner de char­mante façon.
Une petite fille chantait sur une harpe ; elle chantait avec une voix fausse et un sentiment vrai ; mais cependant la musi­que m’émut.
Elle chantait l’amour et les peines d’amour, l’abnégation et le bonheur de se revoir là-haut dans un monde meilleur, où tout douleur s’évanouit.
Elle chantait cette terrestre vallée de lar­mes, nos joies qui s’écoulent dans le né­ant comme un torrent, et cette patrie po­sthume où l’âme nage transfigurée au mi­lieu de délices éternelles.
Elle chantait la vieille chanson des renon­cements, ce dodo des cieux avec lequel on endort, quand il pleure, le peuple, ce grand mioche.
Je connais l’air, je connais la chanson, et j’en connais aussi messíeurs les auteurs. Je sais qu’ils boivent en secret le vin, qu’en public ils prêchent l’eau.

Era, quand’io partii per l’Alemagna.
E il suo confine per toccar soltanto
Il cor si mise a battere frequente;
E agli occhi credo mi venisse il pianto.
Ed udendo il parlar della mia gente
Un non so che provai, come se appunto
Mi si svenasse il cor soavemente.
L’arpa d’una bambina a cui congiunto
Era un falsetto che dal cor partia
D’un’ebbrezza gentil m’ebbe compunto.
L’amore e dell’amor la malattia
Cantava, e i sacrifizii ed il contento
Di rivedersi ove ogni duol s’obblía
Cantava questa valle di tormento,
Le gioie volte come fiume al nulla,
E oltre monte il divin travestimento,
Quel salmo insomma che addormenta in culla
Con consigli d’ascetica astinenza
L’Umanità, quest’immortal fanciulla.
Oh lo conosco il salmo, e la semenza
Degli inventori suoi, che l’acqua a tondo
Profferendo, hanno il vin nella credenza. (trad. di I. Nievo)

Entrando nel Novecento, Heine su­bisce la sorte di altri poeti e scrittori tedeschi. Massimo Bonifazio ha scrit­to tempo addietro: «Schiller e Heine, per dire, merite­rebbero un monumento per il peso che hanno avuto nella cultura euro­pea, ma certamente non per quello che hanno attualmente».2
E, purtroppo, questo è vero per mol­ti, moltissimi autori tedeschi. Le traduzioni quindi diventano opera di germanisti, di studiosi, men­tre nell’Ottocento erano opera di in­tellettuali impegnati socialmente, che vedevano la poesia come arma di conquista della libertà e, nel caso specifico italiano, dell’unità e indi­pendenza nazionale. E poi c’era la polemica antiprussiana, che fuori dei confini tedeschi diventava polemica antitedesca e antiaustriaca tout court.
Il nostro poemetto quindi rimase piuttosto defilato e venne sempre accoppiato, vista la brevità, ad altri scritti nelle raccolte heiniane; però l’indagine critica e la resa traduttiva non furono oggetto di riflessione prioritaria, e io dico “a torto”, per­ché questo poemetto rappresenta la formula da romencero spagnolo, do­ve ognuno nel corso del tempo ag­giunge capitoli al suo canto. La sua brevità non deve trarre in inganno, in quanto il poemetto si presenta come passibile di espansione, passi­bile di un completamento su quel tono ironico e su quello stile che Heine ha fondato splendidamente: lo stile del pamphlet in poesia.
È il poema continuo della prote­sta contro la censura e l’autoritarismo militaresco, invita al riso e alla partecipazione: ognuno ci vorrebbe aggiungere la sua piccola strofa. E la strofa dev’essere in versi rimati, faci­li, leggeri e ironici, ma che alla fine lascino una piccola traccia di sangue.

© Nino Muzzi

 


1 Si pensi solo ai versi (tradotti sempre dal Car­ducci) che tanta notorietà acquisirono grazie anche alla evocazione petrarchiana: «Passa la nave mia con vele nere, Con vele nere pe ’l selvaggio mare. Ho in petto una ferita di dolore, Tu ti diverti a farla sanguinare.»
2 M. Bonifazio, Vattene, Musa!, in «Tradurre», Numero 10, primavera 2016.

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