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Paura del mare: il colonialismo tra ricordo e rimosso

Paura del mare: il colonialismo tra ricordo e rimosso
Prefazione a
Lorenzo Allegrini, La leggenda del Capo di Buona Speranza
Edizioni IlViandante 2021

Pochi poeti di oggi sanno giocare coraggiosamente con le colonne della tradizione come Lorenzo Allegrini, rischiando qualcosa in termini di sintonia con il presente. Questo ha prodotto un effetto negativo nel breve periodo, la diffidenza o tiepida accoglienza da parte del mondo poetico circostante per il primo libro (Apocalisse pop!, Edizioni IlViandante 2018), abbondantemente compensata da un successo di pubblico dovuto non solo al potente fascino dell’opera ma anche alle qualità performative del suo autore, che l’ha portata in giro per l’Italia e per l’Europa declamandone intere parti a memoria, accompagnando gli spettatori in un viaggio dentro Dite, sette secoli dopo Dante. La teatralità non basta però a incasellare Allegrini nel consorzio del poetry slam, che pure ha saltuariamente frequentato: la perfetta autonomia testuale di Apocalisse pop! fa tutt’uno con una struttura complessa, ponderosa, che andrebbe percorsa da cima a fondo, come un viaggio richiede. Poema quindi nel vero senso del termine, sfacciatamente aderente al suo grande modello nelle soluzioni formali: 39 canti di terzine incatenate di endecasillabi, gestiti con naturalezza, resi fluidi grazie a un uso moderno e disinvolto degli enjambement. Va poi da sé che la novità sia tutta sul piano dell’invenzione, di un inferno odierno simile a una metropoli sconfinata, affollata di personaggi attualissimi o novecenteschi, dittatori, politici, campioni dello sport, cantanti e cantautori, giornalisti, rivoluzionari, serial killer, attori, tutti coinvolti in un contrappasso a metà tra il gioco umoristico e la resa dei conti di fronte al giudizio non più di Dio, ma della Storia (valga un’immagine su tutte, i nazisti che si incamminano mesti verso i loro stessi forni crematori). È chiaro che il rapporto con Dante non si risolve affatto nei termini della parodia o della ripresa sterile, porta invece al punto critico traumi e problematicità della nostra epoca.
Con La leggenda del Capo di Buona Speranza Allegrini sembra esserci cascato di nuovo. Un altro poema, stavolta in ottava rima, il metro che è stato dell’epica cavalleresca, per raccontare una possibile origine mitica del promontorio all’estremità sud-occidentale del continente africano. L’autore ricorre poi a un classico espediente letterario, la cornice narrativa e l’invenzione del manoscritto ritrovato come giustificazione fittizia all’opera che si è intrapresa (qui un viaggio a Cape Town, la visita a un amico dei tempi dell’università, il poema in lingua afrikaans di un autore boero del passato). Tra Settecento e Ottocento il genere alla sbarra, da legittimare in qualche modo, era l’incipiente romanzo moderno, oggi a essere guardata con sospetto è appunto la forma antiquata del poema, e la cornice diventa quindi una sorta di ironica excusatio. Non si può negare che Allegrini spinga molto in avanti il patto con il lettore, ed è come se dicesse: lettore, sto per raccontarti una storia, ma lo farò con modi che sembrano appartenere soltanto al passato, seguirò una metrica regolare, le rime, mi rivolgerò in apertura alle Muse, parlerò di dei ed eroi: sei disposto a seguirmi? È il caso che io dica fin da ora che sì, ne vale la pena, la storia è divertente, appassionante, condotta con grande scorrevolezza e con uno stile terso, malgrado le difficoltà tecniche autoimposte. Conosciamo quindi l’eroe Heitsi-Eibib, la fida pantera Themba e l’antagonista grottesco Babi (divinità sotto forma di babbuino con il membro eretto), il saggio capo tribù Doman. Soprattutto assistiamo all’amore osteggiato tra Heitsi-Eibib e Teti, dalle coloriture quasi fiabesche (“le afferrò il braccio, strinse piano,/ e quell’urto toccante fermò il moto,/ per un momento, che nell’universo/ tiene le stelle ed al sole dà un verso”), allo scontro con il titano marino Adamastore e infine con lo stesso Poseidone. Tutte le minacce arrivano infatti dal mare, e non si fatica a riconoscere nel poema una chiara allegoria del colonialismo, del continente che diffida dell’acqua su cui arriveranno gli invasori (“L’Africa è un gigantesco animale/ che non è mai rivolto verso il mare”). Così il destino di Teti, che è quello dell’Africa intera, viene preconizzato dal Dio Tsui-Goab: avvicinarsi all’oceano è pericoloso, bisogna starne lontani (“ora che Teti la terra calpesta,/ non si bagni per alcuna ragione/ nella salsedine che infesta il mare,/ perché quell’acqua la vuole afferrare!”). Heitsi-Eibib, che domina sulla terra, non è capace di nuotare (“questi flutti/ che per te celano un mondo esplorabile/ per me un limite sono invalicabile”). Anche il mostro Ga-Gorìb emerge da un pozzo, e quindi ancora dall’acqua. Al contrario, il safari iniziale di Heitsi-Eibib si conclude senza vittime, malgrado i richiami alla violenza di Babi (“La tua ostinata, pura gentilezza/ della rovina ti aprirà le porte”); lontano dal mare, l’interno, la pianura si copre di una malinconia che ricorda la pace (“della mandria la tristezza/ ascoltò nella pena dei muggiti,/ che nella valle pareva una brezza/ sonora come di un corno i vagiti”).
Andiamo poi all’episodio dell’incontro tra Doman e l’Olandese Volante, vertice stilistico e tematico dell’intero poema. La leggenda è ripresa dal folklore nordeuropeo, una nave fantasma costretta a vagare in eterno per avere sfidato Dio (e anche questa, tornando a Dante, è una forma di contrappasso). Non è un caso che si tratti del momento più sinistro del racconto, l’apparizione del vascello e del suo navigatore (“un capitano, cappello a tre falde,/ costume nero, smorta carnagione”) si pone sotto il segno dell’Unheimliche, del perturbante, familiare e sconosciuto insieme, come il ricordo del colonialismo senza una vera elaborazione affettiva, sentimentale (e l’odio diffuso attuale verso i migranti sembra esserne la prova). Il senso di colpa, la cattiva coscienza dell’Europa, scacciati al largo, ritornano quindi dal mare, con fattezze spettrali. Il capitano profetizza allora l’avvento dei colonizzatori (“noi verremo/ in tanti dall’Europa, ché il progresso/ ci farà andar di vela e non di remo,/ e tutto ciò che vi appartiene adesso/ con turpe avidità ci prenderemo/ per far dell’Africa un nostro possesso,/ che ogni risorsa, i diamanti, la terra/ nostri saran con l’inganno e la guerra”) e il futuro apartheid (“i loro figli, che qui nasceranno,/ diranno patria ciò che fu un esproprio/ e ineluttabile la convivenza/ sarà stuprata da sangue e violenza”). In un incubo successivo, Doman ha una visione della tratta degli schiavi: “Bianchi feroci verran tutt’intorno,/ imbracceranno di fuoco bastoni/ dotati in cima di un becco di ferro/ che sventrerà chi non riempie i barconi/ con cui deporteranno, se non erro,/ i nostri figli in remote regioni”. Una storia lontanissima nello spazio e nel tempo si riempie così di un rimosso emotivo coloniale che ancora ci riguarda direttamente, e che ritorna in poesia dentro figure memorabili.

Andrea Accardi

2 risposte a “Paura del mare: il colonialismo tra ricordo e rimosso”

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