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Virginia Farina, Oltremare (rec. di Giuseppe Martella)

Virginia Farina, Oltremare
Terra d’ulivi 2020

In una bella intervista su Versante Ripido, alla domanda di Pina Piccolo sul rapporto fra visivo e verbale nella sua poesia, Virginia Farina risponde con parole che vale la pena di citare per intero perché chiariscono la quintessenza di una poetica che scaturisce dal nesso fra visione e silenzio, dall’abisso sinestetico in cui la parola si radica e si decanta, nonché dalla priorità del vissuto rispetto all’esercizio della scrittura che si definisce dunque come fissazione del flatus vocis, dello stupore originario che si esprime nel respiro e nel grido, per articolarsi infine nella parola e nel verso, in quanto espressioni di una eredità condivisa, preterintenzionale, destinale: una comunione dell’esserci da cui scaturisce la polifonia del dire, la coralità della poesia, nonché quella tensione fra memoria ed evento, che costituisce la storia, sia di un individuo che di un popolo: «C’è una dimensione di indicibilità della vita che le arti visive a volte colgono in modo meraviglioso. E per me, in qualche modo, la parola nasce lì, dal confronto con l’esperienza che è in primo luogo nel corpo, nella vita, nello sguardo. […] Per questo per me l’arte, la poesia, non può non avere in sé una dimensione di silenzio, di contemplazione. È da lì che poi la parola fiorisce, e ha il sapore di qualcosa di vero, perché sentito, perché vissuto, perché se anche parziale e provvisorio è il tentativo di una visione. […] Frequentare il silenzio, per me, significa attingere a quel serbatoio profondo di immagini e parole che compongono la nostra stessa storia di animali culturali. Perché il nostro inconscio è fondamentalmente collettivo, anche quando ci sembra annodato e chiuso intorno alla nostra piccola storia. È l’eredità che tutti, in un modo o nell’altro, ci portiamo dentro.»
Agli antipodi di ogni orfismo o ermetismo, sperimentalismo o oltranzismo, quella di Virginia Farina è poesia tradizionale nel senso migliore del termine: cioè nell’assumere in pieno il peso della propria eredità poetico/esistenziale e della propria responsabilità, umana e professionale. In questo senso la sua enunciazione è fondamentalmente epica perché, come un cantore arcaico o un aedo omerico, si fa vettore culturale, disponendosi «a lasciar bruciare lo stoppino della sua vita alla fiamma misurata del suo racconto», e perciò in grado di divenire  «uomo che porta consiglio» (Benjamin), così lei da donna, si fa portavoce di una confessione e di una denuncia che assume toni corali, raccogliendo tutti gli armonici dispersi degli oppressi della storia, nella radiazione cosmica di un universo nato in un punto denso senza spazio né tempo e votato a una infinita espansione fino alla morte termica che lo attende. Questo big bang iniziale è poi ripetuto una infinità di volte nelle mutazioni di ogni specie, nelle biforcazioni evolutive, nelle scelte cruciali di ogni individuo, le cui conseguenze vanno sempre al di là dell’intenzione, irraggiandosi dalla memoria incandescente che ci assale nell’istante del pericolo e viene vertiginosamente ricapitolata nella dimensione apocalittica dei sogni pericolanti sull’abisso della veglia. Scelte che si perpetuano come legami quantici molto dopo ogni separazione delle nostre particelle elementari, quando le distanze divengono incommensurabili, quando massa ed energia fanno cortocircuito in un vuoto cosmico su cui si apre un inedito orizzonte degli eventi.
Ecco, in questo la testimonianza poetica di Virginia Farina è una riedizione dell’epica che va ben al di là del suo orizzonte storico e dei suoi moduli espressivi. In questo senso la pratica dell’iterazione da lei usata e abusata, fino ad assumere una valenza quasi formulare, non rimane mai un semplice artificio retorico ma, nel senso pieno della parola incarnata e testimoniale, sofferente e gaudiosa, si trasforma nel gesto che fa la differenza nella storia, sia pure quella sua piccola e personale, fatta di impegno e dedizione, piuttosto che la nostra storia sociale fatta di ipocrisie, di vilipendio e di discredito. Il trobar leu, la sua allocuzione accorata e diretta, come nelle laudi di Jacopone, funge da grimaldello per scuotere le coscienze assopite e contratte, qualcosa di simile (mi sia passata l’oltraggiosa analogia) a quel filosofare col martello, con cui Nietzsche a suo tempo, ancor prima di Freud, ci scoprì il caleidoscopio di maschere che fanno la nostra coscienza occidentale di nani che camminano sulle spalle dei giganti. E ci invita ad esplorare quell’al di là del bene e del male, quell’altra riva che si apre attraverso l’abbaglio e lo stupore, sempre ripetuti e sempre primordiali, dell’incontro con l’Altro e con lo sgomento che inevitabilmente ci ispira. Ecco: se siamo disposti a correre il rischio di un comune naufragio forse riusciremo a toccare l’altra riva. Altrimenti tutti noi, monadi nomadi, saremo coinvolti in un tempo non lontano in un planetario naufragio senza spettatori. È questo il messaggio che ci consegna la voce di Virginia Farina, un messaggio in cui il principio del verso si avvolge su di sé come le spire del serpente primordiale, immagine mitica dell’eterno ritorno dell’identico, che Zarathustra inorridito dovette mordere e sputare lontano, per scavalcare d’un balzo l’abisso che passa fra l’eternità dei cicli e il miracolo della singolarità, la gioia di ogni vita nascente. In questo senso il viaggio dall’una all’altra riva in cui Virginia Farina ci conduce con la carica esplosiva di una piccola commedia umana, assume connotazioni epiche e mitiche, genealogiche e cosmologiche, con tono sempre pacato ma intenso, fra confessione e denuncia, portandoci alle soglie di una ricognizione degli eventi che poi ciascuno di noi dovrà compiere a suo modo. A prescindere da ogni valutazione o graduatoria, e rispondendo empaticamente al suo spontaneo insistere sulla ripetizione e sull’anafora, mi sento di affermare che la sua è poesia vera, onesta e bella.
Nella dedica iniziale ai genitori e ai figli, rispettivamente “radici oltremare” e “radici in questa riva”, i primi appaiono con i connotati di Gea e Kronos, terra e tempo: il padre, vecchio contadino, albero Titano, porta i segni e la fatica del tempo, nelle dita «impacciate, curve/ Come rami, nodose/ Pratiche solo di terra/ E di fatiche» (p. 22). La madre è l’isola «colma di spazio […] eredità di terra» (p. 13), grembo e nutrice (p. 14), intrigo di rughe e «ingombro di memoria» (p. 17), guardiana della prima dimora, da cui si irradia una «geografia di ritorni» (p. 23). Già da questa dedica, la silloge di Virginia Farina lascia intravvedere le coordinate arcaiche e escatologiche che segnano lo spazio di gioco della sua scrittura, la cornice equorea-terrestre di questo teatro mediterraneo che contiene in sé memoria e presenza, il mito arcaico e il dramma quotidiano di chi oggi lo percorre, attraversandolo avanti e indietro da una sponda all’altra, ma anche dal passato al presente, dal sogno alla veglia, dalla disperazione alla speranza, dalla ipocrisia alla schiettezza di un confronto più che possibile, inevitabile e decisivo. Perché il principio speranza, attraverso e oltre la parola, è quello che nutre il seme della poesia della nostra autrice, che pertanto mostra le sue valenze escatologiche proprio là dove si occupa del quotidiano spicciolo, della miseria dei giorni snocciolati in un rosario di querele e preghiere, rivolte da chi apre bocca, anche a rischio di affogare, a chi spesso si tura le orecchie nel momento stesso che con zelo si dichiara cristiano fervente e praticante: io, tu “lettore ipocrita”, noi, loro (i miscredenti) martiri eletti, animati da volontà di sacrificio, sia esso da consumarsi nella migrazione e nella possibile morte per acqua, «la più dolce di tutte le morti», quella che spesso non restituisce ai sopravvissuti neanche le salme, neanche gli occhi per piangere. O piuttosto al contrario si traduca in una vocazione al conflitto, al corpo a corpo, alla guerra frontale, al massimalismo religioso, al terrore che tutti ci riguarda perché tutti ci abita. Questo seme, dicevo, il principio speranza, custodito nella poesia di Virginia Farina, può dar da frutto solo attraverso la parresia, la franchezza di quella Parola d’amore che è venuta a noi non tanto per consolarci quanto per dividerci, per indurci alla scelta che, mutando uno stile di vita e di discorso, può infine generare un destino, traducendo il richiamo muto della coscienza nel timbro singolare di una voce poetica che si fa corale, per gradi e accordi, divenendo fraseggio e contrappunto, bordone della memoria, come lo sciabordio delle onde mediterranee che recano «l’eco sfumato delle voci» (p. 52) e le flebili tracce di chi per millenni lo ha attraversato. Lo fa attraverso le insistite iterazioni, nei registri della lauda o al contrario dell’invettiva antiche che costituiscono qui il correlato stilistico di un afflato etico che la anima e che ci interpella con una educata ma implacabile insistenza.
In questo senso la poesia di Virginia Farina raccoglie il testimone di una lunga tradizione epica e salvifica nel contempo, soteriologica si direbbe, che va dagli antichi rapsodi girovaghi alla voce del Cristo che percorre il deserto, lasciando echi a tracce nei meandri della storia, fino a quella amara indignazione di Dante che accende la sua fervida, dettagliata inventiva, ricapitolando tutto un evo della storia in una impareggiabile visione dell’oltretomba. E insomma si rifà a quella tradizione del trobar leu che da sempre si oppone al trobar clus, come i due poli fra cui oscilla la poesia di tutti i tempi, da Omero e Orfeo, moltitudini incarnate, poeti ciechi o posseduti, troppo veggenti per non volgersi indietro e in ciò che noi umani chiamiamo progresso, non scorgere, come l’Angelo di Klee evocato da Benjamin, un cumulo di rovine, al cui fondo brilla però una scintilla di luce, una residua speranza messianica, quel principio speranza di cui dicevo e che rimanda alla fine dei tempi dal qui e ora in cui ci troviamo. Perché la Parola incarnata sempre viene «ora ma non ancora» e ci domanda se quando tornerà ci sarà qualcuno sulla terra disposto all’ascolto.
In questa prospettiva il «Qui, dove sono» che inaugura la prima parte, Riva, della silloge, rivela la sua valenza di gesto fondante dello spazio poetico che siamo invitati ad esplorare, tanto più che in esso il gesto indicale si coniuga lapidariamente col nome del padre, preludendo alla costituzione della singolarità dell’esserci: «Qui, dove sono/ Io non posso essere altro/ Che il nome di mio padre» perché «Ogni nome è custodito/ dal silenzio/ in cui si rivela/ quanto appare muto./ Qui dove sono/ sono una cosa» (p. 9). Il dado è tratto, il gesto inaugurale, la sottrazione della prima parola al silenzio che ha custodito a lungo il germe di una visione muta. La faglia sinestetica è stato colmato, la figura tratta dal fondo, lo spazio del sacro perimetrato, il progetto del tempio della parola, nell’incrocio di terra e cielo, dei mortali e dei divini, nella quadratura (Geviert) in cui la terra si fa mondo (Heidegger), che fa del linguaggio davvero la “casa dell’essere” e che qui, nella silloge di Virginia Farina, trova un esatto corrispettivo strutturale nelle quattro sezioni che la compongono − Riva, Viaggio, Oltremare, L’altra riva – con la luminosa evidenza di un tempio greco nella luce mediterranea, in cui il sacrificio di sangue del martire eletto si ripete in una infinita varietà di sfumature, in quell’intrigo di sussurri e grida, in quell’emancipazione delle dissonanze, in cui il brusio della memoria collettiva che anima il fondo di ogni monade, costituisce l’ethos della storia di un individuo o di un popolo, segnando la rotta del viaggio che infine ci condurrà “oltremare” e arriverà a destinazione prendendo il nome di “destino”. La scansione di tale viaggio nelle quattro sezioni è nitida e po/eticamente impeccabile, e pertanto non richiede soverchi commenti se non qualche prelievo a sostegno della sintonia fra la parola strappata al silenzio visionario e l’ascolto di chi ha deciso di corrispondervi in prospettiva ermeneutica. La tensione fra silenzio e parola (che sottende la domanda originaria: «perché l’esserci piuttosto che il nulla?») regge comunque l’intero sviluppo del testo, lo attraversa come una corrente elettromagnetica che anima i topoi e le figure del discorso, facendo di ogni artificio collaudato una viva, incandescente singolarità: «Qui, dove sono/ Non ho lingua/ Per dire il mio nome./ Il tempo mi precipita/ in un continuo stato/ D’eccezione» (p. 11). Una singolarità da cui scaturisce il rosario del discorso in un eterno ciclo di consunzione e rinascita: «Ogni cosa compiuta/ È la prima/ Perché tutto il resto/ È già dimenticato./ Nella furia dei nomi/ L’alfabeto appassisce/ Come un frutto/ senza più semi» (ibidem). La parola primordiale strappata al silenzio, il nucleo denso, si trasformerà nel corso del testo, nelle più varie intonazioni, assumendo in pieno la propria missione testimoniale, per ritornare verso la fine allo stupore originario, al grido iniziale, a un istante dilatato nel tempo, oltre la gioia e oltre la paura, che riassume e redime tutto «lo spazio denso di figure»: «Non ho paura./ Il verso spaventato è grido/ che ha l’impatto dell’istante/ ma dilatato cerca comprensione/ e l’alimenta/ sciogliendo la paralisi del verbo» (p. 64). E si discioglie infine in canto che raccoglie gli armonici del cosmo e le fantasmagorie dell’esserci: «Io canto/ per accordo – il mio verso ti cerca/ perché soltanto risuonando nel tuo orecchio/ sarà vivo in armoniche/ e corrente/ e dall’interno ritornerà nell’aria» (p. 66). Sicché poi nella lirica finale, Domani, alla fine del viaggio, ormai approdati all’altra riva, l’atto della nominazione si trasfigurerà in una professione di fede e in un palese lascito spirituale ai figli, ai lettori: «Sarà un giorno/ Che le spine ai tuoi piedi/ Mi faranno così male/ Che smetterò di camminare./ […] Sarà un giorno/ Che non avrò paura/ Della vita che trabocca/ E mi confonde col tuo nome/ Tacendomi il confine» (p. 67). Ora ma non ancora, en eschatoi, quando la pulsione di vita farà tutt’uno con la compassione universale e «il fuoco e la rosa saranno una cosa sola» (T.S. Eliot).
Accanto al tema del viaggio, val la pena in conclusione accennare a quello del confine o della soglia, che col primo costituisce le coordinate dello spazio vissuto e del tempo narrato in questo testo. Esso esprime “l’esser fra” come condizione esistenziale, innervata e inverata nel fraseggio poetico. Confine e trait d’union tra due sponde ma anche tra finitudine e traccia (p. 52), abitudine e trauma (p. 58), ripetizione e differenza (p. 59), che si coagula nell’istante decisivo, quel buco nero di infinita attrazione gravitazionale da cui è possibile gettare uno sguardo fugace sull’orizzonte degli eventi, sempre cangiante e diverso per ciascuno di noi.

© Giuseppe Martella