
come soldati e obiettori/motori urlanti
così gli intrepidi alberi, merci già
distanti
il rosso crespo e così il Pelmo
e tutto il tum tum d’assestamento
dell’io del Piave di qua di là
va, e s’intona no col qui,
ma col lì del tempo
e passi di rombi il tuono
e passi di tombe il frastuono
e così d’incanto, mi perdona il cielo
ecco i grilli, sì, cantano
tutto è
. come se
fossi consapevole di quello che scrivo
nel mio mentre e lamenti di-
. segno
in piccoli punti concentro
separati, da cui partono fronde e
spostati, decisi rami cui rispondo
-non mi sentite non mi sentite.
. io e l’oblio che non vedo
. che non c’è perché si diverte come se
. ancora non fossi morto
. libero e cosa impossibile
. vedo solo onde di tessuto stato
. tenere fanno forma di me
. e ombra sconosciuta.
. aiuto-
mi immagino vivere a volte
come se fossi un fosso
del tempo, un latrato di un altro
che è rimbalzato sgusciato in questo antro
e si è fermato. Verrà raccolto
poi, come se il bere
il bicchiere non fosse
che un istante, un incrocio
di uva un caso post e uno scatto.
E forse anche loro, scontri
al termine di iper-oggetti,
semi-cose che tornano tornano tornano
e alla finestra si schiantano
lui di mani sipari
dice lì
. “all’aperto
. al giardino”
verso lì, tenero
uno scarafaggio salva
enorme, inverso,
assume e volge
a dita, da insetti
tantissimi
per data e ora ai giorni
aggiornamenti
disegni – disegni
e sistemi complessi
di segni
si affacciano tra Halbdinge
l’abbandono
in primavera dello scrivere
di una sedia
come d’incanto si spaventa di fronte
a mugnai discordi nella voce
come cerco: telegrafie
per la mia sparizione
mi sono avvicinato
a lungo, talmente
che precipito nel legno le faglie
spengo o rendo calmo o accorgo
qualche sporco segno
geni instabili
amaranti stagni hanno fatto
di questi luoghi noi e distanti
sogni
lontano lontano
rade voglie e meriti scadenti
lenti fremiti e archetipi/bisogni
è strano il vento
lo strutto del sole
arrivato qui, nel loco più mio
. spazi che coccolo brevi
. lembi che magici sento
soglia
e che voglia annerendo
creo io
. paesaggi
sulla mia morte a volte
l’anima si accartoccia
nel terrore nella sostanza se esiste
centrata in un punto, intenso
infinito piccolo. La paura
che anima non sia. E
all’inevitabile
all’oblio o cosalità non-essere
sarà o è
di tracce di segni un reset
il vetro bollente che appiattisce
le pieghe
alle impronte resiste
esistenze
fino a renderle materia
pronta, inconsapevole
un oblio che fa mai l’esistito
. si assottiglia
non so se è muto, se io
lo sento, se capace sono
per esso. è che è verbo
ma forse solo manifestazione
del male, della banalità
del nascere del corpo
come accade nel vaso
nel rimpianto carnale.
sento che parla uno sfarfallio
un mondo ma non dice:
già lui esiste
sinonimi di lì gli uccelli
che sì, volano volano
ma stanno qui – in acqua-uomo
rivoli, cementi-segni
tratti d’arancio abbagli
e buio subito – via via che si
muta – ad ogni aria-spiro
sezione che più sempre innerva
impercettibili gradini
il laido Serva, iniquo staglia
il sa-sa-sash del sasso
nei momenti, quando
tra il tuo prato
e il quasi-cielo
appare il vento
muori e un salto
a gennaio – o marzo
tra abrigu e opaco:
. sulla soglia nuove voci
. mi perlustrano strabici ranocchi
in giochi di stili
di occhi
rei confessi a questi lembi di piedi,
zampe di gallina
. e denti.
dov’è la fata?
. – la fata?
la fata la sento
nel suo odore di carta
nel suo odore di mento
lei è qui
. semplice-bella
. come una foglia bianca
. da un lato
. verde dall’altrove
Nota
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Michele Granzotto nasce a Conegliano Veneto il 18.01.1995. Studia chimica alle scuole superiori, per poi dedicarsi alla sociologia a Padova, materia che lo porta a viaggiare tra Veneto e Africa per fare ricerca. Leggere, scrivere versi è un gesto e un lavoro che lo accompagna con costanza. Due testi compaiono nel progetto di Samuele Editore, Poetare quaderno e Poetare agenda 2022. Alcuni lavori di scrittura concettuale sono ospitati dalla rivista Crux Desperationis, numeri 11 e 13, Montevideo.