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Lorenzo Pompeo, Intervista a Jurij Tarnavsk’kyj

Il singolare percorso di un poeta: dall’Ucraina agli Stati Uniti passando per il Cile
Intervista a Jurij Tarnavsk’kyj
a cura di Lorenzo Pompeo

 

 

In Quando il poeta Pablo Neruda non è più con noi rendi omaggio al poeta cileno. La tua poesia è in qualche modo in debito con Pablo Neruda o con altri poeti latino-americani?

Assolutamente. Sono arrivato negli Stati Uniti dalla Germania nel 1952 all’età di 18 anni, avendo conosciuto esclusivamente la poesia tradizionale in rima, per la quale avevo un’istintiva avversione, pensando che fosse sciocco contare le sillabe e trovare parole che finissero con lo stesso suono per esprimere i tuoi dolori e paure. Mi sembrava uno stupido gioco infantile, e non avevo voglia di giocarci. Rovistando nelle biblioteche pubbliche americane meravigliosamente accessibili, ho scoperto presto che c’era un altro modo per scrivere poesie: esprimerle nella lingua che usavi nella vita quotidiana, con la tua famiglia, gli amici e i nemici, oltre che nella tua mente, parlando a te stesso nel dolore, nella rabbia e nella gioia. Inizialmente vi furono i poeti di lingua inglese, specialmente americani, come Whitman, Edgar Lee Masters, Sandburg ed e. e. cummings e, un po’ più tardi, Pound e Eliot, ma quasi parallelamente a loro, poeti internazionali in traduzione, che solitamente nei libri in inglese erano sempre accompagnati dal testo originale, che trovavo utile perché potevo ricostruire l’originale. Per qualche ragione sconosciuta, ero più attratto dalla poesia in lingua spagnola, specialmente quella dell’America Latina, accessibile in grande quantità, e trovavo più attraente. Il suo linguaggio era più vicino al mio modo di pensare, si focalizzava intorno alle questioni esistenziali e ritornava spesso a figure retoriche per le quali sembrava avere una preferenza innata. I poeti di cui ricordo di essere stato particolarmente attratto sono stati Salvador Novo, Cesar Vallejo, Vicente Huidobro e il più appassionato Pablo Neruda, il cui lavoro alla fine è diventato il modello su cui ho iniziato a modellare il mio.

Più esattamente in che modo ti ha influenzato Neruda?

Fin dalla tarda adolescenza ero ossessionato dall’idea della morte, e la cosa divenne più fastidiosa intorno ai diciotto anni, quando arrivai in America; la morte era uno degli argomenti principali nella scrittura di Neruda, e così non riuscivo a smettere di rileggere le sue poesie legate a questo argomento. Ricordo vividamente poesie come Galope muerto con i suoi versi di apertura: Como cenizas, como mares poblándose e la poesia Sólo la muerte, che inizia con Hay cementerios solos e termina con il magnifico en donde está esperando, vestida de admirante, dove il soggetto implicito la muerte è chiaramente enunciato cinque righe prima. (La citazione suona meglio nella traduzione inglese – “where death is waiting, dressed like an admiral..”) C’erano anche altri soggetti che mi stavano a cuore, connessi con la problematica esistenziale, per esempio. la poesia Walking around, con il suo titolo in inglese, così come l’amore, trattato in maniera organica, terrena. Furono questi stimoli che aprirono le porte della mia immaginazione e a quel punto non ho potuto frenare l’impulso a scrivere. E in meno di due anni avevo scritto un libro di poesie, che intitolai Žyttja v misti, cioè “La vita in città”, influenzato in parte dal Residencia en la tierra di Neruda, ma anche dall’esistenzialismo di Sartre (“vita”) e dall’urbanistica americana (“città”).
Ma c’era anche un’altra caratteristica nella poesia di Neruda, che ho trovato forse ancora più interessante: il modo in cui vede il mondo e in cui ne parla. Non lo descrive nel modo normale, nel quale le parole appaiono nel loro significato comune, ma in grappoli, come quei ciuffi di carta avvizziti e dall’aspetto scarno che si trasformano in bellissimi fiori quando vengono messi nell’acqua, sbocciando in fantastiche immagini evocative. Questo modo di comunicare attraverso associazioni verbali mi ha ricordato il folklore ucraino, le canzoni, le fiabe e gli incantesimi che ho amato fin da bambino, e anche il surrealismo francese, che stavo iniziando a conoscere. Trovavo questo modo di vedere e parlare naturale per me e, sebbene ancora non lo praticassi molto nel mio primo libro, divenne la caratteristica dominante della mia scrittura successiva, sia in poesia che in prosa.

Qual è il tuo poeta latino-americano preferito?

Neruda era e rimane ancora il mio preferito, anche se i miei gusti sono cambiati e sono diventato critico nei confronti di alcuni dei suoi lavori intrisi di politica. Successivamente mi sono allontanato da quel mondo per un certo tempo, ma ricordo bene che mi piaceva molto Vicente Huidobro, così come Cesar Vallejo, Jorge Carrera Andrade, Octavio Paz, Nicolos Guillen, insieme a molti altri, che secondo me hanno dato vita a una scuola (per questo li trattavo quasi come fossero uno solo). Amavo la cultura che li aveva creati e che traspare dai versi delle loro poesie come luce attraverso le crepe di un muro, e lo spagnolo, la lingua che ho imparato per leggere i testi originali. È stata la poesia in lingua spagnola che mi ha influenzato, anche se ho trovato alcuni degli autori latinoamericani più congeniali. Ho amato, ovviamente, Garcia Lorca, in particolare il suo Poeta en Nueva York, così come Rafael Alberti, Vicente Alexaindre, Miguel Hernandez e della generazione del ’98, Antonio Machado.
Sono stato influenzato in modo significativo anche dagli scrittori di prosa latinoamericani, in primis García Marquez, ma anche Alejo Carpentier, Juan Rulfo (il suo Pedro Páramo è davvero un’opera grandiosa) e Miguel Angel Asturias. Borges mi piaceva, ma la sua intenzione di giocare con la mente del lettore era estranea alla mia.

Cosa ti piace di più nella loro poesia?

È il loro modo di parlare del mondo, traducendo la realtà in immagini che si espandono e sbocciano nella mente del lettore attraverso le associazioni. Lo chiamo un modo “non razionale” di esprimersi (evito “irrazionale” a causa delle sue connotazioni negative), che è identico a quello che stavano praticando i surrealisti francesi, con la differenza che il loro approccio mi sembra artificiale, suggerito dalle teorie di Freud, e secondo me meno riuscito, mentre quello ispanico mi pare più organico, basato sulla tradizione secolare del folklore che si ritrova in tutte le culture.
Penso che i miei scritti rientrino in quest’ultima categoria, così come il lavoro di alcuni poeti del gruppo di avanguardia newyorkese emigrato in Ucraina che ho contribuito a fondare. Inoltre, lo stesso si può dire di alcune altre poesie ucraine contemporanee, in particolare quella dei membri della cosiddetta “Scuola di Kiev”. Penso che sia meraviglioso che la poesia scritta nella mia lingua madre sembri ricollegarsi a ciò che mi dava così tanto piacere leggere quando stavo iniziando la mia carriera letteraria. Proprio questo era il mio obiettivo.

Cosa pensi dell’impegno politico e a volte anche ideologico di molti poeti latino-americani, incluso Neruda?

Mischiare qualsiasi cosa con la politica è pericoloso e occorre stare molto attento a quello che fai. Ho provato a farlo nel mio poema della lunghezza di un libro U ra na, cercando di renderlo completamente personale. Non so quanto ci sia riuscito, ma i critici hanno osservato che è diverso da molte altre opere ucraine di ispirazione patriottica. Ševčenko, penso, ci sia riuscito perfettamente. Neruda a volte vi riesce, ma gran parte della sua “deformazioni” di questo genere non sono all’altezza della sua prima poesia individuale.

 

Jurij Tarnavsk’kyj
quando il poeta pablo neruda non è più con noi[i]

sei morto, Pablo,
nei giorni successivi la mia vita era
in frantumi come una cassa di pomodoro su un
autostrada, e rubinetti di
sangue fossero stati aperto nel tuo paese natale
per permettere a persone che indossano guanti bianchi
di lavarcisi le mani,
due giorni fa la mia testa era spaccata
in due e mi sono sorpreso
vedendo il mio sangue così scuro e freddo e
scivoloso, come un fazzoletto
di raso nero, lo lascio coprire la mia
faccia per cinque minuti, ma poi uomini
della legge sono venuti e mi hanno detto di levarlo
via, era illegale, stamattina
mi sono seduto sul vagone ferroviario
del mio corpo mentre mi trasportava, tremante, ad una qualche
operazione, ero troppo stanco per scoprirlo
più o meno nel giugno del 1959, a Parigi, incontrai una
ragazza, Odile, tua connazionale, lei
era solita sedersi ai tuoi piedi con gli altri
bambini che ti ascoltavano mentre mangiavi l’uva,
verde come la mappa del Cile, dicevi una poesia e semi
d’uva si erano impigliati al tuo mento e sul petto
sul maglione, diceva lei, sta a pennello
a un poeta cileno
indossare semi d’uva, io so della tua
casa a Isla Negra, fatta di
legno, pino bianco, molto probabilmente
ospitava altri tipi di legno, tutti lisci e
tiepidi, come la pelle di una ragazza, lana,
come pelli di pecora sui pavimenti, ci cammineresti
sopra a piedi nudi al mattino
facendo scorrere le dita dei piedi attraverso i bianchi
riccioli, le tue dita bianche e arricciate come la lana
delle pecore, ne hai scritto, credo, in uno dei tuoi
libri di Odi, che parlano di
calzini come due calde colombe bianche, bicchieri
verdi e blu, lacrimosi come gli occhi di un bambino, con minuscoli giganti
clipper che ondeggiano e oscillano sulle
onde degli oceani e l’immaginazione lì dietro, conchiglie
come l’orecchio della dolce ragazza a cui
sussurrerò parole d’amore stasera, tu stesso
le hai raccolte sulle rettilinee
spiagge del Cile simili a spade, quel
Cile che è come una spada dritta di geografia e umanità, libri,
tra loro alcuni miei, hanno fatto traboccare
le tue librerie come sangue dalle vene un paio di
settimane fa, le hai intestate ai nuovi poeti de
l’America nel tuo Canto generale, come hai fatto con
la tua casa ai sindacati del rame e del carbone e
salnitro nella poesia precedente, chi
lo sa se la casa è ancora lì, di quella avevo letto
nella Prima spiaggia a Santander e ne avevo parlato alla gente
a New York qualche anno dopo, qualche
anno fa ti ho visto e ascoltato a New
York, con due amici e qualcuno il cui
nome non voglio
ricordare, ansimavi per la tua poesia come
me per la velocità degli allenamenti
di mezzogiorno, e probabilmente anche sudavi, la tua
voce era vuota come la
bara in cui ti hanno messo prima di loro
mettitici tu lì dentro, uomo, uomo, uomo, uomo, uomo,
ti ricordi di Federico che volava sui mandorleti
con un vestito color di pesca, la lanugine
della pesca sulle guance che si sfrega sulle
foglie come una brezza primaverile, ormai devi avere
già premuto la tua guancia sulla sua, Pablo, venite
a vedere il poeta Pablo Neruda morto
in Cile, venite a vedere il poeta Pablo
Neruda morto in Cile!

 

when the poet pablo neruda is no longer with us

you are dead, Pablo,
during these days after my life was
shattered like a tomato crate on a
highway, and faucets of
blood have been opened in your home
country for people who wear white
gloves to wash their hands in
it, two days ago my head was split
open and I was surprised to
see my blood so dark and cold and
slippery, like a black satin
handkerchief, I let it cover my
face for five minutes but men of the
law came and told me to take it
off, it was illegal, this morning I
sat in the railroad car of my
body while it carried me, shaking, to some
operation I was too tired to find out
about, in June of 1959, in Paris, I met a
girl, Odile, your compatriot, she
used to sit at your feet with other
children listening to you eating grapes, grapes,
green as the map of Chile, you spoke poetry and grape
seeds, they stuck to your chin and the sweatered
chest, she said, it must have
been fitting for a poet of Chilean
grapes wearing a beard and breastplate of
Chilean grape seeds, I know of your
home on Black Island, it was made from
wood, white pine, most probably, it
housed other kinds of wood, all smooth and
warm, like a girl’s skin, wool,
such as sheepskins on the floors, you’d
walk in the morning barefoot over
them running your toes through the white
curls, your toes as white and curly as sheep’s
wool, you wrote about it, I think, in one of your
books of Odes speaking of
socks like two warm white doves, glass
green and blue, teary like a child’s eyes, with giant tiny
clippers swaying and bobbing on
the waves of oceans and imagination behind it, shells
like the ear of the sweet girl I’ll be
whispering words of love into tonight, you
gathered them yourself on the straight
sword-like beaches of Chile, the
Chile that’s like a straight sword of geography and humanity, books,
a few of them mine, they made spill off your
bookshelves like blood out of veins a couple of
weeks ago, you deeded them to the new poets of
America in your General Song, as you did your
house to the syndicates of copper and coal and
saltpeter in the previous poem, who
knows if the house still stands there, I read about
it on First Beach in Santander and told people in
New York a few years later about it, a few
years ago I saw and heard you in New
York, with two friends and someone whose
name I don’t want to
remember, you panted from your poetry like
I from my noontime speed
workouts, and probably sweated too, your
voice was hollow like the
coffin they put you into before they
put you into it, man, man, man, man, man,
do you remember Federico dressed in
peach flying over almond groves, the peach
fuzz on his cheeks rubbing against the
leaves like a spring breeze, you must have
pressed your cheek to his by now, Pablo, come
see the poet Pablo Neruda dead
in Chile, come see the poet Pablo Neruda
dead in Chile, come see the poet Pablo
Neruda dead in Chile!

 

 


Il poeta ucraino-nordamericano Jurij Tarnavsk’kyj (noto negli Stati Uniti con la traslitterazione Yuriy Tarnawsky) rappresenta una figura chiave nella storia della poesia ucraina novecentesca che, nel corso dei decenni, si è guadagnato un posto di riguardo anche sulla scena letteraria statunitense (a partire dagli anni Settanta, Tarnavsk’kyj scrive e pubblica regolarmente in inglese prosa e poesia). Naque a Turka nel 1934, piccolo centro nei Carpazi ucraini, attualmente a pochi chilometri dal confine polacco (ma che in quel momento era parte della Polonia). I genitori, entrambi insegnanti, vivevano e lavoravano a Rzeszów (attualmente in Polonia sud-orientale), dove il giovane crebbe in un ambiente bilingue (l’ucraino si parlava in famiglia, il Polacco fuori di casa).
Nel 1944, quando la famiglia era tornata a Turka da quattro anni, Jurij perde la madre per un tumore, il padre, che si era arruolato nell’Esercito insurrezionale ucraino, viene dato per disperso, e il futuro poeta, insieme alla zia, la sorella e il fratello, decidono di fuggire in Germania, dove, nel 1945 vengono accolti nel campo profughi di Neu Ulm. Nel 1950, Quando viene smantellato il campo, comincia a frequentare un liceo tedesco a Monaco e, dopo essersi diplomato, nel 1952 si imbarca a diciotto anni con il padre (che nel frattempo si era ricongiunto alla famiglia) per New York. Frequenta la Newark School of Engineering nel New Jersey, alternando lo studio al lavoro in una fabbrica di pellami.
Terminati gli studi, fu assunto in qualità di ingegnere elettronico all’IBM, dove lavorò fino al 1992 (con una piccola parentesi tra il 1964 e il 1965 in cui visse in Spagna dedicandosi interamente alla scrittura). Nel tempo libero si appassiona alla lettura degli esistenzialisti, soprattutto Sartre (che sarà per lui una scoperta decisiva), Camus e Kirkegaard e, attraverso frequenti visite al MOMA, assimila le ultime tendenze dell’arte contemporanea. A partire dal 1953 comincia a scrivere i primi versi e brevi prose che pubblica su riviste dell’emigrazione ucraina e che gli aprirono le porte della sua silloge di esordio, La vita in città, del 1956. Da allora rappresentò una delle voci più autorevoli della letteratura ucraina della cosiddetta “diaspora” (ovvero la comunità ucraina all’estero). Fu l’animatore del “Gruppo di New York”, una aggregazione di giovani letterati ucraini che erano soliti ritrovarsi al caffè Orchidea, tra la seconda avenue e la nona strada, che discutevano di arte astratta, di poesia senza rima e di esistenzialismo. L’idea di fondo che animava questi poeti, allora esordienti, era sprovincializzare il mondo letterario ucraino (che nell’Ucraina Sovietica era concepito esclusivamente come una versione “etnografica” del realismo socialista) ricollegandosi alle tendenze artistiche e letterarie delle avanguardie novecentesche. Fino alla fine degli anni ’70, quando le polemiche interne e le scelte divergenti segnarono la fine del gruppo, esso costituì un punto di riferimento non solo per la poesia ucraina, ma anche per il dibattito critico sulla letteratura ucraina contemporanea.
A partire dal 1971, successivamente alla pubblicazione della silloge Poeziji pro niščo ta inši poeziji na cju samu temu (in it. “poesia sul nulla e altre poesie sullo stesso tema”), Tarnavsk’kyj, dopo quasi un ventennio di permanenza negli Stati Uniti (vi era arrivato nel 1952) comincia a scrivere in inglese e nel 1978 pubblica il romanzo Meningitis a cui fa seguito, nel 1992, Three Blondes and Death, entrambi apprezzati dalla critica nordamericana. A partire dalla silloge This Is How I Get Well, del 1978 (da cui è tratta la poesia citata), scrive e pubblica anche poesie in inglese (spesso autotraduzioni dall’ucraino).  Dopo la dichiarazione d’Indipendenza dell’Ucraina del 1991, il poeta, per la prima volta dopo quasi quaranta anni, poté fare ritorno nel suo paese, dove potevano circolare liberamente ed essere pubblicate le sue opere, tradotte dall’inglese o nella versione ucraina. Attualmente vive a White Planes, cittadina dello stato di New York.

 


[i] La poesia è tratta dalla raccolta This Is How I Get Well,  Suchasnist Publishers, Monaco di Baviera 1978.

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