Francesca Petetta, Tempi in allerta
AttraVerso Edizioni 2021
Della vita appetitiva.
Recensione di Michele Cardinali
C’è una differenza fondamentale tra la fame e l’appetito. La fame vive drammaticamente il vuoto, la mancanza; supplice al bisogno non soddisfatto e, ansimando nello sguardo, tenta di mordere a piè sospinto anche l’attesa della sua fine. L’appetito, invece, divaga, si trastulla; riempie il vuoto con forme e colori, si lambicca in un gioco altero col desiderio perché, al contempo, tesse una relazione dinamica col gusto; non sente sul collo il fiato secco della sopravvivenza, come la fame, ma guarda verso orizzonti possibili, sapendo che il tempo può giocare a suo favore: quanti più sono i momenti per immaginare odori, toni di piacere e consistenze di aromi, tanto più è certo che l’appetito approfondirà la conoscenza di sé, di dove voglia andare e di cosa voglia davvero addentare.
È in questo secondo versante che si può collocare la prima raccolta di poesie di Francesca Petetta, Tempi in allerta, pubblicata da AttraVerso. Una raccolta pronta ad accogliere le dita e il tatto di chi la prenderò in mano, grazie anche ad un lavoro di morbida e gradevole impaginazione composto dalla casa editrice. Il testo si compone di 4 sezioni – Ritratti, Autoritratti, Memorie-attese, Intuizioni-Sophie – e tenta di attraversare le dinamiche desideranti e appetitive del vivere.
Ci si potrebbe chiedere: del vivere di chi? Di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, si avvertono in quella costante rifrazione di prospettive lasciate sul mondo dall’autrice – chissà che non vi abbia incontrato, un giorno, vestendovi del suo sguardo curioso e, come in un’istantanea, non vi abbia incastonato in quei 15 ritratti che compongono la prima sezione?
Restando in compagnia di queste poesie, ci si inoltra in un percorso perlopiù privato, anche se capace di rimandare incessantemente ad uno sfondo universale e pubblico, che abbraccia ogni vita.
In questo sentiero intimo, che tenta di farsi trasparente, in cui cresce il desiderio di vivere e comprendere le forme dell’esistere, l’autrice sembra voler addentare il mondo, masticarlo, digerirlo con i succhi viscerali della propria sensibilità. Non ci si trova a fare i conti con un cannibalismo possessivo, refrattario all’alterità; non siamo di fronte all’Anna Cappelli di Annibale Ruccello che divora il proprio amante pur di trattenerlo per sempre con sé.
Siamo, piuttosto, di fronte all’occasione di un evento dove, come confessa l’autrice, «nell’ora segreta/ di solitarie ruminazioni/ mi accade talvolta di trovarti/ in piccoli bocconi/ che ingoio/ mentre godo d’illusioni/ e della vaga menzognera sensazione/ di averti/ dentro».[1]
Delle presenze, evanescenti e fisiche al tempo stesso, si fanno intermittenti, diventando un pretesto di ricerca, di rincorsa, d’immaginazione creatrice, tanto da spingerci a nutrirci di ciò che la mente cucina – «invidio i minuti che passo/ senza te:/ mentre mi manchi/ li riempi»[2] – e perfino a mordere «gli avanzi di sogno rotondo».[3] Possiamo svelare che «è quell’odore di azzurro/ e arancione e verde dorato/ e controluce e desiderio/ e contemplazione/ e panchine in attesa»[4] che frega l’autrice, la quale tenta di riscattarsi rubando «al domani brandelli di oggi».[5] In fondo, la sua richiesta sembra umana, troppo umana: «nulla vorrei/ se non per ogni colore/ tutti i riflessi».[6]
Ma, tra i tanti e diversi percorsi che potrebbero presentare l’opera, ci sono soprattutto tre elementi che sembrano importanti da appuntare.
Anzitutto il valore della simbolicità. Infatti, se è vero che il simbolo percorre spesso queste poesie è anche pur vero che l’autrice non cade mai in un ermetismo eclettico ed elitario, ma si sofferma sulla contraddizione stessa dei simboli, i quali non possono essere approcciati se non nel loro incessante rimando evocativo, lasciandoci sospesi in un riferimento e in un’idea che è sempre altra, «dove cielo è quando desidero/ volare, dove mano/ è quando scosto i miei capelli».[7]
Poi, particolarmente stimolante è anche la sezione dedicata alle Intuizioni-sophie: un laboratorio in cui si sperimenta un diverso modo di fare filosofia; non più costruito sull’architettura di pensiero, né sull’infinita analiticità di chi vuole spaccare un capello in quattro. Le sue sono piccole e provocanti intuizioni di soglia, di inizi e con-fini, in cui anche la scienza deve riscoprirsi profondamente umana per il fatto che «vive/ respira/ trionfa e fallisce a ritmo umano».[8]
Infine, non va trascurata una confessione distratta, eppure ribollente, in cui l’autrice, figlia, si sforza di incontrare gli occhi del padre, sulle tracce del tempo passato e sulla superficie specchiata di una foto. Se queste poesie giocano all’arte dell’esistere, non poteva mancare un delicato dialogo tra le generazioni, con chi questo gioco sembra averlo già fatto, prima di noi. Un obiettivo non facile perché gli anni – quelli pochi e inesperti o quelli accumulati e ingombranti – creano confusione, obbligandoci a dire: «non so immaginarti/ avere la mia età,/ padre».[9]
E in questa altalena di prospettive, il dinamismo non disperde energia, ma si ricarica e, sottopelle, spinge l’intuizione a ricercare ancora.
La nostra è sicuramente una lettura d’insieme, un’interpretazione discutibile tra le tante altre possibili, che non vuole, però, né restituire l’intera raccolta, né dimenticare l’unicità di ogni componimento. Ognuno di questi è un mondo a sé stante, intrecciato di vissuti che viaggiano nel tempo – non è un caso che l’opera sia dedicata a degli ipotetici crononauti – e nel quale si spia «a distanza/ nei tetti degli altri:/ di stanza/ in stanza».[10]
Alla fine del testo, una domanda nasce spontanea: quali sono i tempi in allerta, che il titolo ci invita a guardare? Sembrano proprio quegli interstizi del vivere, quegli spazi tra «il non più e il non ancora»,[11] tra la fenomenologia di un ricordo e di un’attesa, in cui si allerta il corpo che vivere è sempre una questione di buona la prima. Solo ciò che abbiamo saputo cogliere rimane e «ad ogni nuovo temporale/ lacerarsi/ tra ciò che passa/ e ciò che resta».[12]
C’è un gusto che, forse, dobbiamo ancora provare; un appetito del vivere da immaginare, ancora e ancora una volta, per dirsi «brilla la mia sete/ con quel vino/ e lo stupore ebbro/ non s’arresta/ né mi basta».[13]
Quindi, nell’invitare i lettori e le lettrici a confrontarsi con questa felice pubblicazione, restiamo in allerta perché, secondo Francesca Petetta, è «troppo facile/ morire di realtà/ mentre si vive».[14]
25 aprile 2021,
Michele Cardinali
[1] F. Petetta, Tempi in Allerta, AttraVerso, Viterbo 2021, p. 21.
[2] Ivi, p. 24.
[3] Ivi, p. 29.
[4] Ivi, p. 33.
[5] Ivi, p. 58.
[6] Ivi, p. 43.
[7] Ivi, p. 70.
[8] Ivi, p. 65.
[9] Ivi, p. 51.
[10] Ivi, p. 39.
[11] Ivi, p. 29.
[12] Ivi, p. 48.
[13] Ivi, p. 62.
[14] Ivi, p. 57.