Quest’annodarsi
la cravatta è un gesto
arcano;
risale lento
dal cretaceo.
La lotta di dita e di seta
si ripete dentro muri diversi
dentro mani diverse.
Ma questo stesso nodo
è mio,
come fu di mio padre
prima di me,
di suo padre
prima di lui.
Questi nodi
(che alla fine ci confondono)
serrano il mio nome
alla mia pelle.
Per E.,
che è come una sorella
nei giorni in cui i sogni mi annegavano
nella testa, mi giravi le dita in un fucile
di cartone e mi bendavi con la sciarpa
fatta a mano, per sparare senza prendere la mira.
Le notti le passavamo muti nella strada
a osservare le ore necessarie
perché il piombo riportasse un suo verbale,
scommettendo gli shot del kebabbaro
su chi dei due reggeva meglio la pressione.
Tutti chiedevano perdono, un giro offerto,
un servizietto sottobanco come degna
conclusione di una giornata in balia
dei cimiteri, delle tasche bucate e dei gatti
neri che ci attraversano
. la strada.
Non so se questa stasi dipendesse dal selciato
o dalle scarpe con le suole troppo dure
ma se sul tardi chiudevano i locali
aspettavamo che il freddo ci sciogliesse
i capelli e i lobi delle orecchie, le dita dei piedi
e delle mani, come i cani nella nebbia
che mangiano muri scambiandoli per ossa.
Svoltando a destra e poi a
sinistra e in buona fede sbagliando
nei viali diceva la mia amica
dall’Olanda che quelle strade
erano solo strade ognuna diversa
e ognuna sempre uguale alle altre
ma non credo che i morti lì
sepolti amassero quelle sue parole
sul loro conto, che è come dire
di una casa malcurata o di un prato
con l’erba secca tutto quello
che non si dovrebbe dire
per mantenere il quieto vivere,
non riportare a galla dissapori.
Ed eccola poi la tomba di Modì
che per lei era solo un quadro appeso
in un museo, uguale e non dissimile
alle altre dieci, cento tombe accanto.
In cuor mio sarei stato più accorto
avrei cercato forse parole di conforto
e non avrei posto l’accento sul non luogo
dove essi per il momento non riposano
ma dove se ne stanno come il toro
alla corrida o il tappeto
nei pressi dell’androne (in attesa
di un sussulto, di qualcosa
che li richiami alla ragione)
Se bastasse una preghiera a un dio
con cento braccia, il burka o la corona
di spine per superare questi tempi
strani e tenere insieme i muri
scavalcati di una città gravida
di paure disparate, di dimenticanza
latente, di scontri di situazioni,
direi ecco, anche io in ogni grumo
di calce, in ogni mattone, posso
riconsegnare la memoria della carne,
dare tregua alle mie fantasie, aprire
le chat che tu mi scrivi o non mi scrivi.
Qui la terra è troppo dura per gettare
radici più profonde, come quando gela
l’inverno e ti impedisce di dar fondo
ai morti, li lascia ancora un po’ in vita,
ne fa presenza materiale in frigorifero
tanto che non si distingue più
tra chi sia il caro e chi il defunto.
Gianmarco Gronchi, classe 1997, è uno studente universitario, toscano di nascita ma lombardo di adozione. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Pavia si è trasferito a Milano, dove frequenta il corso di laurea magistrale in Storia e critica d’arte all’Università Statale. Suoi articoli sono stati ospitati sulla rivista «Quaderni Borromaici», n. 7 (Interlinea, 2020) e online su «La Ricerca Loescher», «Birdman Magazine» e «Progetto Discovery Storia dell’Arte». Alcuni suoi versi sono stati pubblicati nel Terzo repertorio di poesia italiana contemporanea (Arcipelago Itaca, 2019). Scrive di arte e cultura visuale per «Lay0ut Magazine».