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Manuel Cohen, A mezza selva #9: Francesco Scarabicchi

Riparte la rubrica A MEZZA SELVA (palinsesti di poesia), la cui prima serie era stata avviata nel febbraio 2018. Verranno qui accolti miei scritti, precedentemente apparsi in cartaceo, ma anche interventi inediti. Ringrazio la redazione di Poetarum Silva per l’ospitalità e per la cura. (Manuel Cohen)

 

Francesco Scarabicchi, L’ora felice
Donzelli 2010

Il 21 aprile 2021 Francesco Scarabicchi ci ha lasciato. Era un poeta tra i più amati, un amico, un punto di riferimento nelle Marche, per chi, come chi scrive, si avvicinava alla poesia tra la fine degli anni Ottanta e Novanta. Ci siamo conosciuti a un convegno sulle riviste marchigiane, a Pesaro, nei primi anni Novanta. È stata subito amicizia, condivisione, empatia: sono state molte le cose, le situazioni, i pensieri e le persone che abbiamo condiviso negli ultimi trent’anni. Due ottave a lui dedicate appaiono nel mio viaggio in versi per le Marche: Cartoline di marca (Marte, 2010), e qualche mio scritto sulla sua poesia è apparso su varie riviste. Il testo che segue nasce e deriva in parte da alcune note di lettura approntate per l’intervento pronunziato alla prima presentazione del libro di Scarabicchi, sabato 19 giugno 2010, presso la Chiesa di Santa Maria di Portonovo, nell’ambito della quinta edizione del festival “La punta della Lingua” (Ancona-Portonovo, a cura della associazione culturale Nie Wiem, organizzato da Valerio Cuccaroni, sotto la direzione artistica di Luigi Socci). (Manuel Cohen).

Con L’ora felice, ancora fresca di stampa, Francesco Scarabicchi, uno tra i lirici più intensi e riconoscibili dell’attuale stagione, festeggia i trent’anni di poesia. Tre decenni che offrono al lettore la possibilità di farsi una idea che si approssimi a un qualche grado di verità.
Il primo libro di versi di Scarabicchi, La porta murata (Residenza, Ancona, 1982), si apriva con una citazione da Umberto Saba in esergo: «E fu un lutto domestico e del mondo». Come in ideale continuità, il nuovo libro, riprende e riparte, ancora in esergo, da una quartina sabiana: «Sono parole. Sanguina il mio cuore/ Come un cuore qualunque./ La dura spina che mi infisse amore/ la porto ovunque.» Le due citazioni si configurano come una prima traccia, sebbene ancora ad altezza di paratesto, di una fedeltà a motivi e temi precisi; prima spia di un erigendo canzoniere, o in progress, edificato nell’arco di cinque tappe corrispondenti alle cinque principali raccolte di versi: La porta murata (1982), Il viale d’inverno (L’Obliquo, Brescia, 1989), Il prato bianco (ivi, 1997), L’esperienza della neve (Donzelli, Roma, 2004), L’ora felice (ivi, 2010); a cui, tralasciando le edizioni d’arte e le plaquettes, va aggiunta almeno la scelta antologica dalle prime tre raccolte, risistemate in Il cancello (peQuod, Ancona, 2001).
Ma il ricorso a Saba delinea in Scarabicchi gli stigmi di una appartenenza, dolorosa e problematica come ogni appartenenza, a una linea comunemente intesa come minoritaria della attuale poesia: mi riferisco a quella ostinata pratica di un genere, la lirica tout court, inviso a molta critica e lontano, almeno così sembrerebbe, dal gusto corrente: non è un caso che da più parti anche di recente ci sia stata la corsa ad archiviare speditivamente il genere lirico dai palinsesti contemporanei (Alfonso Berardinelli, Giulio Ferroni, Roberto Galaverni, Niva Lorenzini, Enrico Testa), intendendo, di fatto, ignorarne la connaturata vitalità, spesso affidata ad autori in grado di continuarlo e riprenderlo, rinnovandolo e adeguandolo.
La voce ancillare di Saba, all’interno del ‘canzoniere’ scarabicchiano, attesta la fedeltà a una pratica di parola di chiarezza cristallina e di onestà: «con franca lingua, nulla al ver dispiacendo» (Purgatorio, XXVI, v. 117). Una scelta estetica, e melica, alla cui base è la ‘predilezione a dire’ l’esistenza nelle sue motivazioni e nelle sue più intime e connaturate ragioni. In questa chiave è possibile definire l’autore di L’ora felice, unius libri auctor, che nell’artigianato della propria parola, si è mosso in direzione di una coerente specificazione formale (rinvio a un ritratto fondamentale e alla lettura metrica che ne deriva dallo scritto di Massimo Raffaeli, Un percorso, postfazione a Il viale d’inverno, cit.) a circoscriverne il perimetro e il territorio suoi propri, consegnati di verso in verso, di tappa in tappa, ad abitarli, o meglio, a risiedervi.
In questo caso, la coerenza e la quiddità di stile, tese costantemente ‘a levare’, tuttavia progressivamente aprendosi a morfologie espressive in cui alla reticenza e a un alto tasso di allusività e figuralità mai venuto meno, si affiancano ora tonalità e registri vieppiù discorsivi, colloquiali, comunicativi: è quanto accade, ad esempio, per i versi ipometri, in prevalenza settenari, che nel tempo e nelle due più recenti raccolte lasciano posto a più distese campiture di versi in più chiari endecasillabi.
Per l’autore la coerenza ha radici remote e autobiografiche, affonda e attinge a un vulnus originario rappresentato dall’orfanità paterna. In questa ottica possiamo intendere il percorso poetico nel suo complesso come una continua elaborazione del lutto, come sua esperienza di coscienza e di superamento; partendo da questo dato, si può tentare di comprendere lo stadio ulteriore, e l’esito decisivo, di L’ora felice. La perdita paterna viene a configurarsi come la coordinata fondamentale della poesia del nostro che, pur attingendo e guardando altrove, ravvisa proprio nei motivi del vuoto (in un’insistita alternanza di buio e luce, nelle gradazioni e nelle tonalità più variegate, tra lampi di visione, al contempo visiva e visionaria, affidati alla raffigurazione di luoghi-simbolo, spesso correlativi, di questa poesia: il mare, il cielo, la stanza, la casa, e al ricorso a tropi, in prevalenza metafore; spesso enjambè: «abissi/ di vento», «abisso/ della voce», «abisso/ di luce»; o: «luce di vento», «onda/ bianca»), nei motivi della perdita e del lutto, della privazione e della ‘consegna’, una parola chiave per tutta l’opera del nostro (“consegnato/i”), più frequentemente in funzione aggettivata che verbale, di un destino, in sostanza, della «umana gettatezza nel mondo» (Heidegger). Perdita che è alla base del serbatoio essenziale dei propri temi e ossessi: un invito a una rilettura del nostro partendo anche dalla psicocritica e dalle Metafore ossessive di Charles Mauron, ad esempio, viene dal bel saggio di Massimo Gezzi, Fedele ai paesi. Luoghi reali e luoghi simbolici nella poesia di Francesco Scarabicchi (in Patrie poetiche, luoghi della poesia contemporanea, a cura di Elisabetta Pigliapoco, peQuod, Ancona, 2010, pp.145-156).
Coerenza di stile e fedeltà alla orfanità come condizione, ma anche come Stimmung in una accezione storicamente destinale, in cui alla Historisch si preferisce la Geschichtlich, cortocircuitate in una nozione di Residenza, che partendo da una precisa esperienza culturale (nel 1980, assieme con tutto un gruppo di giovani autori del rinascimento marchigiano: Massimo Raffaeli, Gianni D’Elia, capitanati da Franco Scataglini), diviene in Scarabicchi la quotidiana pratica di un privatissimo Libro d’ore. In questo senso, il nostro autore è stato negli anni il testimone di una parola residenziale che, attualizzando e valicando una originaria nozione marxisante (Adorno), o l’ipostasi ideologica che la sottendeva, era ed è nel vissuto connaturata a una couche o luogo, fisico ed elettivo; che è tale e ne ha la forza se precipitata nella parola, nella sua essenza e pure nel suo artigianato, nella sua residenza-resistenza («Pensami in questa lingua che resiste/ a dire di ogni vivo quel che manca», p. 71), eminentemente lirica, ed eminentemente linguistica: che ha nella lingua il proprio luogo, la propria ragione. In questo mi pare si possa cogliere la specificità di un orizzonte di riferimento tematico, e un ethos sotteso alla prassi versificatoria.
Libro d’ore, dunque da intendersi L’ora felice, laica e miniata liturgia dell’essere e tempo, dell’essere nel tempo e del tempo: dove la partitura della suite in dieci stanze variamente articolate, a struttura e lunghezza volutamente diseguali, è scandita dal trascorrere degli attimi, delle ore, dei giorni, dei mesi, delle stagioni, riscontrabile già da una prima campionatura di titoli: Nell’ora, Ogni volta, Ore, Acrostico di maggio, I mesi, Stagioni, Il mese. Come pure in molti attacchi in endecasillabi ineccepibili: A vederti a quest’ora della vita (p. 16), Tienimi finché non sarà mattino (p. 17), Lasciami al tuo respiro fino all’alba (p. 23), Mi perdo a sillabarti dentro l’anno (p. 44), e così via.
Non casualmente l’attacco del primo testo, Via del vento (p. 15), un’ariosa prosa, scandita metricamente come una poesia, calibrata su recursività sonore che ne assicurano la periodicità: l’anafora variata ‘chissà dov’è’, ‘chissà dove’, la rima o assonanza interna: «alberata/all’insaputa»; la frequenza di frasi nominali; l’attacco del primo testo, dicevo, «Agosto è questo diario…», introduce il lettore in un regesto, pratica di referti e di affetti affidata a ‘fogli di sosta’, che registrano gli stadi e i ritmi «a quest’ora della vita» (p.16), dove i verbi si fanno stigmi di combattimento tra immobilità e movimento: resti, vado, fugge, resta, vanno, fuggono, e dove l’ora è l’immagine tesa, proiettata nella mente e negli occhi, come recita uno tra i numerosissimi e efficacissimi incipit da antologia presenti nella raccolta e che si fissano nella memoria del lettore: «Sono quest’ora ferma dentro gli anni» (p. 18), dove tempo esistenziale e tempo atmosferico, sono il fondale della rappresentazione o come, per interposta persona, affidando alla traduzione del sonetto 23, l’autore fa dire a Shakespeare: «la perfetta cerimonia del rituale d’amore/ siano allora i miei fogli l’eloquenza/ e i muti messaggeri del mio cuore che parla» (p. 49).
Come in un perfetto canzoniere, con continui rimandi interni e parallelismi o riprese, come nella dislocazione strategica dei sonetti tradotti da Shakespeare, tre nella seconda sezione e tre nella penultima, da intendersi quali soglie significazionali e spie di senso, nell’alternanza delle partiture o suite in morte e in vita, ovvero scritte in praesentia e in absentia del destinatario d’amore, registrando tutta intera la fenomenologia dell’amore (frequenti tra gli altri i lemmi e le locuzioni: sogno, insonnia, trema, fedele, timore che trema e geme, ansia di abbandonarsi, paura, oscuro amore) Scarabicchi ci affida le parole nella più dimessa e classica veste lessicale, originarie quasi, o basiche, nell’adunanza degli elementi costitutivi (come accade a un riassetto o raduno d’acqua, aria, cielo e terra in Una lingua di terra, p. 74) scritte con il linguaggio intellettivo degli occhi, affidando ancora all’interposta voce di Shakespeare in traduzione, i messaggi in bottiglia o subliminali del proprio fare: «Fra gli occhi e il cuore è stretto un patto» (Sonetto 47, p. 135).
La lingua di L’ora felice parla dunque con gli occhi, affidando alla vista e alle molte venature, cromature coloristiche, l’allusione a stati d’animo, alla condizione dell’essere, e degli esseri. Perché, se di canzoniere si tratta, il destinatario è in una soglia di senso plurale, dall’intimo richiamo genitoriale, alla moglie, agli amici a cui destina i suoi versi: Bellezza, Luzi, Merini, Pecora, Siciliano, fino a un allargamento a vario grado alla polis nell’ultima e conclusiva sezione Soglie dove l’autore non si esime dalla sentenza e dal giudizio: «La luce che vi manca è muro e morte,/ siete voci che indossano un parere» (p. 141). Canzoniere al plurale, nella splendida sezione La luna nel rio dedicata ai figli, dove la lingua di Scarabicchi raggiunge vette di felice levità, affidandosi alla nenia incantatoria delle filastrocche o canzoni, lasciandosi con trasporto veicolare dalla cantabilità della phonè, dai suoni, dalle rime, dai ritmi percussivi dei quinari e dei senari (come in Stagioni, pp. 116-117), o recuperando elementi di una fantasia infantile e primigenia (nel ricorso ai diminutivi: coniglietto, pesciolino).
Testimone di un senso e del sentire acutamente la perdita che è tutta dentro, eppure tutta oltre «l’ora ferma dentro gli anni», la parola di Francesco Scarabicchi arriva a cogliere la sua «ora felice», l’istante di pace conquistata nella «ferita carità dell’anno». Consapevole che di un’ora si tratta, e che la si comprende e se ne gode pienamente nella presente grazia compositiva, artigliata di pena in pena, di dolore in dolore, in leopardiana lingua mortale. Probabilmente approdato a uno degli esiti migliori della sua parabola, nella coincidente maturità di vita e d’arte, questa voce, elettivamente lirica e visiva, ci dona uno dei più intensi e perfetti libri dei nostri anni.*

© Manuel Cohen

 


* Il contributo di Manuel Cohen reca la data di stesura: 27 novembre 2010

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