Edoardo Zuccato, Tèrman e ricord
elliot edizioni 2021
Credo di aver già scritto altrove, in un altro tempo, che il dialetto nella poesia italiana poteva dare una marcia in più ai poeti che lo praticano in modo assiduo. Come uno che ti porta una zolla di terra ancora incontaminata e ti chiede di annusare, di appurare che è viva e fertile, non sterilizzata dai diserbanti e travolta da enormi macchine. Su quella terra si può ancora seminare. Così, anche in traduzione, sulla pagina di Zuccato vi sono ovunque rotondità, immagini solari, di grande plasticità, nessuna astrazione, ma una grazia fisica, muscolare, la poesia sgorga a fiotti, come da una ferita che però non fa più male. Alla soglia dei sessant’anni, il poeta milanese dà alle stampe il suo libro più autunnale, aperto alla nostalgia, ai ricordi, che chiama i vecchi vecchi, ma senza tristezza, perché non vi è posto per il rammarico e neanche per la satira giullaresca del precedente. Il folle tace. Vince il sentimento di essere in vita e di affrontare quel che deve seguire.
Questa è anche la sua raccolta migliore, un apice della produzione poetica di chi ha la sua età. Non ricordo un libro dove si insista altrettanto sui tumuli (per me le sue pietre di confine non sono altro) e i trapassati, mantenendo insieme un certo grado di leggerezza. Direi infatti che due sono le colonne portanti che sorreggono la struttura nelle sue cinque parti: da un lato la giocosità naturalistica di un poeta di cui non si parla più, ma che a occhio e croce Zuccato deve stimare, Massimo Bocchiola (vari riferimenti al ballo, non solo dei ricordi, e alla testa in giù che in questo modo vede meglio la realtà circostante); dall’altra i funerali del dialetto, dai tratti felliniani, ossia un’elegia saggia, sapiente, che ci dice con verace franchezza: «Il tempo è un dialetto/ che parliamo tutti/ e facciamo finta di non sapere». Passano le nuvole come fantasmi, ma il poeta guarda in su e sorridendo parla a sé stesso: «In fondo, adesso sono davvero libero perché non mi frega più molto di niente». Le contrarietà e le battaglie da quattro soldi sono andate via. Neanche la vecchiaia sarà un grosso problema, anche se immaginando il futuro più estremo egli si lascia prendere dal gioco tagliente del ribaltamento, sempre accusatorio (torna l’amato Villon):
Né marmo né foto né nome,
appendete uno specchio sulla mia tomba.
La mia faccia è la vostra
e poi un corvo lontano, un cielo di piombo
e silenzio oppure le bombe
le voci comunque sono quelle di voi mostri.
Forse la prima prova di Zuccato (Tropicu da Vissévar) è quella che potremmo accostare con più facilità a quest’ultima fatica, ma allora mancava probabilmente una chiusura del genere. E possiamo solo augurargli di non aver ancora chiuso il cerchio.
© Fabrizio Bajec