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Thomas Tsalapatis, L’alba è un massacro signor Krak (rec. di Gianluca Spitalieri)

«Sotto Atene c’è un bar. Tre, quattro livelli sotto il livello del mare, senza vie di fuga, senza vie di contatto, senza corridoi che ti portino qui, senza un percorso che lo colleghi al resto della città. Questa è l’altra profondità, quella che galleggia tra respiri e pentimenti». Poco importa sapere chi lo frequenta, chi lo abita, quanto un’intesa muta tra i suoi improbabili frequentatori possa legittimare un’esistenza o confermarne l’assenza, Thomas Tsalapatis ci inchioda subito a un paradosso, «ogni volta che qualcuno in città apre una bottiglia, qualcun altro qui cade dallo sgabello; ogni volta che qualcuno in città canta, qualcun altro qui affila forbici». L’alba è un massacro signor Krak, tradotto da Viviana Sebastio e pubblicato da Editore XY.IT nel 2018, si mostra al lettore sin dalla prima pagina come un esercizio fisico, una gestione di energie residuali, un resoconto assurdo in cui confluiscono i sussulti traumatici della storia. L’anno della prima edizione greca, il 2011, diviene pertanto emblematico, un topos materiale della catastrofe, dentro la quale i mercati globali e gli interessi economici delle potenze europee hanno scaraventato il popolo greco. Lo dichiara del resto lo stesso autore nel prologo «i tanti 2011 che il presente si porta dentro e che rifiuta di datare».
Appare chiara fin da subito una certa carica distopica del testo. Il signor Krak, protagonista strampalato, osserva gli aeroplani cadere, ride nel momento sbagliato, fa esplodere ponti, convive con un quadro piantato a un chiodo cresciuto sulla sua fronte, incontra giganti di 50 centimetri, si addormenta grasso e si risveglia magro, si potrebbe credere cioè che detenga una specie di primato delle stranezze in un mondo convenzionale, banalmente normale, e invece Krak è sinonimo di frattura totale, sintesi di una desolazione del presente dove il conflitto sociale appare in superficie inesorabilmente azzerato. L’alba è un massacro signor Krak è percorso anche e soprattutto da un brivido ironico, qualche esempio, chi di noi potrebbe vantare di aver ricevuto per il proprio compleanno come animale domestico un Alpinista Finlandese che racconta storiacce sui russi? O una tigre bianca o addirittura una zanzara? O essere svegliati di notte da Orde di Unni? L’unica forma di reazione adatta alla catastrofe non è forse l’umorismo stesso che ben conosce la contraddizione dell’essere, ed è capace di decostruire il disastro e quindi di rappresentarlo dialetticamente? Esemplare il Bertolt Brecht dei Dialoghi dei profughi che stigmatizza il nazismo dilagante in Europa a suon di arguzie e paradossi. Il nostro stesso mondo che si autodistrugge per eccesso di accumulazione, è forse qualcos’altro da un enorme paradosso di dimensione planetaria? Il continuo contrappunto di battute da parte del protagonista, il dialogo grottesco con Jacques Prévert, le strane teste parlanti emerse da sottoterra, le sottili incongruenze e gli slittamenti logici trasfigurano il racconto restituendoci spietatamente le dinamiche interne alla comunicazione e gli effetti stranianti del discorso, obiettivo, mi pare di capire, irrinunciabile per Tsalapatis. C’è nelle distopie, come scrive Francesco Muzzioli, un potenziale effetto di straniamento, «un risvolto critico e autocritico, nel fatto che la degenerazione obbliga – a volte fino all’assurdo e al grottesco – a guardare il genere umano da fuori, precisamente dalla specola della sua scomparsa». Come se questo immaginario negativo potesse allenarci a sopportare il reale e le vicende del protagonista, che è interno al mondo rovinoso e che però non è in contraddizione con quel mondo, riescano comunque a portare alla luce l’aspetto aberrante: un’umanità perduta che emerge e che non resta che guardarla da fuori. Sono gli effetti della crisi? È una descrizione spietata del nostro tempo, silenzioso e abulico, incapace di azione e di reazione? Tsalapatis sembra constatare quanto avviene. Anche la scelta di adottare come genere letterario il prosimetro, in cui versi e prosa vengono alternati e che nasce probabilmente con intenti parodici nella stessa Grecia di Tsalapatis qualche millennio prima, diventa, a mio avviso, funzionale allo scopo straniante. Nei testi poetici, infatti, il tono si distende, una voce lirica si appiana sino a occupare un solo verso un’intera pagina. Notevoli, ad esempio, alcuni versi in cui lo strappo e la caduta diventano ordigni d’autore da disseminare nelle pagine: «[…] Finalmente riconosco la tua misura./ Finalmente riconosco la tua caduta.», «Trascorsi l’infanzia/ nutrendo un mastino con pesci rossi,/ cresciuto a dismisura/ ormai non riesco più a vederlo […]», «[…] Ma ti dico non temere, Alberta, non temere./ Gli oracoli acerbi, le promesse fallite,/ il milione di Ungheresi./ Ci riusciremo. Anche se ci vorrà molto./ Anche se sarà necessario attendere molto. Attendiamo. Alberta.// Attendiamo […]». Ed esattamente in quelle presenze poetiche, credo, si compie il passaggio verso la dimensione orale a cui Tsalapatis tiene particolarmente, come è stato messo acutamente in evidenza da Viviana Sebastio e da Dimitri Deliolanes. Nella comunicazione orale, destinatario e mittente del messaggio si collocano, con tutta la loro fisicità ed emotività della loro presenza, in un determinato tempo e spazio comuni e condividono un pari grado di realtà e concretezza: una poesia fatta per l’udito, come scrive Platone nella Repubblica. In quei testi poetici che sembrano destinati all’oralità, Tsalapatis rielabora quindi in chiave moderna quel carattere specifico della poesia arcaica greca prettamente pragmatico nel senso di una stretta correlazione con la realtà sociale e politica e col concreto agire dei singoli nella collettività.
In L’alba è un massacro signor Krak non c’è il pessimismo di una cultura che ha perso qualunque bussola e nemmeno l’imperturbabilità nel non voler arretrare di fronte al “reale”, per quanto insopportabile. Non è una perdita di energia, ma al contrario una conquista. Lo abbiamo imparato da Leopardi, in una sua nota contro il “lieto fine”. Il lieto fine ci fa credere illudendoci che giustizia sarà fatta e che l’ordine verrà ristabilito, mentre lo è solo nell’immaginazione. Senza lieto fine, invece, il nostro rincrescimento per il cattivo esito della storia non viene sanato, pertanto le tensioni e gli squilibri contenuti nell’opera rimangono attivi anche al di là del suo termine e quindi l’effetto è maggiormente profondo. Ma poi, a volerci pensar bene, quel mondo di indefinito presente in cui il signor Krak sopravvive incurante di sé e degli altri, in cui i giochi sociali amano nascondersi per non farsi riconoscere, quel cosmo così melanconico e paradossale, logoro di compromessi e di incomunicabilità, è davvero così lontano da noi? Non è forse anche il nostro mondo?

© Gianluca Spitalieri

Una replica a “Thomas Tsalapatis, L’alba è un massacro signor Krak (rec. di Gianluca Spitalieri)”

  1. Salve, non riesco a leggere il seguito del testo di Tsalapatis. Grazie, Helene Parakeva.

    Il giorno gio 11 feb 2021 alle ore 13:37 Poetarum Silva ha scritto:

    > andreaaccardi posted: ” «Sotto Atene c’è un bar. Tre, quattro livelli > sotto il livello del mare, senza vie di fuga, senza vie di contatto, senza > corridoi che ti portino qui, senza un percorso che lo colleghi al resto > della città. Questa è l’altra profondità, qu” >

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