«Nel mondo come era quando avevo otto anni tutti morivano, chi prima e chi dopo. Adesso nessuno è sicuro neanche di questo.»
In La Carne il tempo è un meccanismo che si muove a seconda delle interazioni tra un reale e un possibile. Esiste il mondo che era presente quando il protagonista aveva 8 anni e un mondo che è presente adesso come se lo fosse stato sempre. Ciò che potrebbe indicare lo scatto che c’è stato tra due presenti è un ricordo doloroso, definitivo. Un inatteso e imprevisto rito di iniziazione che porta a varcare la soglia del possibile, destinando il narratore a un galleggiare sul tempo che potrebbe o dovrebbe essere passato. In La Carne un ottantenne in un tempo che è ritmicamente indicato dall’anafora assiste immobilizzato a questo presente dove una ex umanità è perennemente in fila ad aspettare una razione di Carne per una fame insaziabile. Sono zombie, innocue figure “malate” secondo un’accezione comune, ma non si sa di cosa; si sa che non muoiono mai, si sa che ogni famiglia ha almeno un membro in quelle file e e che la paura comune è che qualcun altro prima o poi esca di casa per mettersi in fila. In La Carne nel mezzo di questo presente-futuro cristallizzato si alternano le voci narranti di due protagonisti che dialogano tra due tempi apparentemente distanti come nei Fiori Blu in attesa di un qualcosa che li faccia incontrare. In La Carne un ottantenne vive un futuro che non è mai più stato attraverso una collezione di immagini di personaggi simili a lui che compiono e realizzano tutto quello che lui non è potuto essere e Tancredi, un medico che vive nel precedente presente quando non c’erano zombie e che improvvisamente riceve molti dei suoi pazienti autori di messaggi enigmatici scritti in stato di sonnambulismo di cui non ricordano nulla ma che messi assieme diventano un manifesto anarchico. Lo scatto temporale sta nella scoperta che anche la moglie si ritrova nelle stesse condizioni, ma a differenza degli altri è in diretto contatto con chi manda questi messaggi. È con questa rivelazione e con quella del protagonista che viene portato a vedere una realtà cruenta e inimmaginabile in coerente connessione con i sogni della moglie di Tancredi che il dialogo tra i due entra in sincrono.
«Comprale dei fiori», dice l’ottantenne a Tancredi; un invito a compiere un atto che sia naturale che sia interazione, che sia una proposizione di futuro. Un atto soprattutto simbolico, perché l’accettazione di un presente incomprensibile e la sopravvivenza a esso può passare solo attraverso il mantenimento della capacità di astrarre dalla complessità e affidare a un gesto, a un simbolo un significato. Questo distingue ancora l’ottantenne dal resto del mondo, la volontà di restare legato a atti simbolici complessi come fosse bere una tazza di caffè.
Che il caffè fosse caldo me l’aspettavo, ma che il bordo della tazza fosse così bollente è una sorpresa.
Il simbolo di una sorpresa.
Basta porca miseria!
Il caffè è una cosa da duri a quanto pare. Mi faccio forza.
lo butto giù in un solo sorso.
Ha un sapore assurdo. Ha un sapore nuovo.
Nessuna candelina da spegnere ma tanti auguri lo stesso.
Cento di questi giorni suonerebbe come una minaccia.
Non voglio diventare uno zombie. Mi tengo cari i miei simboli finché posso.
© Iacopo Ninni
Cristò, La Carne, Neo Edizioni 2020
Una replica a “Comprale dei fiori. Su “La Carne” di Cristò”
L’ha ripubblicato su RIDONDANZE.
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