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Louise Glück, L’iris selvatico (nota di Luigi Paraboschi)

Louise Glück, L’iris selvatico
Traduzione e postfazione di Massimo Bacigalupo
Edizione Il Saggiatore 2020
Lettura di Luigi Paraboschi

Mentre effettuavo una ricerca su questa autrice vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 2020 ho scoperto alcune dichiarazioni da lei rilasciate in occasione dell’assegnazione, tra le quali leggo: «la poesia è un dialogo a due tra autore e lettore, metterla sotto i riflettori può essere pericoloso»; e sempre con riferimento alla poesia: «ero attratta dalla voce umana, solitaria». Sono due affermazioni sulle quali, se ci ferma a riflettere, si deve riconoscere di essere d’accordo quando ci si mette a confronto con questa raccolta del 1992 che valse a Glück nel 1993, quando aveva 49 anni, il premio Pulitzer per la poesia.
Il titolo L’iris selvatico potrebbe fare pensare al lettore che scorresse occasionalmente tra i titoli in una libreria trattarsi di un breve sunto di botanica, e in parte lo è, specie se si pensa che moltissime poesie recano come titolo il nome di uno dei tanti fiori che l’autrice coltiva nel suo giardino nel Vermont; invece non si tratta solamente di un elenco, ma la genialità dell’autrice è in grado di fornire a ognuna di queste piante un aspetto dialogante umano, non lasciandosi andare a un racconto edulcorato, ritagliato sull’aspetto poetico che di solito i fiori assumono in poesia; essi inglobano la voce dell’autrice per aprire un dialogo fatto di domande e risposte serrate e dure che ella intraprende con Dio.
Il giardino di Glück assume fin dall’inizio il sembiante di giardino dell’Eden, nel quale lei interagisce quasi come nuova Eva assieme al marito John, che appare sporadicamente nei dialoghi solo a fare testimonianza della crisi di un rapporto di coppia destinata a separarsi due anni dopo la vittoria al premio Pulitzer.
Tutta la raccolta  consiste  in una serie continua di domande indirizzate al Creatore e dalle conseguenti risposte  si può ricavare l’idea di Dio che l’autrice possiede, visto con occhi principalmente laici e talvolta smarriti di fronte alla insolubilità dei problemi affrontati: Glück non si rivolge a Dio alla maniera di Santa Teresa d’Avila, di Edith Stein o di Etty Hillesum, ma gli parla a volte con ironia, in altre con stizza, talvolta con rabbia, ma molto spesso con desolazione, lei è “un’atea-devota”, si  potrebbe definirla usando un’espressione del nostro tempo, che in fondo teme il Suo giudizio nel quale però non si intravvede la misericordia che è invece fondamentale nella visione cristiana.
Il Dio di cui si parla in queste poesie è fondamentalmente biblico (Glück è di famiglia ebraica non osservante), che osserva gli uomini, li soppesa, e sembra talvolta avere perso ogni speranza attorno al riscatto e alla loro ascesa, e tutto il ragionare della poetessa ricorda un poco il dialogare continuo tra il profeta Geremia e il Dio del Vecchio Testamento. Glück come Geremia tempesta il Signore con domande nella speranza di ottenere risposte consone al suo pensiero, ma si rende spesso conto che le vie di Lui sono diverse dalle sue, povero uomo destinato solo a lamentazioni umane pur se profetiche.
La posizione che l’autrice assume è proprio quella dell’iris selvatico, che stralcio dalla poesia con lo stesso titolo a p. 13:

È terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta nella terra oscura.

[…] ciò che temi, essere
un’anima e non poter
parlare […]

tutto ciò
che ritorna dall’oblio ritorna
per trovare una voce […]

L’iris/Glück teme di non poter parlare essendo sepolta come il bulbo del fiore, e tale condizione le fa sorgere il timore di essere fragile ma bisognosa di aggrapparsi a qualcosa come scrive a p. 17 in Mattutino: «[…] depressa, sì, ma in qualche modo/ appassionatamente/ attaccata all’albero vivo»; e subito sotto, nella stessa poesia, riscontriamo la riflessione assegnata al figlio Noah: «questo è/ un errore dei depressi, identificarsi/ con un albero, mentre il cuore felice/ erra nel giardino come una foglia cadente, figura/ di una parte, non del tutto».
La replica di lei giunge con questo verso interrogativo di Trillium di p. 21: «Vi sono anime che hanno bisogno/ della presenza della morte, come io di protezione?».
Arriviamo ai versi di Bucaneve (p. 27) dove ritroviamo le lame del dolore che il fiore-persona avverte nel sentirsi dimenticato sottoterra come il bulbo, e si domanda:

Sapete cos’ero, come vivevo? Sapete
cos’è la disperazione; allora
l’inverno dovrebbe avere senso per voi.

Non mi aspettavo di sopravvivere,
con la terra che mi schiacciava.

[…] impaurito, sì, ma di nuovo fra voi
gridando sì, rischia la gioia

nel vento aspro del nuovo mondo.

Il fiore interroga il Padre con veemenza nei versi di Mattino a p. 19, dove i primi abitanti dell’Eden ammettono che non sapevano ciò che stavano causando con il loro atteggiamento: «Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo/ esiliati dal cielo, creasti/ una replica, un luogo in un certo senso/ diverso dal cielo, essendo/ pensato per dare una lezione», e concludono che «Solo che/ non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,/ ci esaurimmo a vicenda»; scoprendo infine che «Sapevamo solo che non era natura umana amare/ solo ciò che restituisce amore.»
Emergono altre domande in Lamium a pag. 25: «Così si vive quando si ha un cuore freddo./ Come me: fra ombre, serpeggiando sulla roccia fresca/ sotto i grandi aceri.»
Il dialogo prosegue con un alternarsi di interrogazioni sottili e risposte anche ambigue che leggiamo a p. 29 in Mattina chiara in cui il Padre dice: «non avete mai voluto accettare// una voce come la mia, indifferente/ agli oggetti che nominate zelanti,// […] perché pensate è vostro diritto/ mettere in dubbio il mio intento:// ora sono pronto a / imporvi la chiarezza.» E la replica della donna appare subito a p. 33 in Neve primaverile: «Ti ho mostrato ciò che vuoi:/ non fede, ma capitolazione/ all’autorità, che dipende dalla violenza.»
Ci troviamo di fronte a un Dio che giudica con severità ma senza amore, un Dio che non possiede la misericordia, che è solamente giudice ma non Padre, che rimprovera gli uomini per il loro egoismo e per la mancanza di rispetto verso la sacralità della sua voce e che dimenticano quel legame che li lega tutti a Lui, come si legge in Fine dell’inverno a p. 35:

Volevate nascere: vi ho lasciato nascere.
Quando mai il mio dolore si è
frapposto al vostro piacere?

[…]

senza mai pensare
che questo vi sarebbe costato qualcosa,
senza mai immaginare il suono della mia voce
come altro che una parte di voi –

non la sentirete nell’altro mondo,
non di nuovo chiaramente,
non in grido d’uccello o uomo,

non il suono chiaro, solo
un’eco persistente
in ogni suono che significa addio, addio:

il solo filo continuo
che mi lega a voi.

La risposta non si fa attendere; è a p. 39 in Mattutino, e non è umile, anzi è risentita in questi versi:

Perdonami se dico che ti amo: ai potenti
si mente sempre perché i deboli sono sempre
spinti dal terrore. Non posso amare
ciò che non posso concepire, e tu non riveli
praticamente nulla.
[…] Devi vedere
che a noi non serve, questo silenzio che incoraggia a credere
che devi essere ogni cosa, […]
[…] finiamo col pensare
che non potresti esistere. È questo
che vuoi che pensiamo, questo spiega
il silenzio del mattino,
i grilli che non sfregano ancora le ali, i gatti
che non si azzuffano nell’orto?

Più avanti l’angoscia dell’autrice si fa più pesante e l’analisi del suo sentire appare dentro questi versi dalla poesia a p. 41, Mattino, che trascrivo per quasi intero:

Vedo che con te è come con le betulle:
non mi è concesso parlarti
in modo personale. Molto
c’è stato fra noi. O
fu sempre solo
da una parte? Sono
in torto, in torto, ti ho chiesto
di essere umano: non sono bisognosa più
di altri. Ma l’assenza
di ogni sentimento, della minima
cura per me – Tanto vale che continui
a rivolgermi alle betulle,
come nella mia vita precedente: facciano
pure il peggio, mi
seppelliscano con i romantici […].

Il dialogo controverso con Dio è abbastanza simile a quello relativo alla negoziazione esasperata tra Abramo e Dio, quando decide di mercanteggiare con Lui la salvezza di Sodoma a condizione che in questa città si potesse rintracciare un certo numero di innocenti. Qui Dio dice in Vento calante a p. 45:

Quando vi ho fatti, vi amavo.
Ora vi compatisco.

Vi ho dato quanto vi serviva:
letto di terra, lenzuolo d’aria blu –
[…]
A quest’ora le vostre anime avrebbero dovuto essere immense,
non quel che sono,
piccole voci vocianti –

[…]

Qualsiasi cosa abbiate sperato,
non troverete voi stessi nel giardino,
fra le piante che crescono.
Le vostre vite non sono circolari come le loro:
le vostre vite sono il volo dell’uccello
che inizia e finisce nell’immobilità: […]

per poi concludere in Zizzania (p. 63) ribadendo la propria forza e indipendenza di giudizio: «Non mi serve la tua lode/ per sopravvivere. Ero qui prima,/ prima che tu fossi qui, prima/ che tu abbia mai piantato un giardino./ E sarò qui quando rimarranno solamente/ il sole e la luna, e il mare, e il campo largo.»
La poetessa invoca il perdono augurandosi di poter essere rinnovata in Mattutino di p. 69: «[…] Padre,/ in quanto produttore della mia solitudine, allevia/ almeno il mio senso di colpa; toglimi/ il marchio dell’isolamento, a meno/ che tu non intenda farmi/ di nuovo sana per sempre, come fui/ sana e intera nell’infanzia ignara». Poi, in Mattutino a p 83, quasi vergognandosi del proprio dire e della propria limitatezza: «[…] Mi vergogno/ di quel che pensavo tu fossi,/ […] è/ cosa amara essere/ l’animale sostituibile,/ cosa amara. Caro amico,/ caro compagno tremante, cosa/ ti sorprende di più in quel che provi,/ il bagliore della terra o il tuo stesso piacere?»; e Dio non nasconde la propria delusione, qui nella poesia a p. 95, Mezza estate: «Non siete stati pensati/ per essere unici. Eravate/ mia incarnazione, tutti diversi// non quel che pensate di vedere// […] Perché vi avrei fatto se avessi/ voluto limitarmi/ al segno ascendente,/ la stella, il fuoco il furore?». Ma Eva/Glück non demorde e gira ancora una volta la colpa verso il Creatore accusandolo di non conoscere la vita degli uomini fino in fondo e afferma con la poesia Vespro (p. 101): «[…] Tu che non distingui/ tra morti e vivi, che sei, di conseguenza,/ immune a presentimenti, forse non sai/ quanto terrore sopportiamo, la foglia macchiata,/le foglie rosse dell’acero che cadono/ persino in agosto, nel primo buio: sono responsabile/ per questa viti»; e soggiunge poi ancora, in un altro Vespro a p. 103: «[…] è il dolore/ tuo dono per farmi/ cosciente nel mio bisogno di te, come se/ dovessi avere bisogno di te per venerarti».
La risposta non si fa attendere, la troviamo a p. 107 in Fine dell’estate: «Mie povere ispirate/ creazioni, siete/ fastidi, in fondo,/ mera limitazione; siete/ alla fine troppo poco simili a me/ per piacermi»;  e Dio torna a ribadirle a p. 117 quanto la sofferenza dell’uomo derivi dall’essersi voluto staccare da lui: «Non dimenticate che siete miei figli./ Non state soffrendo perché vi siete toccati/ ma perché siete nati,/ perché pretendevate vita/ separata da me».
Infine Dio afferma ancora a p. 131 in Luce Calante: «[…] ero stanco di raccontare storie./ […] Vi dissi: scrivete la vostra storia.// Dopo tutti quegli anni ad ascoltare/ pensavo aveste saputo/ cos’era una storia.// Avete solo saputo piangere./ Volevate che tutto vi venisse detto/ e nulla di pensato per vostro conto.// […] La creazione vi ha portato/ grandi emozioni, come prevedevo,/ come fa in principio./ E ora sono libero di fare quel che mi piace,/ di occuparmi di altro, sicuro/ che non avete più bisogno di me.»
Ma risponde la donna a p. 141 con Vespro: […] «così è chiaro che non ho accesso a te;/ non esisto per te, hai tirato/ una riga sul mio nome.// Quanto disprezzo ci riservi/ se credi che solo la perdita può persuaderci/ del tuo poter su noi […].»
Ho volutamente riportato molti dei dialoghi che non sono mai banali ma sempre di alto livello tra Dio e la poetessa, come se si trattasse di un contrappunto musicale che richiede orecchie attente all’ascolto, una struttura poetica semplice, pulita, spezzettata con versi liberi ricchi di enjambement, scritta in un inglese abbastanza comprensibile anche a coloro che non ne possiedono una conoscenza avanzata.
Alla fine della lettura l’immagine che riportiamo di Dio è alquanto lontana da chi possiede per tradizione una visione cristocentrica e molto poco ancorata all’Antico Testamento.
Il Dio di Glück è un po’ intollerante, sembra stanco degli uomini, sbrigativo, che cerca di farsi capire da queste sue creature, che gli hanno causato solo fastidi, dimenticando «quel filo continuo» che lo lega a noi, come abbiamo già letto a p. 37 nella poesia Fine dell’inverno.

© Luigi Paraboschi

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