Daniela Raimondi, I fuochi di Manikárnica
puntoacapo 2020
Scrive la Raimondi nella sua bella raccolta, precedente a questa, dal titolo la stanza in cima alle scale:
le bambine crescevano come l’erba dell’orto
fino a quanto un giorno la sorella più grande
si tagliò il seno sinistro
e fuggì nel mondo con la voce di uomo
Deve essere iniziata allora, con la scelta di trasformarsi in amazzone, la decisione dell’autrice di dare inizio a ciò che in questa raccolta raggiunge il suo culmine nella narrazione, vale a dire mettere su carta le ultime esperienze di viaggio e quindi di farci toccare, tramite di esse, la sua maturazione di persona e di poetessa che sa analizzare il mondo con voce di uomo conservando al tempo stesso la sua sensibilità di donna.
Nella prima parte del libro il viaggio è inteso come riflessione attorno al bisogno di sopravvivenza dell’uomo e passa attraverso le esperienze della migrazione degli Ebrei nel deserto, tocca la storia dei primi navigatori verso le Americhe, e dei successivi immigrati (in gran parte di origine italiana) in queste regioni, attraversa e vive i viaggi dei migranti nei nostri giorni, accende la luce della memoria sul viaggio dell’uomo sulla luna, ci racconta l’esperienza di vita sul territorio operata in Africa dalla figlia, culmina con l’approdo in India per raccontare i fuochi mortuari in quella località (Manikarnica) che fornisce il titolo al libro, luogo collocato sulle rive del Gange ove la popolazione indù porge l’addio ai propri defunti consegnandoli al mondo ultraterreno dopo la cremazione.
Credo che l’autrice testimoni molto di sé – descritta nei versi citati in apertura – dell’amazzone che «fuggì nel mondo con la voce di uomo» nella breve silloge quasi in prosa dedicata al Volo sopra il circolo polare artico.
Parlo innanzitutto di questo ultimo pezzo perché è quello che mi ha spiazzato più di tutti gli altri, quello in cui mi è parso di intravvedere la figura di una donna che ha sempre rivendicato la propria autonomia, e lo si capisce quando scrive «da piccola non volevo bambole, ma aeroplani; sognavo di andare a caccia di cinghiali e imparare l’arte della falconeria».
Ovviamente Raimondi non sta scrivendo la propria biografia, ma penso che dentro ogni scritto vi sia sempre qualcosa che ogni autore scrivendo lascia trapelare, infatti più avanti trovo ancora l’atteggiamento della Amazzone nelle parole «odiavo mio padre quando lui mi toglieva dalle sue ginocchia e mi ordinava di andare a giocare. Odiavo gli uomini che lo venivano a trovare. […] Fu sempre così tra me e papà: una tensione dolorosa senza calma, o ragione».
Prosegue parlando della sua passione per gli aerei e finalmente all’età di ventisette anni realizza il sogno di sorvolare il Circolo polare Artico, lasciando a terra il compagno Gustav senza molte parole, visto che «non aveva mai amato gli addii», ed egli per rispondere al saluto «rimase immobile con le mani nelle tasche».
Inizia il suo volo così «mi alzai verso il cielo/ senza peso/ sconfitta la forza di gravità», ma «il mio tramonto fu il tonfo secco del motore/ un silenzio nel vuoto/ Un’eco prolungata, devastante» e «l’angelo aveva smesso di respirare»: poche frasi potrebbero essere più espressive di questa che non so se posso definire di prosa bensì di alta poesia, e così la nostra eroina afferma:
in quel momento compresi il sogno di ogni suicida
la frusta che morde la carne
l’eroina nel braccio
l’orgasmo proibito
il parto di un figlio
l’ultima nota di Bach
per concludere così:
abbandonavo gli dei
precipitavo di nuovo
verso la pochezza degli uomini
Il lettore spero mi perdonerà se mi sono soffermato così a lungo sulla confessione di questa “nuova trasvolatrice” del Polo, ma dentro questo pezzo che sta a cavallo tra prosa e poesia, vi ho letto lo stesso anelito, lo stesso bisogno di uscire dai propri confini (interni o esterni che siano) che la Raimondi immagina passassero nel cuore del progenitore Noè quando affermava «vagai per mesi sulle acque/ primo naufrago in un mondo/ senza più alberi o prati/ un luogo di desolazione/ senza più fiera nel bosco o passero nel cielo», e fa anche proclamare a Mosè rivolto ai suoi «oltre la sabbia vi attende una terra promessa».
È lo stesso desiderio che spinge gli odierni migranti, quelli che affermano: «ce ne andremo un mattino d’inverno/ nei piedi il peso della seta/ e nelle mani una valigia vuota» che dopo mille traversie invocheranno il cielo dicendo «salvaci Padre/ dalla mancanza di felicità / salvaci da tutti i sogni/ che abbiamo lasciato morire».
Dentro di essi vive la speranza che fa dire loro «Dio ci attendeva dall’altro parte del mare» e precisare che tutto è dipeso da «tutta la smania di partire/ che abbiamo sempre nel sangue».
Dunque, i primi migranti verso l’America pervasi dalla stessa voglia di uscire dal mondo terreno della trasvolatrice del Polo scoprono la città perversa che li attende e che forse li delude dopo la lunga attesa a Ellis Island prima dell’ingresso in quella New York che «ogni notte solleva la sottana/ spaventava il cielo/ con la sua grande vagina dentata».
L’excursus di viaggi della Raimondi tocca anche quello sulla Luna dove Armstrong scopre che la condizione umana è forse quella dell’esilio da questa terra e afferma «da lassù la terra era una biglia azzurra/ che rotolava nel buio dell’universo/ solo una piccola oasi/ non più un granello di vita/ fra milioni di stelle gelide» e questa solitudine l’autrice la riscopre anche dentro la popolazione africana ove la figlia svolge l’attività con una onlus, quando conclude una poesia ispirata a quei luoghi con questi due versi «Quanto pesa, a volte/ la solitudine di chi abita il mondo» e poi chiude l’esperienza africana parlando di un incontro con una donna che ha appena messo al mondo una creatura malata di AIDS, con questi versi «La pace che precede la morte/ è sempre un mistero divino: L’Africa è il costato di Cristo/ la sua piaga che sanguina».
Il viaggio dell’autrice culmina infine con l’approdo in India, a Manikarnica, sulle rive del Gange, luogo ove gli indù bruciano su roghi di legna i corpi dei defunti perché secondo il loro credo colui che viene cremato laggiù viene assolto da tutti i suoi peccati e sfugge in questo modo al karma della reincarnazione, ottenendo automaticamente lo stato di Nirvana, cioè la liberazione eterna dal corpo al prezzo di diecimila rupie, tanto è il costo della cremazione.
L’ambientazione è ricostruita dalla Raimondi in modo preciso e dettagliato, passando da «i morti che arrivano legati a brande di giunco…/ avvolti in un candido telo/ ricoperti di ghirlande di fiori e nastri d’argento… Le mosche si addensano intorno ai cadaveri…/ Le vacche vagano tra i fuochi di Manikarnica… […] ruminano accanto alla rovina dei corpi».
E ancora leggiamo in altra poesia «Qui la morte è una cosa voluta, una cosa cercata./ Qui la vita finisce senza donne che piangono/ senza urla sul feretro, senza baci senza volto. […] Solo gli uomini accompagnano il morto» nel suo «ultimo viaggio […]. Il figlio maggiore si rade la testa poi si spoglia di ogni indumento/ veste il corpo con cinque metri di bianco cotone/ […] gira cinque volte intorno al padre mentre prega […] batte un bastone sul petto del genitore/ apre un varco affinché il suo corpo posso fuggire/ […] sarà lui, il primogenito dalla testa rasata/ che aprirà il cranio del padre/ un colpo di bastone, poi un altro, e un altro/ Il cervello schizzerà sotto i colpi/ Liberata dal corpo l’anima salirà fino al cielo».
A molti di noi occidentali forse le immagini descritte potranno suscitare un senso di orrore, in alcuni – quelli non credenti in un riposo eterno – una punta di ilarità quasi a volere sottolineare il disincanto di noi occidentali di fronte a manifestazioni che assumono comportamenti vicini alla superstizione, ma ciò non succede alla Raimondi, la quale osserva, riflette, non discrimina e non giudica. Il suo libro è, per concludere, uno sguardo molto carico di calore verso tutto quanto l’uomo durante il suo passaggio su questa terra ha costruito per dare un significato al proprio destino finale, partendo da Noè per arrivare agli indù.
Raimondi sceglie da che parte collocarsi, non è una semplice turista, accompagna ciò che vede con il suo sguardo simile a quello della esploratrice del Polo che, precipitando con il suo aereo trova la forza di pensare «abbandonavo gli dei/ precipitavo di nuovo/ verso la pochezza degli uomini».
E la pochezza di noi uomini trova consolazione nel pensiero della finitezza dei nostri destini, finitezza che la spinge a scrivere questi versi, già citati poc’anzi parlando dell’Africa e della sua condizione di vita e di morte:
La pace che precede la morte
è sempre un mistero divino
L’Africa è il costato di Cristo
la sua piaga che sanguina
© Luigi Paraboschi
Una replica a “Daniela Raimondi, I fuochi di Manikárnika (rec. di Luigi Paraboschi)”
Recensione coinvolgente e precisa per un libro amato.
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