
Alessandro Brusa osa ogni volta di più; sposta in avanti l’oltraggio, lo scandalo nei confronti della poesia comunemente intesa. L’amore esibito nel corpo e non solo nell’anima è amore naturale, perciò scandalosamente non conforme alla morale dominante. E il bello è che a Brusa non importa nemmeno che lo sia; ciò che gli importa – come ci dice Sonia Caporossi nella prefazione – è perseguire «la poesia come atto di (im)purezza intellettuale dichiarata».
E a certificare che questa poesia sia impura intervengono sia il dettato, sia la disposizione dei versi, sia l’uso della punteggiatura che ancora una volta osa dare una forma a ciò che è probabilmente riconducibile all’immagine pensata di una pausa sintattica che risponde in realtà all’idea di una pausa del pensiero. Ma procediamo per gradi.
Il dettato. Frammentario e frammentato, sincopato, musicale e perciò sofferto: colonna sonora di sé stesso; quasi un lamento. È il canto non tanto di un amore (che pure è tale), bensì dell’amore toto coelo: carnale quanto intellettuale, dove la parte che meno conta è l’atto in sé, mentre si cerca di dare voce e forma a tutto quanto dà sostanza a esso; i movimenti, gli spasmi, gli attori, gli odori e gli umori: tutto partecipa e trova espressione nella struttura di questi versi lineari per disposizione, verticali per precipitazione. Il modello, è evidente, non appartiene alla tradizione italiana; esso affiora dalla sedimentazione della lettura e conseguente conoscenza della poesia di lingua inglese, sulla quale da anni Alessandro Brusa esercita la traduzione come atto di comprensione, di conoscenza anche dell’indicibile che nella tradizione italiana troppo spesso è tradotto con “indecente”. Invece questa volta si dice, si dice tutto; si chiama e ciò che viene chiamato porta il proprio nome: cazzo è cazzo, sputo è sputo, culo è culo. E non ha senso alcuno in questa sede, e nelle future a firma d’altri, ricordare che altri prima scrissero cazzo e culo, perché la differenza è data dall’assenza assoluta di qualsiasi moto di autocensura. Che si tratti di amore di coppia o di poliamore, di sesso o di pornografia, di cura (parola cara a Brusa) o di vendetta, la nudità è totale e il raccontarsi travalica ogni intenzione di scandalizzare per il semplice fatto che non è cercato lo scandalo. Ciò che queste poesie cercano è la verità primitiva. E così percuotono le parole con la stessa crudezza con la quale si evocano strattoni al corpo e all’anima. E il dolore che emerge è dolore reale, come reale è il piacere. E il tradimento che si incontra in queste poesie è un tradimento vero, accaduto, vissuto e che ha portato la poesia verso questi territori fino a ora inesplorati perché, sia chiaro, la poesia non è una comfort zone bensì il campo di battaglia nel quale si sono scontrate le forze più nascoste di chi ha visto cadere le proprie certezze, di chi ha visto cancellato «il tradire/ che non ci appartiene». Ed è qui che ci si aspetterebbe il silenzio, la reticenza; e invece Brusa ci racconta le certezze del prima quando il libro è nel suo centro, dopo averci già mostrata la rabbia, la delusione, il dolore, i sentimenti contrastanti dell’amore; Brusa rovescia le carte perché – ripeto – è stato rovesciato il mondo delle certezze. Le convenzioni erano già state demolite. Ora, finalmente, è giunto il momento di concedersi ogni imperfezione, ogni impurità.
Disposizione. La costante ricerca di una forma che sia pendant visivo dell’immagine ideale (e ideata) della propria poesia raggiunge in L’amore dei lupi un nuovo stadio. Gruppi contrapposti di versi, disposti su due colonne, costituiscono alcuni componimenti; altri presentano una forma più dilatata con ampi spazi interni nello stesso verso a indicare pause, o fratture, di senso, di significato. E non è facile trovare un modello, che non sia, come dicevo all’inizio, il percorso intrapreso come traduttore: l’introiezione delle letture di poeti di lingua inglese soprattutto, e l’assimilazione di quei modelli così distanti dalla tradizione nostrana. E sono modelli che già conoscono i temi e i modi affrontati da Brusa ora, ed è questa la ragione di ogni distanza che consente a questa poesia di farsi davvero corpo («Ho dato alle ossa forma di parole malate perché/ quest’arte è solo un’altra parte/ → un altro vetro a corrompere la carne», p. 87). Ma ci sono pure componimenti in cui è impossibile una lettura, come dire, lineare, poiché è la verticalità a contenere il senso di certi attacchi di poesie che poi proseguono nel modo apparentemente più consueto (come nel caso di “È un roseto salmastro…”, a p. 91).
Punteggiatura. È questo uno degli aspetti che da sempre mi colpiscono nella poesia di Alessandro: un uso straniante della punteggiatura, che non è più indice di pause sintattiche, o suggerimenti di pause di lettura, o interruzioni di una musica ideale. Conoscevamo l’uso dei due punti a inizio di verso già dalle precedenti raccolte, un uso presente già in altre voci, come nella poesia del padre, Maurizio Brusa, o, più prossimi a noi, nella poesia di Cristina Bove. Ora però incontriamo il punto fermo a inizio verso, e questo pare suggerire al lettore un grado maggiore di assolutizzazione del discorso. Suggerisce – se è giusto vedere in quest’uso della punteggiatura l’assunzione di una valenza simbolico-rappresentativa che supera la funzione emotivo-intonativa – l’azzeramento del prima, l’assenza di un punto di partenza che appartenga al passato e di conseguenza la rappresentazione dell’inizio scevro da ogni condizionamento. Se è vero che il punto è il più forte dei segni interpuntivi, e indica l’interruzione del discorso quando è posto alla fine del periodo, ora la sua collocazione all’inizio del verso stravolge ogni convenzione sintattica e norma dello scritto al pari del tema che stravolge la morale dominante, ossia l’ipocrisia imperante.
Che cos’è quindi L’amore dei lupi? È una dichiarazione d’amore alla vita affinché sia vissuta a pieno e liberamente, con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, insieme alle soddisfazioni e ai successi, come pure, di contro, le insoddisfazioni e gli insuccessi. Perciò non so quanto sia “privato” questo canzoniere d’amore; non lo è nella misura in cui la poesia non è autoreferenziale ma rende universali questioni inizialmente private. L’immedesimazione è possibile, a patto che ci si liberi di inutili sovrastrutture moralistiche.
© Fabio Michieli
3 risposte a “Alessandro Brusa, “L’amore dei lupi””
a qualcuno giustamente posson parer buffe queste mie, io,forse vicino a un matematico che stimo, non posso non apprezzare.
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L’ha ripubblicato su asSaggi critici.
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Ottima analisi critica, caro Fabio. Mi hai davvero incuriosito! Grazie
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