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Dante 2021 #1: Dante e Oscar Wilde

Dante muore a Ravenna settecento anni or sono, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Un anniversario importante, che su queste pagine non può passare inosservato. Poetarum Silva intende commemorarlo, il 14 di ogni mese, attraverso le pagine di autori che gli hanno reso omaggio, trasformandolo in personaggio della loro scrittura critica, narrativa, poetica.

Dante, Wilde e il trionfo delle domande oziose

«Sono abbastanza meravigliato dalla mia conversazione in Italiano.
Mi sa che sto parlando un misto di Dante e del peggior gergo moderno.»
Lettera di Wilde a More Adey del 19 ottobre 1897

 

Come puoi non amare Dante se discendi da lui? O perlomeno questo è ciò che sostiene tua madre Lady Francesca Algee coniugata Wilde, detta Speranza, donna fisicamente e caratterialmente ingombrante, patriota, studiosa di folclore, scrittrice part-time, amorevole madre di tre pargoli, moglie dignitosamente e platealmente cornuta e tanto altro ancora. Nei sogni e nelle fantasie della signora Wilde Senior quell’Algee era un’anglicizzazione del cognome del Sommo Poeta. Quindi, ça va sans dire, il DNA dell’antenato un figlio versato nelle lettere glielo doveva, no? Per favorire il processo di ascesa alla peneia fronda la signora vi mise del suo, avvicinando molto precocemente i tre figli alla fruizione di buona letteratura, ma il miracolo – complice l’ottusità di William e la precoce dipartita di Isola Francesca – le riuscì solo con l’adorato Oscar.
Come puoi non amare Dante se ami chi lo ha amato, soprattutto un certo pittore-poeta di nome Dante Gabriel Rossetti, che illumina l’arte pittorica e quella letteraria con mirabolanti visioni tratte dall’immortale poesia del grande Fiorentino? Quel Rossetti la cui stella rifulge gloriosa nei discorsi e negli studi dei maestri che ti stanno accompagnando nella tua formazione universitaria?
Come puoi non amare Dante se intorno ai vent’anni ti fai il tuo bravo Grand tour come Dio comanda e sosti diverso tempo in Italia, soprattutto in quella Verona dove Dante soffrì in esilio e ancora raccoglie le vestigia della sfortunata e shakespeariana Love story tra Romeo e Giulietta? E, per amore della teatralità – o forse per macabro presagio – lo fai languire in un’inesistente prigione, quando nessuna testimonianza storica avvalora il fatto che Dante a Verona sia stato in carcere et vinculis?
E se proprio devi plagiare-copiare-ricreare da qualcuno, come ti è stato da più parti rimproverato, cosa c’è di meglio che plagiare-copiare-ricreare al quadrato, cioè riscrivere la tua At Verona sui passi della Dante at Verona di Rossetti, il quale aveva introdotto nella sua alcuni versi della Divina Commedia che ovviamente transitano senza soluzione di continuità nella poesia che stai scrivendo tu?
E, visto che andiamo avanti per domande oziose, com’è il Dante-personaggio nell’opera del Wilde poeta? Come ci sta il Poeta in un poeta? Come lo fa muovere, vivere, pensare il suo estimatore che è anche un estimatore al quadrato, in quanto estimatore di un suo estimatore?
Solo la poesia può rispondere – in tutto o in parte, a seconda dei punti di vista – alle domande oziose:

AT VERONA

How steep the stairs within Kings’ houses are
For exile-wearied feet as mine to tread,
And O how salt and bitter is the bread
Which falls from this Hound’s table,—better far
That I had died in the red ways of war,
Or that the gate of Florence bare my head,
Than to live thus, by all things comraded
Which seek the essence of my soul to mar.

‘Curse God and die: what better hope than this?
He hath forgotten thee in all the bliss
Of his gold city, and eternal day’—
Nay peace: behind my prison’s blinded bars
I do possess what none can take away,
My love, and all the glory of the stars.

A VERONA

Quante ripide scale nelle case dei Re
per i piedi miei stanchi d’esilio
e quanto amaro il pane e salato
quello che cade dalla tavola del Cane.

Ah, fossi morto nelle vie scarlatte della guerra
o la mia testa esposta alle porte di Firenze
piuttosto che vivere così, con gli eventi cospiranti
nello sfregiarmi l’anima – senza riuscirvi.

‘Bestemmia Dio. E muori. Cos’altro speri?
Nelle benedizioni della città d’oro
nel giorno eterno, Lui ti ha dimenticato.’

No, basta. Dietro le sbarre cieche della mia galera
io possiedo ciò che non si può levare:
la gloria delle stelle ed il mio amore.

(Traduzione di Paola Deplano)

E poi il Grand Tour e l’omaggio continuano, scendendo fino a Ravenna, la fastosa, piccola Bisanzio che fra un mosaico e l’altro, un battistero e l’altro e una pineta e l’altra ha l’onore di custodire il mausoleo di Dante. Così tu, che hai certamente letto L’elegia scritta in un cimitero di campagna di Gray e At Florence di Wordsworth, non puoi fare altro che rimanere colpito dal mausoleo del grande Fiorentino e scriverne, in Ravenna, con accenti di commovente omaggio al più poeta dei poeti:

Mighty indeed their glory! yet to me
Barbaric king, or knight of chivalry,
Or the great queen herself, were poor and vain,
Beside the grave where Dante rests from pain.
His gilded shrine lies open to the air;
And cunning sculptor’s hands have carven there
The calm white brow, as calm as earliest morn,
The eyes that flashed with passionate love and scorn,
The lips that sang of Heaven and of Hell,
The almond-faced which Giotto drew so well,
The weary face of Dante;—to this day,
Here in his place of resting, far away
From Arno’s yellow waters, rushing down
Through the wide bridges of that fairy town,
Where the tall tower of Giotto seems to rise
A marble lily under sapphire skies!
Alas! my Dante! thou has known the pain
Of meaner lives,—the exile’s galling chain,
How steep the stairs within kings’ houses are,
And all the petty miseries which mar
Man’s nobler nature with the sense of wrong.
Yet this dull world is grateful for thy song;
Our nations do thee homage,—even she,
That cruel queen of vine-clad Tuscany,
Who bound with crown of thorns thy living brow,
Hath decked thine empty tomb with laurels now,
And begs in vain the ashes of her son.

O mightiest exile! all thy grief is done:
Thy soul walks now beside thy Beatrice;
Ravenna guards thine ashes: sleep in peace.

Possente invero quella loro gloria!
Re goto, o cavaliere, o la regina stessa, poveri e vani
tuttavia appaiono ai miei occhi, a paragone
della tomba ove Dante dal dolore ha il suo riposo.
All’aria aperta sorge il sepolcro dorato;
esperte mani d’artista hanno scolpito
su di esso la bianca fronte, calma come l’ora
dell’alba, gli occhi un tempo fiammeggianti
d’amore appassionato e di disprezzo,
le labbra che cantarono del Cielo e dell’Inferno,
il viso modellato a mandorla che Giotto
così bene dipinse, il viso consunto di Dante;
ancor oggi, nel suo porto di pace, lontano dalle gialle
acque dell’Arno, dove la torre di Giotto si leva
come giglio di marmo sotto cieli di zaffiro!
Ahimé, mio Dante; il dolore tu conoscesti
di più basse vite, le catene brucianti
dell’esilio, quanto dure le scale dei sovrani,
e tutte le miserie che avviliscono
la natura più nobile dell’uomo sotto il rovello
dei torti patiti. Questo squallido mondo
è tuttavia grato a te del tuo canto, ogni paese
ti rende omaggio, la stessa crudele regina di Toscana,
rivestita di vigneti, che impose alla tua fronte viva
un serto di spine, oggi di lauro adorna la tua tomba
vuota, e invano le ceneri del suo figliolo invoca.
O esule sovrano! Il tuo dolore ora è compiuto:
accanto a Beatrice l’anima tua procede
e le tue ceneri Ravenna guarda: puoi dormire in pace.

Wilde, Ravenna, vv. 79-108 (traduzione di C. Izzo e V. Vetri)

Poi cresci e maturi e diventi un artista come critico oppure un critico come artista – se più l’uno o l’altro chi può dirlo? E chi può chiederlo e saperlo, se non gli amanti delle domande oziose, coloro che ti seguono volentieri in questa specie di saggio che è al contempo un dialogo socratico, una pièce teatrale e il riflesso della tua brillante conversazione in qualche salotto chic? Quindi nel Critico come artista Gilbert, conversando con l’amico Ernest, rievoca Dante e la Commedia con un’eloquenza barocca e lussureggiante, sorella gemella delle pagine rutilanti delle favole, della Salomé e del Dorian Gray:

«Nella libreria alle tue spalle, su quello scaffale, c’è la Divina Commedia, e io so che se l’apro in un certo punto, sarò colmato da un fiero odio per qualcuno che non vedrò mai. Non esiste umore o passione che l’arte non possa darci, e chi di noi ha scoperto il suo segreto può stabilire in anticipo quali saranno le nostre esperienze. Possiamo dire a noi stessi, “Domani all’alba cammineremo col severo Virgilio attraverso la valle dell’ombra di morte”, e, meraviglia! L’alba ci trova nella selva oscura e il Mantovano è al nostro fianco. Varchiamo la porta con l’iscrizione fatale a ogni speranza, e pieni di pietà o di gioia contempliamo l’orrore di un altro mondo. Passano gli ipocriti, coi loro volti dipinti e con le loro cappe di piombo dorato. Dai venti incessanti che li spingono ci guardano i lussuriosi, e noi fissiamo l’eretico che si strazia la carne, e il goloso sferzato dalla pioggia. Schiantiamo i rami secchi dell’albero nel boschetto delle Arpie, e ogni rametto fosco e velenoso stilla del sangue rosso davanti a noi, e leva forti grida amare. Da un corno di fuoco Odisseo ci parla, e quando dal suo sepolcro di fiamma si drizza il grande Ghibellino, l’orgoglio che trionfa sul supplizio di quel letto diviene nostro per un momento. Volano per l’aria oscura coloro che hanno tinto il mondo della bellezza del loro peccato, e nella fossa del morbo disgustoso, in preda all’idropisia e col corpo gonfio fino ad assumere l’aspetto d’un liuto mostruoso, giace Adamo da Brescia, il coniatore di moneta falsa. Egli ci chiede di ascoltare la sua disgrazia; ci fermiamo, e con labbra secche e spalancate ci narra come giorno e notte sogni quei ruscelli di acqua chiara che in freschi e rugiadosi solchi scendono per i verdi colli del Casentino. Sinone, il falso greco di Troia, lo sbeffeggia. Lui lo percuote in viso, e si azzuffano. La loro vergogna ci affascina; e indugiamo, finché Virgilio non ci rimprovera e ci conduce fino a quella città turrita di giganti dove il gran Nembrotte suona il corno. Cose terribili ci aspettano, e andiamo loro incontro nelle vesti di Dante, e con il cuore di Dante. Attraversiamo le paludi Stigie, e Argenti viene a nuoto verso l’imbarcazione fra le acque fangose. Ci chiama, e noi lo respingiamo. Quando sentiamo la voce della sua sofferenza siamo lieti, e Virgilio ci loda per l’amarezza del nostro disprezzo. Camminiamo sul freddo cristallino del Cocito, nel quale i traditori si ergono come pagliuzze nel vento. Il nostro piede colpisce il capo di Bocca. Questi non vuole dirci il suo nome, e noi strappiamo a manciate i capelli dal cranio urlante. Alberigo ci prega di rompere il ghiaccio che ha sul viso, per poter piangere un poco. Noi ci impegniamo a farlo, e quando egli ha terminato la sua storia dolorosa gli neghiamo la nostra promessa, e ci allontaniamo da lui: tale crudeltà essendo in realtà cortesia, perché chi è più vile di colui che ha pietà per chi il Signore ha condannato? Nelle fauci di Lucifero vediamo l’uomo che vendette Cristo, e nelle fauci di Lucifero gli uomini che uccisero Cesare. Tremiamo, e usciamo a riveder le stelle.
Nella terra della Purgazione l’aria è libera, e il santo monte si erge nella pura luce del giorno. C’è pace per noi, e c’è un po’ di pace anche per coloro che vi dimorano per una stagione, pur se, pallida per il veleno di Maremma, ci passa davanti Madonna Pia, e se c’è Ismene, col dolore della terra ancora addosso. Un’anima dopo l’altra ci fa condividere qualche pentimento o qualche gioia. Colui al quale il lutto della sua vedova insegnò a bere il dolce assenzio della sofferenza, ci narra di Nella in preghiera nel suo letto solitario, e apprendiamo dalla bocca di Buonconte come una sola lacrima possa salvare dal diavolo un peccatore in punto di morte. Sordello, quel nobile e sdegnoso lombardo, ci sogguarda da lontano come un leone accosciato. Quando apprende che Virgilio è cittadino di Mantova, gli getta le braccia al collo, e apprende che è il cantore di Roma gli cade ai piedi. In quella valle la cui erba e i cui fiori sono più belli dello smeraldo tagliato e del legno indiano, e più lucenti dello scarlatto e dell’argento, cantano coloro che nel mondo sono stati re; ma le labbra di Rodolfo d’Asburgo non si muovono alla musica degli altri, e Filippo di Francia si percuote il petto, ed Enrico d’Inghilterra sta in disparte. E noi continuiamo ad andare, salendo la scala meravigliosa, e le stelle si fanno più grandi di prima. E il canto dei re si fa più sommesso, e da ultimo arriviamo ai sette alberi d’oro e al giardino del Paradiso Terrestre. In un carro trainato da un grifone appare una dalle tempie cinte d’olivo, velata di bianco e ammantata di verde, e abbigliata in una tunica color vivo fuoco. L’antica fiamma ci si ridesta dentro. Il sangue ci scorre più veloce nelle vene, con pulsazioni terribili. La riconosciamo. È Beatrice, la donna che abbiamo venerato. Il ghiaccio congelato intorno al nostro cuore si scioglie. Folli lacrime di dolore sgorgano dai nostri occhi. E pieghiamo il capo al suolo, perché sappiamo di aver peccato. Una volta fatta penitenza, e una volta purificati, e avendo bevuto alla fonte del Lete ed essendoci bagnati alla fonte di Eunoè, la signora della nostra anima ci innalza al Paradiso Celeste. Da quella perla eterna, la luna, il viso di Piccarda Donati si china verso di noi. La sua bellezza ci turba per un momento, e quando, come una cosa che cade nell’acqua, ella scompare, la seguiamo con occhi assorti. È lì anche Cunizza, sorella di Ezzelino, signora del cuore di Sordello, e c’è Folco, l’appassionato cantore di Provenza, che dolente per Azalais abbandonò il mondo, e c’è la meretrice di Canaan la cui anima fu la prima che Cristo redense. Gioacchino da fiore è ritto nel sole, e, nel sole, l’Aquinate narra la storia di San Francesco, e Bonaventura la storia di San Domenico. Attraverso i rubini ardenti di Marte, Cacciaguida viene verso di noi. Ci racconta della freccia scoccata dall’arco dell’esilio, e di come sa di sale il pane altrui, e di quanto sono dure le scale di una casa straniera. Da ultimo, vediamo la mostra della Mistica Rosa. Beatrice fissa gli occhi nel volto di Dio per non più distoglierli. La visione beatifica ci è concessa; conosciamo l’amore che muove il sole e l’altre stelle.»

Tratto da O. Wilde, Il critico come artista (traduzione di M. D’Amico)

Poi la vita ti cambia, come sappiamo. È stata colpa tua, della debolezza, del destino, della cattiveria del mondo, o di qualche suo singolo abitante? Ritornano le domande oziose – quelle a cui non si può rispondere facilmente – e ti ritrovi in prigione e ti ricordi di quel tuo viaggio in America, tanti anni fa, la tua visita in quel carcere di cui ammirasti le mura candide, e l’inaspettata Commedia di Dante la cui lettura stava dando una ragione di vita a un uomo dagli occhi malinconici, prossimo al patibolo. E ti meravigli che l’esilio di un poeta medievale possa attraversare i secoli e dare sollievo a un detenuto del nostro tempo. Così, nel carcere di Sua Maestà, a Reading, ti ricordi di quella tua meraviglia e ancor di più del sollievo del morituro e chiedi di poter avere Dante e dopo che ce l’hai scrivi a Robert Ross: «E leggo Dante, e faccio estratti e note per il piacere di usare penna e inchiostro. E mi sembra di star meglio in tanti modi». 

© Paola Deplano

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