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Lem 2021 #1: Stanislaw Lem, Febbre da fieno

Stanislaw Lem, Febbre da fieno
Traduzione di Lorenzo Pompeo
Voland 2020

«Solo attraverso un cumulo di sciocchezze si arriva alla verità»
Stanislaw Lem, Febbre da fieno

Circospezione, stato di allerta, sospetto, attesa spasmodica di un evento, un’imboscata, un tranello che faccia precipitare le cose: sotto il segno di quello che si avverte come pericolo incombente, agguato, minaccia scorrono le pagine di Katar di Stanislaw Lem, tradotto in italiano con il titolo Febbre da fieno.
Il ritmo appare accelerato come il battito cardiaco sotto sforzo, sotto tensione; è scandito da frasi brevi o brevissime, precise e aggettanti su più scenari: da un lato il resoconto degli eventi trascorsi, con passaggi repentini dal passato al presente e con il ricorso, come leggiamo nella traduzione di Lorenzo Pompeo, a tutti i tempi del passato nel modo indicativo; dall’altro il progressivo disvelamento, per flash e incursioni, del presente dell’io narrante – una missione delicata e rischiosa – e della sua provenienza professionale. Questi, ex astronauta ora non soltanto sceso a terra, ma calato anche tra i sotterranei, mostra fin dall’inizio spaesamento e vulnerabilità, non tacendoli, bensì, al contrario, colorandone lo sfondo di azioni e di considerazioni.
Lo scenario iniziale è Napoli, città dalla quale l’io narrante parte alla volta di Roma, percorrendo su un’auto a noleggio l’Autostrada del Sole. Il tragitto da Napoli a Roma, la notte trascorsa all’Hotel Hilton di Roma, fanno emergere non solo frammenti significativi sulla missione in corso – ripercorrere le tappe di un uomo, Adams, trovato morto in una stanza d’albergo – bensì anche immagini di vita privata: l’io narrante si prefigura il ritorno a casa come una sorpresa per i «bambini».
Su tutto domina il motivo ricorrente di sé come controfigura, come «riserva», come individuo dall’identità mancata, con l’annotazione «allergia» sulla propria scheda professionale; allergico, come dire «difettoso», un’ombra sbagliata, un’occasione fallita.
L’occasione fallita sembra proprio, intanto, essere quella della missione in Italia. Non resta che Parigi, «l’ultima spiaggia», come la definisce l’io narrante. I frammenti di vita dell’io narrante emergono anche nell’episodio movimentato all’aeroporto di Roma, all’arrivo a Parigi e nel lungo colloquio con Philippe Barth, l’informatico francese che guida il team che sta «realizzando il programma per un computer investigativo».
Ecco alcuni di questi ‘frammenti’ progressivamente svelati: i «bambini» ai quali l’io narrante pensa quando si prefigura il ritorno a casa sono i figli della sorella; la sua padronanza del francese (un francese «fluente,  ma non europeo») oltre che dell’inglese si spiega con la sua provenienza dal Canada francofono; il suo fascino è un elemento nel quale sono gli altri, non lui stesso, a confidare; la sua incertezza è un dato ricorrente e, un po’ alla maniera di Zeno Cosini nel romanzo di Svevo, si rivela una carta vincente.
È così che la parte centrale del libro, il «rompicapo», propone, insieme all’enigma che ha dato luogo alla missione dell’io narrante, il rovello permanente della visione del mondo tutta, che si estenda fino a comprendere la cosmologia o si restringa a focalizzare la singola esistenza: si tratta del dilemma causalità-casualità. Un dilemma che, come Lem avrà modo di affermare nel saggio Sulla mia vita (in: Microcosmi, Editori Riuniti 1992), pervade tutta la sua scrittura.
Il dossier che l’io narrante illustra nella «versione panoramica», usata quando bisogna «cooptare nelle ricerche qualche neofita» (p. 91), costituisce una doppia porta di accesso. Esso manifesta senz’altro il pungolo all’individuazione di una catena di cause (The Chain of Chances è il titolo del romanzo nella traduzione in inglese), pur in assenza di prove o dinanzi alla contraddittorietà e al disporsi caotico delle evidenze, ma la sua funzione non si ferma qui. Il dossier e la reazione al dossier da parte dello scienziato francese introducono, in più, un fattore nuovo: la coscienza e le aspettative dell’individuo-io narrante sia nei confronti dell’enigma da risolvere e della simulazione alla quale si è prestato, sia rispetto al modello di riferimento dal quale discendono tattiche, strategie e strumenti di risoluzione del singolo problema.
L’individuo in missione non si limita, allora, a eseguire soltanto, a seguire una pista definita da un protocollo stabilito senza il suo intervento, ma inizia a riflettere sulla validità e l’estensione di ciò che potremmo chiamare la “macroteoria”.
La conversazione tra Philippe Barth e l’io narrante (pp. 91-94) illumina sulle possibilità del dubbio e della scelta individuale e lo fa ricorrendo a evidenze linguistiche, a modi di dire che si sono conservati nella lingua – in questo caso particolare si tratta della lingua francese, con l’espressione «corriger la fortune» – che rivelano lo scatto e lo scarto da ciò che viene da altri presentato come immodificabile. D’altro canto, è da questo intento prometeico di «corriger la fortune» che derivano sia la ribellione ‘creativa’ sia la tentazione di creare dispositivi di controllo a raggio sempre più ampio.
Letto alla luce delle “magnifiche sorti e progressive” promesse dagli entusiasti delle intelligenze artificiali, questo passaggio schiude la via che conduce a considerazioni di fondo, tanto universali nella loro persistenza e permanenza, quanto scottanti nel loro emergere ed esercitare una pressione sempre più stringente.
Lucidamente profetico appare anche il punto di vista storico dell’autore, che all’io narrante, in occasione del ricevimento di benvenuto che Philippe Barth organizza per lui, attribuisce queste riflessioni che investono, per rovesciare e superare, Zeitgeist di Hegel e profezie di Mc Luhan:

L’Europa era uscita dalla crisi solo dal punto di vista economico. La prosperity era tornata ma senza una buona autocoscienza. Non era la paura di metastasi in un paziente affetto da un tumore, ma la consapevolezza che lo spirito della storia se n’era andato e che, seppure fosse tornato, di certo non l’avrebbe fatto qui. La Francia non poteva farci niente, e perciò potevano occuparsi delle sofferenze del mondo a cuor leggero, essendo passati dal palcoscenico alla platea. Le profezie di Mc Luhan si erano avverate, ma al contrario, come spesso capita con le profezie. Era sorto il suo villaggio globale, ma diviso in due. La parte più povera soffre, quella più ricca importa le sofferenze attraverso la televisione e le compatisce da lontano. Sappiamo già che così non si può andare avanti, ma in qualche modo accade lo stesso. Nessuno mi chiese cosa pensavo della nuova dottrina del dipartimento di stato, la dottrina della “vigilanza” all’interno di cordoni sanitari di tipo economico, e dunque rimasi in silenzio. L’argomento di conversazione passò dalle sofferenze del mondo alle sue follie. [pp. 121-122]

Nel corso di quella serata l’io narrante ha modo di conoscere personaggi di diversa formazione e dai nomi, come già in precedenza era emerso per le vittime della “serie infernale” (Schimmelreiter,  che ha il titolo originale della celebre novella di Theodor Storm “Il cavaliere dal cavallo bianco”, Swift, come il cognome dell’autore dei “Viaggi di Gulliver”, Heyne, come il cognome del famoso scrittore tedesco, con la ‘i’ cambiata in ‘y’), particolarmente evocativi: Saussure è per esempio il nome del matematico puro, Mayer quello dell’esperto di statistica e Lapidus quello del farmacologo. Le conversazioni fanno emergere alla coscienza altri ricordi e rivelano, a chi legge, altri dettagli della vita precedente di questo.
Ecco che il motivo dello scarto, dell’occasione perduta, del fuggevole momento di fama, dell’eterno secondo e della depressione incombente affiora nuovamente, con insistenza, e intreccia i suoi richiami con la vicenda storica di Aldrin, il secondo uomo a mettere piede sulla luna; dettaglio questo, che si rafforza se intrecciato al dato di fatto che Lem mise mano al romanzo proprio nel 1969, anno dello ‘sbarco’ sulla luna. Tante domande si affollano alla mente di chi legge Febbre da fieno: Non c’è scampo alla pressione del caso? La scelta individuale è destinata cadere rovinosamente? Inoltrarsi nella lettura equivale a esplorare ulteriori domande e risposte intorno al dilemma centrale.
C’è una forma di libertà, invece, che si rivela proprio nelle ultime righe del romanzo. Essa ha a che vedere con la scrittura, come Stanislaw Lem ebbe modo di ribadire nel 2001 in un’intervista a Piergiorgio Odifreddi. Ne affido la scoperta ai lettori e alle lettrici di Febbre da fieno.

© Anna Maria Curci

 


Febbre da fieno di Stanislaw Lem è stato al centro dell’incontro dell’8 novembre 2020 nell’ambito dell’iniziativa “Aperitivo con libro

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