“Il sabato tedesco”, rubrica da me curata per Poetarum Silva, prende il nome da un racconto di Vittorio Sereni e si propone di raccogliere riflessioni, conversazioni, traduzioni intorno a testi letterari. La quindicesima tappa è un invito alla lettura di Brigitte Kronauer, una scrittrice che meriterebbe di essere tradotta e conosciuta anche in Italia. (Anna Maria Curci)
Brigitte Kronauer, Il deserto e il suo profeta (su Geertgen tot Sint Jans)
Tra i più bei pomeriggi estivi della mia infanzia vanno sicuramente annoverati quelli in cui, in un angolo del giardino accanto a una distesa di macerie, giocavo con il nostro paziente cane Alex a mettere in scena quadri: Santa Genoveffa nella natura incolta, eremiti in rocciose regioni boschive e in luoghi riparati. Il cane interpretava di preferenza la cerva o il leone.
Ancora oggi le foto sui giornali di eremiti moderni, indubbiamente non del tutto per loro scelta, di donne e uomini anziani con cane, gatto, pappagallino ondulato, mi appaiono come qualcosa di emblematico, come figure araldiche della convivenza cordiale di persone solitarie con la loro fauna, ben disposta nei loro confronti, loro alleata in maniera esemplare.
L’“animale della casa” che Geertgen ha posto accanto al Battista e profeta è, a differenza della figura centrale e dei suoi piedi, un agnello leggiadro, quasi in posa di danza, il “deserto” un prato verde con vista su una città in filigrana, Giovanni stesso inimmaginabile come predicatore itinerante, niente affatto, poi, come uomo corteggiato appassionatamente da Salomè, con conseguenze mortali per lui. Peraltro come tipo è protagonista costante dei dipinti di Geertgen, e si suppone che in lui sia raffigurato l’artista stesso, l’olandese morto intorno al 1490 all’età di 28 anni, che non viveva nella foresta o nel deserto, ma, come pittore ufficiale, nel convento dell’Ordine di San Giovanni a Haarlem.
Sta meditando? È vero che, nella parte superiore del dipinto, con il gomito sul ginocchio, il mento e la guancia appoggiati alla mano, egli assume la rituale posa da pensatore alla Walther von der Vogelweide, ma dietro i suoi occhi non c’è un intelletto al lavoro. Sta dormendo, osservando, pregando, provando cordoglio? Si trova nella condizione di estasi visionaria? Gli occhi sonnecchianti in modo peculiare non fanno pensare né a un’attività intellettuale né a un’attività emotiva; viene da pensare invece a uno stato mentale, non dipendente da ebbrezza, di svagatezza, a vuoto mistico, all’assaporare un’assenza più che a uno stato di trance. E per questo la solitudine in mezzo alla natura è il luogo migliore. Un’esistenza da eremita elevata a potenza. Distacco non solo dal mondo, anche da sé. È un santo indulgere nel mantenere la distanza che, grazie al soggetto venerando, diventa indulgere sacrosanto. Dal momento che si tratta della versione ideale della mia condizione preferita, Geertgen non ritrae qui soltanto Giovanni e sé stesso, ma anche un poco me.
Spiccati tratti distintivi del Battista, se si prescinde dagli occhi profondamente assorti all’altra estremità del corpo in posizione di abbandono, sono i piedi tozzi dalla personalità marcata, base terrena, vestigia della vita lavorativa, che ingannano il tempo l’uno con l’altro come servi impacciati, dimenticati. Il ritratto del Battista, tuttavia, non si limita affatto ai contorni della sua figura. Si estende fino ai quattro angoli del dipinto. Tutto ciò che si vede è Giovanni, tutto ciò che si vede è – in ampia corporeità – paesaggio. I piedi, fedeli servitori, hanno forse già iniziato a tramutarsi in un nodoso apparato di radici. Gli occhi, punti minuscoli esattamente al centro del tutto, non sono altro che due strettoie nere, fori attraverso i quali si viene introdotti – una cateratta personale – ai prodigi di una natura che vibra in modo languido-melodico, in un regno mite, muscoso, sognante, con il quale lui, seduto, nella tunica color corteccia e nel mantello verdeazzurro, si è messo in sintonia osmotica, cosicché tutto sembra respirare allo stesso ritmo, il suo corpo, gli animali brunastri, le colline azzurre in lontananza e verdi da vicino.
La natura che lo avvolge non è demandata a illustrare i suoi stati d’animo; piuttosto la sua anima è sul punto di coincidere con quella, con una terra paradisiaca di luce tenue (che, come si afferma, nei Paesi Bassi dopo Jan van Eyck nessuno aveva più dipinto così), con foglie cesellate e volte sparse di animali spensierati.
Un orso, ancora stordito dalla sua conversione al cristianesimo avvenuta di recente, un essere umano durante la metamorfosi in una creatura naturale che di lì a poco bramirà per lodare Dio? A ogni modo, un essere la cui sagoma, con il capo reclinato e la linea del corpo livellata, senza insistere su alcuna gerarchia, è quella di un pezzo di roccia. Contro l’apparenza di una staticità dominante si percepisce il vortice tra essere umano e natura, il trasformarsi senza riserve, il trascorrere della figura, esteriormente quieta, nel paesaggio sullo sfondo, che si estende in profondità. Solo un poco di pelle nuda sul viso e alle estremità resta visibile. L’abbigliamento non funge da residuo culturale, ma piuttosto da vello già nel passaggio da uno stato all’altro.
Tutto questo si può cogliere senza prendere in considerazione il livello simbolico. Eppure si tratta di un quadro religioso, anche se ciò, in senso stretto, riveste un ruolo minore rispetto a un dipinto dello stesso titolo del coevo Bosch o nel quadro della Crocifissione del pittore, di poco più giovane, Matthias Grünewald, con il riferimento fin troppo evidente del Battista al sacrificio di Cristo. Al Giovanni di Geertgen sembra essere sfuggita la bianca creaturina con tutta la sua simbolicità, così come lui sembra essere sfuggito a sé stesso. E sembra quasi che il pittore, come per compensare la dimensione terrena con la sua religiosità, abbia quindi posto sulle teste dell’agnello e dell’uomo un nimbo appena accennato.
Ma non è vero, forse, che anche l’orizzonte del paesaggio ha un’aureola simile, se non addirittura più vistosa, rispetto a ciò che appare più ad est al mattino e più a ovest la sera?
Il figlio di Dio di cui parla la Bibbia ha preferito farsi rappresentare da un animale piuttosto che da un essere umano, da un agnello, a cui il suolo fa da morbido cuscino. Sia il profeta Isaia sia Giovanni nel deserto fanno ricorso a immagini della natura, quando descrivono i preparativi che sono richiesti all’anima per l’incontro con Dio. Essa deve trasformarsi in una terra soave. Siamo spettatori di come Giovanni compia questo atto.
Lo spirito e l’anima necessitano di manifestazioni della natura, perché possano essi stessi palesarsi per il tramite di allegorie. Non è la natura ad aver bisogno di noi, per diventare metafisica, ma siamo noi che abbiamo bisogno di essa. Anche per acquisire metafore.
[da: Brigitte Kronauer, Die Einöde und ihr Prophet. Über Menschen und Bilder, Klett-Cotta 1996, 102-105; prima pubblicazione su „art“ N. 10 (1993)]
Traduzione di Anna Maria Curci
Brigitte Kronauer (Essen, 29 dicembre 1940 – Amburgo, 22 luglio 2019) è stata una scrittrice tedesca, autrice di volumi di racconti, di romanzi, di saggi e di un radiodramma. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Premio Fontane nel 1985, il Premio Heinrich Böll e il Premio Ida Dehmel nel 1989, il Premio Grimmelshausen nel 2003, il Premio Büchner nel 2005, il Premio Jean Paul nel 2011, il Premio Thomas Mann nel 2017. Die Einöde und ihr Prophet. Über Menschen und Bilder (“Il deserto e il suo profeta. Su persone e quadri”), volume pubblicato con Klett-Cotta nel 1996, raccoglie ventuno racconti e otto saggi su opere d’arte figurativa.