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Giulia Bocchio, Il Maestro Elio Lentini: Picasso, la scultura e un certo Antonio Aniante

Provate a immaginare questa scena: siamo a Vallauris, è pieno giorno, fa molto caldo ma non è il caldo il problema, il problema è che spesso non si sa chi diventare e allora servono dei maestri – non gli Antichi Maestri delle pagine di Thomas Bernhard –, dei grandi maestri. E quando capita di incontrarli sono in genere persone dall’aria vissuta, persone che mantengono un sorriso semplice e profondo, persone che sanno raccontare aneddoti e leggende. E non è crederci il punto.
Il punto è esserci. Il punto è la sospensione del momento e la totalità della percezione.
Quel giorno a Vallauris un critico d’arte che si reggeva incerto al suo bastone di legno accompagnò un giovane aspirante scultore presso un atelier che sembrava una fattoria senza animali e da lì vi uscì un uomo anziano che aveva la grazia, la curiosità e l’allegria di un bambino. Quell’uomo era Pablo Picasso. Il critico era il grande scrittore Antonio Aniante e l’aspirante scultore si chiamava Elio Lentini.
Fu un pomeriggio d’argilla, fumo di sigaretta e forno, commozione e ricordi. D’altra parte era già stato Seneca a ricordare all’uomo ambizioso che la fortuna non esiste, esiste piuttosto il momento in cui il talento incontra l’opportunità.
Incontrare Picasso fornì al giovane artista Lentini quella commozione e quel sentimento di pura motivazione utile a rendere più viva la materia, proprio come stava sperimentando Picasso stesso con la ceramica. Maneggiare l’opera e darle un’anima. Il pensiero che diviene finalmente forma.
Incontrare Antonio Aniante, a Ventimiglia, città di confine per entrambi, fu per Elio Lentini non tanto un’epifania artistica quanto un “ingaggio umano” nel segno dell’espressività, dell’autodeterminazione.
Aniante, un nome che oggi vi dirà poco, forse nulla, era stato il più geniale autore teatrale d’avanguardia, uno che piaceva a Marinetti e al Bragaglia, e che aveva fondato a Parigi la galleria d’arte Jeune Europe e lì, tra i primi, aveva scoperto la grandezza di De Chirico, ma i soldi erano pochi, la Ville Lumière difficile e il pubblico sempre d’umore instabile.
Insomma, aveva scritto una grande pagina di letteratura italiana ma era passato inosservato, era stato espressivamente più coraggioso di un certo Pirandello, ma ahimè meno famoso. E con un rapporto complicato con gli editori.
Ma a Parigi aveva vissuto d’arte e condiviso tutto con coloro che oggi vediamo esposti nei più grandi musei del mondo. Di arte figurativa se ne intendeva ed ecco che colse subito in Elio Lentini la fiamma della creazione, dell’impronta che si fa segno tangibile nella memoria.
Nel 1965 fu proprio Aniante a spronarlo a esporre le sue opere: furono anni straordinari in cui lo scultore partecipò a prestigiose esposizioni internazionali in città iconiche, che sanciranno la sua consacrazione, come Tokyo, New York, Parigi, Strasburgo, Madrid, Roma, la Biennale di Mentone.
Oggi Lentini è riconosciuto come il caposcuola del realismo magico e le sue incisioni, le sue sculture metalliche, continuano a fare il giro del mondo.
All’esperienza del Maestro s’è aggiunta poi la gratitudine umana: in nome della sua decennale amicizia con Antonio Aniante è nata l’omonima Associazione Culturale Aniante-Lentini, con sede a Ventimiglia.
Le affinità elettive tra il grande scrittore e colui che oggi può essere considerato tra i più grandi scultori italiani viventi, favorirono un incessante interscambio umano, morale, esperienziale e culturale che ebbe termine solo con la morte di Aniante, avvenuta nel 1983, e che rappresenta oggi una ricchezza nascosta che l’Associazione si propone di recuperare, studiare e divulgare a livello internazionale.
L’arte contemporanea ha così in Elio Lentini un esponente di spicco; un linguaggio il suo che oscilla fra l’astratto e il concettuale: la materia genera materia ed è rigenerata dall’artista stesso, in un’interdipendenza umanissima e viscerale.
In nome della libertà espressiva più pura.

© Giulia Bocchio

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