Getto la sigaretta tra i binari e dopo un attimo vorrei saltare giù a raccoglierla, ma il treno arriva fischiando, serpeggia lentamente sugli scambi prima di dirigersi verso la banchina. Devo cambiare. Abbiamo pessime abitudini, noialtri, come quella d’inquinare o saltare sotto i treni. Le ruote stridono e fumano nell’aria fredda. Le porte si aprono.
Supero valigie e sguardi cupi e trovo posto in un vagone che puzza di corpi stanchi e freni surriscaldati. Mi accomodo pensando al colloquio di lavoro, a quello che ho detto, all’impressione che potrei aver dato. Il mio braccio ha uno spasmo involontario e do di gomito alla ragazza che mi siede accanto. Chiedo scusa con un cenno. Lei sorride e torna alla dispensa posata sulle sue gambe. Mastico una gomma per mitigare l’odore di vino bevuto al bar della stazione e poi mi stringo contro la parete. Guardo fuori dal finestrino. Il viso del ragazzo che pian piano si allontana dalla mia visuale, seduto sull’altro treno, ha una malinconia familiare. Penso ai tre amici con cui sono cresciuto, che ora immagino soli da qualche parte a pagare il prezzo di una separazione, di un sogno mai avverato, di un’omosessualità insabbiata. Vorrei chiamarli ma l’idea già mi stanca. Ci teniamo le cose finché le cose non diventano un cancro. Siamo degli amici di merda.
Riflessa sul vetro, vedo la ragazza al mio fianco raccogliere lo zaino, alzarsi e andare via con il telefono premuto sull’orecchio. Oltre il vetro riappare la stazione. Credevo di essere partito, invece era il treno accanto.
AL PARCO
Varca i cancelli del parco e imbocca il selciato che conduce al laghetto artificiale, un selciato sconnesso dalle radici degli alberi. Evita pozze d’acqua e foglie bagnate.
Snoda i manici del sacchetto, frantuma il pane nel pugno, siede su una panca asciutta ai piedi del lago. Gli piace venire qui a quest’ora, nel giorno libero di un lavoro che detesta, gli piace vedere padri e madri e figli all’uscita da scuola.
Getta una manciata di pane nel lago e un cigno si avvicina aggirando un tronchetto che galleggia a fior d’acqua. Una trota rompe lo specchio verde e abbocca un pezzo di pane. Un secondo cigno, sbucato dalla boscaglia di un isolotto, raggiunge l’altro che ha già iniziato a beccare. Un piccolo stormo di tortore atterra accanto alla panchina e lui sparge a terra del pane. I cigni guardano mostrando un lato della faccia per volta.
Un bambino sopraggiunge correndo, come l’uomo sperava. Il bimbo chiede se può lanciare del pane e così gli porge il sacchetto risvoltandone l’estremità. Un pugnetto di briciole punteggia l’acqua.
«Cos’era quello?» chiede il bimbo, pulendosi la mano sul giubbotto.
«Una carpa koi».
«Uau…», dice, e pesca dell’altro pane dalla busta.
«Chiedimi qualcos’altro», dice l’uomo. «Io ne so di cose, sai?»
Il piccolo sgrana gli occhi e si infila un dito nel naso, poi parte a razzo quando una voce esplode nell’aria per richiamarlo. Le tortore frusciano spaventate.
L’uomo chiude il sacchetto e si mette a braccia conserte. Scivola in avanti sulla panchina e, allungando le gambe, traccia due solchi nella terra. Si guarda le scarpe. Scarpe che ha trovato svuotando l’appartamento del figlio. Un tantino grandi, a dire il vero, ma ancora buone per camminare.
IL NUOTATORE
«Perché era così deciso a portare a termine il suo viaggio,
anche se ciò poteva mettere a repentaglio la sua stessa vita?»
– John Cheever, Il nuotatore
Sogno le frasi che vorrei dire mentre cammino verso di te. Mi fermo a ogni bar durante il tragitto. Non guardo negli occhi nessuno. Mi viene servita la birra e poi do le spalle al banco. Guardo fuori. Fuori è qualcosa che non capisco. Le cose accadono ancora, ma è come guardare da un buco nel muro.
Procedo lungo il viale, sotto due file di alberi. È calato il buio. Un soffio di vento scuote i rami e il frutto di un acero frulla nell’aria sopra di me, come un’elica. L’insegna di un altro bar, l’ultimo che incontrerò, pulsa d’azzurro al termine del viale.
Arrivo sotto casa tua. Le persiane del secondo piano sono chiuse, ma l’appartamento è illuminato dalla lampada a stelo. Attendo un movimento, un pezzo di te, un’eclissi.
Suono il citofono. La tua ombra appare dietro le assicelle, scompare dietro il muro, riappare nell’altra finestra mentre attraversi la sala. Vai più piano, per favore; te lo sussurro sempre. Torna indietro, fatti rimpiangere ancora un po’.
«Sì?»
La tua voce metallica, la tua voce arrugginita.
«Chi è?»
Non so mai risponderti.
Torno al delta del fiume per risalire la corrente. Penserai a qualche stupido ragazzino che si diverte, invece è soltanto uno stupido.
Ivan Ruccione è nato a Vigevano (PV) nel 1986. Alcuni suoi racconti sono apparsi su vari blog e riviste tra cui Nazione Indiana, Poetarum Silva, Altri Animali, Cattedrale; nelle americane AGNI Magazine (Boston University), Minute Magazine, The Daily Drunk e UnPublishable. È autore della raccolta Troppo tardi per tutto (Augh! Edizioni, 2019), prefazione di Helena Janeczek. Gestisce Mirino, un lit-blog dedicato alle scritture brevissime in prosa.
I testi proposti sono tratti da Tra le cose e gli altri, in uscita nel 2021 per Arkadia, collana SideKar.
Una replica a “Una domenica inedita #2: Ivan Ruccione, Tre prose”
Davvero, davvero belli e delicati questi scritti di Ivan Ruccione.
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